1 - La svolta di Diocleziano e le riforme

Unità 10 IL TARDOANTICO E L’ALTO MEDIOEVO >> Capitolo 26 – La divisione dell’impero

1. La svolta di Diocleziano e le riforme

Nel corso del III secolo d.C., l’impero aveva dovuto fronteggiare diversi momenti di crisi:

  • la grave instabilità politica e militare causata dalle lotte tra gli imperatori nel cinquantennio di anarchia militare;
  • le crescenti minacce e pressioni provenienti da Oriente, con il consolidamento dell’impero sasanide in Persia e la nascita, nelle province orientali, di governi locali che si ponevano in continuità con la tradizione romana ma in opposizione con il suo potere, come l’esperienza, seppur breve, della regina Zenobia con il regno di Palmira;
  • le pressioni dei Germani alle frontiere nordoccidentali e sui Balcani.

Queste minacce avevano richiesto ingenti investimenti di denaro per l’esercito e avevano prosciugato gran parte delle risorse finanziarie ed economiche dell’impero. Tuttavia Roma disponeva ancora di una forza economica, politica e militare di rilievo, tanto che per il momento, pur tra molte difficoltà, i suoi domini e l’estensione dei suoi territori reggeva l’urto degli attacchi esterni. Inoltre, gli imperatori Diocleziano e Costantino avviarono riforme profonde che portarono a un nuovo assetto nel governo dell’impero per ristabilirne la solidità e il controllo del Mediterraneo.

Diocleziano: un periodo di maggiore stabilità dell’impero

Marco Aurelio Caro (282-283), l’ultimo imperatore del periodo dell’anarchia militare, era morto durante l’ennesima campagna contro i Sasanidi. Uno dei suoi più validi comandanti militari, Caio Aurelio Valerio Diocle, nato da una famiglia di umili origini della provincia della Dalmazia (Illiria), nel 284 fu acclamato imperatore dalle sue truppe e assunse il nome di Diocleziano con cui sarebbe stato chiamato da allora in avanti.
La sua ascesa al trono sancì la fine di un periodo assai travagliato e ripristinò l’unità e l’autorità delle istituzioni statali, inaugurando una fase di stabilità che durò per quasi tutti i vent’anni del suo principato (285-305). Tuttavia i problemi erano numerosi: la crisi economica, acuita dai conflitti esterni e interni che avevano danneggiato le attività produttive e i commerci; le ribellioni in varie province – per esempio in Gallia –, che rivendicavano apertamente la propria autonomia dal dominio imperiale.

L’impero si divide in due parti: Roma non è più capitale

Consapevole dell’impossibilità di governare personalmente un impero così vasto in una situazione complessivamente tanto gravosa, nel 286 Diocleziano decise di condividere il potere con un suo fedele commilitone, Valerio Massimiano, originario della Pannonia, al quale era unito da profonda e consolidata amicizia. A Massimiano fu affidato il controllo della parte occidentale dell’impero, con particolare attenzione alla difesa delle frontiere lungo il Reno e con il compito di reprimere le rivolte della Gallia. Diocleziano mantenne invece per sé il controllo della parte orientale dell’impero, impegnandosi soprattutto nel consolidamento della frontiera lungo il Danubio e nel mantenimento del governo imperiale nelle province orientali.
Per essere più vicino ai fronti delle operazioni militari e per evitare che le difficoltà o i ritardi nei collegamenti potessero compromettere le campagne di guerra, egli decise il trasferimento della sede imperiale d’Oriente da Roma a Nicomedia, nella provincia della Bitinia (Anatolia nordoccidentale), mentre Massimiano scelse per le stesse ragioni Milano come sede d’Occidente.
Lo spostamento della capitale era il segno della definitiva perdita d’importanza politica ed economica di Roma, lontana dalle zone militarmente “calde” e situata in un territorio impoverito. La ricchezza delle regioni orientali consentiva poi a Diocleziano di poter contare su maggiori entrate fiscali rispetto a quelle disponibili a Roma e in Occidente.
La decisione di stabilire la sede imperiale in Oriente andava incontro anche alla mutata concezione della figura dell’imperatore. Qui Diocleziano poteva legittimare il proprio potere attraverso la divinizzazione della sua figura, propria delle tradizioni politiche locali. Avvolgendo la sua persona di un’aura di sacralità, egli poté imporre un potere assoluto che nella penisola italica e in Occidente sarebbe stato difficilmente accettato. Con Diocleziano giunse a compimento un processo che era già iniziato con i Severi: l’imperatore smise anche formalmente di essere il primo magistrato dello Stato (un primus inter pares come era stato dal tempo di Ottaviano Augusto), per divenire a tutti gli effetti un monarca. La trasformazione fu accompagnata da cerimoniali sempre più complicati nei riguardi dell’imperatore (come la  proskýnesis, cioè l’ossequio), impensabili fino a pochi anni prima.

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Augusti e Cesari: la tetrarchia

Gli effetti positivi della prima divisione dell’impero consentirono a Diocleziano di consolidare i confini e ricompattare le istituzioni statali: ciò lo spinse a promuovere, nel 293, la suddivisione dei domini romani in quattro prefetture (cioè comandi militari). Il sistema fu chiamato tetrarchia e prevedeva la ripartizione del potere tra due “Augusti” e due “Cesari”, questi ultimi in posizione subordinata e scelti dagli Augusti.

  • Diocleziano, che attribuì a se stesso e a Massimiano la carica di Augusto, mantenne la prefettura dell’Oriente, con capitale Nicomedia.
  • A Massimiano fu affidata la prefettura dell’Italia, con capitale Mediolanum (Milano) scelta al posto di Roma perché più vicina ai confini settentrionali e per la presenza di vie di comunicazione che la collegavano alle province periferiche. Massimiano controllava anche l’Africa nordoccidentale.
  • La prefettura dell’Illirico, con capitale Sirmio (città situata sulla riva del Danubio, in Pannonia), fu destinata a Galerio, Cesare di Diocleziano.
  • La prefettura delle Gallie, con capitale Treviri (che si trova invece sul Reno, in Germania), fu affidata a Costanzo Cloro, Cesare di Massimiano.

Più che una vera e propria suddivisione territoriale, si trattò di una ripartizione di competenze: a ogni Augusto e a ogni Cesare vennero affidati compiti specifici e il controllo di un territorio. L’obiettivo era mantenere la sostanziale unità politica dell’impero, attraverso una gestione collegiale (la concordia tra imperatori, propagandata anche sulle monete e nelle iscrizioni).
L’istituzione della tetrarchia mirava a un ulteriore obiettivo (forse considerato da Diocleziano ancor più importante): garantire la continuità istituzionale nel momento della successione al potere e impedire i conflitti tra i pretendenti. Riprendendo infatti la consuetudine della successione per adozione in uso nel II secolo, i due Augusti nominavano i Cesari che sarebbero loro succeduti (e che avrebbero a loro volta nominato i nuovi Cesari). Questo avvicendamento controllato e pianificato avrebbe dovuto garantire la continuità di governo, eliminando i rischi di congiure e di lotte per la conquista del potere.

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La riforma dell’esercito

Il sistema della tetrarchia avvicinava la capitale di ogni prefettura alle frontiere, rispondendo all’esigenza di controllo diretto dei confini, e permetteva a ogni tetrarca di spostarsi più rapidamente sul territorio, di mostrarsi più spesso alle popolazioni e comandare più efficacemente le legioni stanziate nelle proprie province.
La ripartizione dell’autorità imperiale era inoltre utile a garantire la stabilità istituzionale, limitando le ambizioni di potere dei comandanti militari. A questo obiettivo concorreva anche l’importante riforma dell’esercito avviata da Diocleziano e portata avanti dal suo successore. Essa prevedeva l’aumento del numero complessivo di soldati (fino a 59 legioni per un totale di 400 000 o più uomini, con l’arruolamento anche di Germani), organizzati però in legioni più ristrette, in modo tale che i generali non potessero disporre di quantità di soldati tanto ampie da mettere in pericolo la stabilità del potere imperiale. L’esercito fu inoltre diviso in due settori: quello dei limitanei, stanziati a difesa dei confini, e quello dei comitatenses, le truppe scelte destinate a seguire l’imperatore o a intervenire nei luoghi in cui fosse richiesto.

• SOTTO LA LENTE • CRITICA STORICA

La crisi: un processo ciclico

Il tema della “crisi” e della “caduta” dell’impero romano ha sollecitato storici e filosofi sin dalle riflessioni di Montesquieu (1689-1755) che ne attribuiva la causa alla decadenza morale, alla corruzione, al lassismo dei costumi. A dedicare una vasta ricerca alla decadenza dell’impero romano, preludio alla vera crisi sviluppatasi nel III secolo e alla successiva rovina, è stato lo storico inglese Edward Gibbon (Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, 1776-1788) questo studio gli consentì indirettamente anche una riflessione sulla natura dell’impero britannico, allora all’apogeo. La sua ipotesi venne accolta dagli storici successivi senza metterne in dubbio la validità, sebbene lo stesso Gibbon abbia posto, senza risolverlo, un problema: «Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo». Se si assume infatti l’ipotesi che la crisi sia iniziata nel III secolo, bisogna spiegare come mai l’impero sia “sopravvissuto” per circa tre secoli: una crisi eccessivamente lunga. Nell’affrontare la questione gli storici sono giunti a sottoporre a revisione lo stesso concetto di crisi.
Con quel termine la tradizione storica allude alle turbolenze, alle difficoltà nel contrastarle, al disorientamento collettivo, attribuendone le cause al declino morale, spirituale e culturale. È però un modello di lettura che la ricerca ha in parte ridimensionato. Sebbene oggi il confronto tra gli storici sia ancora vivace tra chi pensa che l’origine della crisi sia da collocare alla metà del II secolo e chi invece ritiene inizi più tardi, su alcune questioni si ha una sostanziale convergenza di opinioni.
Le prime avvisaglie si manifestarono con Marco Aurelio, ma i Severi la fronteggiarono con discreta efficacia. Più pericolosa fu la crisi successiva alla morte di Alessandro Severo, a cui fece seguito la ripresa seguita da una successiva crisi che impose un adattamento istituzionale e politico alle mutate condizioni economiche e sociali. Si ebbe cioè un andamento ciclico di crisi a cui l’impero romano diede risposte più o meno efficaci, ma mai rinunciatarie o soccombenti. Le varie “crisi” riguardarono in modi diversi e in tempi diversi le zone dell’impero (la Gallia meno dell’Italia e l’Oriente meno della Spagna). Neppure l’assedio degli “invasori” fu decisivo: la pressione ai confini di popolazioni non romane, ma in larga misura romanizzate, non mirava infatti alla “distruzione” dell’impero ma semmai a godere di benefici che loro stesse avevano contribuito a consolidare. Inoltre, malgrado i ripetuti traumi politici causati dai troppo rapidi cambi di imperatori (un quarantennio tragico dopo la morte di Antonino Pio, che lo storico A. Ziolkowski definisce un «mezzo secolo nero»), per tutto il periodo si mantenne la continuità istituzionale. La crisi dunque fu originata da una serie di concause che si intrecciarono e produssero effetti a lunga distanza.

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Le diocesi e la nuova geografia amministrativa

Le riforme contribuirono alla ripresa e al consolidamento politico dell’organismo imperiale anche attraverso l’introduzione di una nuova suddivisione amministrativa, che sostituì le antiche province con dodici circoscrizioni più piccole: le diocesi. Queste erano governate da funzionari imperiali con incarichi giudiziarie e fiscali, i vicari, scelti tra i membri dell’ordine equestre. A loro volta le diocesi furono divise in un centinaio di nuove province di estensione molto più ridotta rispetto a quelle precedenti: anche questo provvedimento mirava a impedire che i governatori locali potessero acquisire un potere eccessivo, in grado di compromettere la solidità delle istituzioni. Per lo stesso motivo, nelle nuove province le cariche civili vennero nettamente separate da quelle militari e assegnate a funzionari diversi.
La riforma amministrativa di Diocleziano sancì il definitivo declassamento dell’Italia da cuore dell’impero a semplice diocesi (la “diocesi italiciana”), equiparata a tutte le altre. Diocleziano e Massimiano suddivisero l’Italia in circoscrizioni, che affidarono a governatori civili, ed estesero all’Italia il sistema fiscale (e giudiziario) in vigore nelle province. Questo comportò anche per gli Italici l’obbligo di versare i tributi previsti per tutti gli altri territori imperiali e dunque la fine di ogni trattamento di riguardo.

Nuove forme di tassazione e il ruolo del catasto

Per rendere più efficiente la complessa organizzazione dell’amministrazione imperiale, controllare i governi locali e assicurare la difesa dei confini, il numero dei funzionari impiegati nella burocrazia statale venne aumentato e la loro selezione fu legata più strettamente al controllo dell’imperatore. La creazione di un imponente apparato burocratico, organizzato su vari livelli gerarchici, accelerò però il prosciugamento delle finanze dello Stato. Diocleziano fu dunque costretto ad aumentare le tasse, attraverso una pesante riforma fiscale (287-297). Alle imposte sulle attività artigianali e commerciali, tipiche delle città, furono aggiunte anche quelle sulla produzione agricola delle campagne. Dal momento che gli introiti fiscali variavano notevolmente di anno in anno, rendendo la gestione del bilancio statale incerta, Diocleziano fissò un ammontare di entrate annuali dovute da ogni territorio: ogni provincia aveva una sua quota di tasse, che scaricava sulle civitates e queste sui cittadini che dovevano rispondere per se stessi e per l’intera comunità. Al fine di far gravare il peso delle tasse su tutti i contribuenti in modo il più possibile equo, si fece ricorso, per quanto riguardava le campagne, a un nuovo sistema di tassazione che metteva in correlazione due elementi: l’estensione della terra coltivata (calcolata in base alle giornate lavorative: la  iugatio) e il numero di persone impiegate nel lavoro (detto  capitatio). In questo modo si distingueva tra coltura estensiva (fondo grande, ma lavorato da pochi e quindi meno redditizio) e coltura intensiva (minore estensione del fondo ma lavorato da più lavoratori e dunque più redditizio). Il sistema venne detto della capitatio/iugatio e rimase in vigore per alcuni secoli.
Per garantire l’applicazione di questi parametri, l’imperatore riformò anche le procedure per il  censimento: a intervalli regolari (prima ogni cinque anni e poi ogni quindici) i funzionari preposti (i censitores) avviavano un aggiornamento della registrazione degli abitanti e di tutte le proprietà terriere, sulla cui base si sarebbero pagate le tasse. Si veniva così a istituire il  catasto, cioè un sistema di accertamento dell’imponibile relativo, da un lato, al numero dei coloni, la forza lavoro impiegata (hominum numerus) e, dall’altro lato, alle superfici di terreni tassabili, la proprietà fondiaria (agrorum modus). Della riscossione delle tasse erano incaricate speciali figure, i decuriones, burocrati alfabetizzati, organizzati in un consiglio e dislocati su tutto il territorio nazionale.

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La crisi nelle campagne e il sistema della precettazione

La riforma fiscale ebbe gravi conseguenze in particolare nelle campagne, da tempo in situazione di crisi, soprattutto presso i piccoli proprietari, appesantiti dalle nuove tasse. La coltivazione della terra, struttura economico-produttiva fondamentale per l’impero romano, era da sempre stata condizionata da necessità di arruolamento militare, che sottraeva forza lavoro alla campagna. Nel II secolo, anche in conseguenza del diminuito afflusso di schiavi, la gestione del latifondo e le caratteristiche del colonato conobbero una nuova evoluzione. I grandi proprietari trasformarono le fattorie in complessi centri rurali, del tutto autosufficienti dal punto di vista economico, dal momento che producevano al loro interno tutto quanto era necessario per le persone che vi risiedevano ed erano prevalentemente chiusi agli scambi commerciali con l’esterno e con i centri urbani. Erano le villae rustiche o coloniche. Molti contadini, che erano stati costretti, per sopravvivere, a divenire coloni dei latifondisti, cedettero loro anche il possesso della terra. Nacque così il patronato, in base al quale i coloni che alienavano la propria terra in favore di ricchi proprietari terrieri (patroni) perdevano il diritto di cederla in eredità ai loro figli; per poter continuare a coltivarla, inoltre, dovevano pagare ai patroni un affitto (una parte del raccolto). In cambio i latifondisti garantivano loro il necessario per sopravvivere, la liberazione dal peso delle tasse e la difesa dai rischi di saccheggi da parte dei briganti.
La cronica carenza di manodopera, inoltre, aveva fatto nascere anche la figura del servus quasi colonus: uno schiavo lasciato libero nella villa, responsabile dei lavori che gli erano affidati e autonomo nello scegliersi il sostentamento, dunque trattato come un colono libero, però vincolato alla terra.
La situazione delle città non era certamente migliore, essendo esse colpite dallo spopolamento e dall’impoverimento dei ceti artigiani. In un simile contesto rimaneva allora priva di qualsiasi efficacia la riforma fiscale, che non poteva contare, per garantire entrate fisse, su attività produttive (rurali e cittadine) stabili e continuative. Inoltre anche la pro duzione agricola diminuiva e perciò si riducevano gli approvvigionamenti dei prodotti di prima necessità alle città. Così Diocleziano estese ai coloni lo stesso vincolo del servus quasi colonus: impose loro di non abbandonare il luogo di residenza, e ai loro figli di continuare le attività dei padri (secondo il principio dell’ereditarietà dei mestieri, che vietava ai giovani di scegliere liberamente la propria professione); decretò poi la stessa imposizione per gli abitanti delle città. Era il sistema della precettazione, che obbligava con la forza ogni abitante dell’impero a continuare il proprio lavoro senza potersi muovere, nemmeno in caso di carestia o grave necessità. Per i lavoratori delle campagne questo provvedimento comportava un vincolo ulteriore: in caso di vendita degli appezzamenti coltivati essi venivano ceduti, come gli animali e gli attrezzi agricoli, insieme ai poderi dei loro patroni. I contadini divennero praticamente proprietà personale dei patroni, in una condizione simile a quella degli schiavi. Pur essendo formalmente liberi, i coloni restavano di fatto legati per tutta la vita alla terra che coltivavano e i loro figli non avevano alcuna opportunità di migliorare la propria condizione sociale. Il sistema si protrasse per secoli e fu all’origine della condizione poi detta servitù della gleba.

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L’inflazione e l’editto dei prezzi

L’aumento delle tasse portò un maggior afflusso di denaro alle casse dello Stato che lo investì subito, determinando però in questo modo da una parte i presupposti per la formazione del  disavanzo statale e dall’altra, a causa dell’aumentata circolazione monetaria, un aggravamento dell’inflazione, fenomeno già in atto. Dapprima Diocleziano cercò di porvi rimedio con una radicale riforma monetaria: creò un sistema bimetallico (monete di oro e monete d’argento) affiancato, per lo scambio quotidiano, da un denarius di rame imbiancato. L’effetto fu disastroso: si fece incetta di oro e l’aumento dei prezzi fu vertiginoso. Nel 301 Diocleziano emanò un editto dei prezzi per stabilire il costo massimo di una serie di merci e il valore dei salari.
L’editto fissava in 25 denari giornalieri il compenso di un contadino, 60 quello di un falegname, 50 di un fabbro e un fornaio, 20 di un pastore; un barbiere percepiva 2 denari per ogni cliente, un maestro 50 denari al mese per ogni studente, un avvocato 250 denari al mese per ogni processo. Un contadino doveva lavorare un giorno intero per acquistare un chilogrammo di carne bovina o un litro di olio di oliva (che costavano circa 24 denari); di più per procurarsi un pollo (che si trovava a circa 30 denari). Il calmiere, come si definisce un provvedimento che fissa per legge il prezzo massimo di vendita di un bene o di un servizio, provocò però effetti opposti a quelli per cui era stato emanato, alimentando ulteriormente l’inflazione. Le merci elencate dalla norma di Diocleziano scomparvero così dal mercato ufficiale per essere vendute a prezzi molto più elevati nel  mercato nero. La crisi economica si aggravò e il malcontento della popolazione costrinse Diocleziano a ritirare il suo provvedimento già nell’anno successivo.

passato&presente

La servitù della gleba: una condizione che resiste fino alle soglie dell’età contemporanea

Il meccanismo della precettazione introdotto dall’imperatore Diocleziano e il sistema del colonato furono alla base della prima affermazione di uno status giuridico che avrebbe caratterizzato la condizione contadina per gran parte della storia successiva. Si tratta della servitù della gleba, diffusasi in Europa nei secoli dell’alto Medioevo e rimasta presente, in forme diverse, per tutta l’età moderna. Le sue caratteristiche mutarono secondo i luoghi e il tempo. In Europa occidentale, nel corso dell’età moderna (tra i secoli XVI e XIX) gli oneri a carico dei contadini diminuirono, e l’obbligo di residenza fu gradualmente sostituito da altre imposizioni. Nello stesso periodo, nell’Europa orientale si verificava il fenomeno opposto: la servitù della gleba, prima assente, si radicava in vaste aree della Polonia e della Russia.
In Russia, ultimo paese ad abolirla ufficialmente, i servi della gleba sarebbero stati ufficialmente liberati soltanto nel 1861, con la riforma agraria promossa dallo zar Alessandro II.
Giuridicamente, l’istituto dei “servi della terra” terminò in quella data. Però la questione dello sfruttamento della manodopera contadina in un’agricoltura per lo più estensiva si ripropose periodicamente, poiché si trattava di impedire l’abbandono della terra da parte dei contadini o controllare l’emigrazione quando il loro sovrannumero poneva problemi di coesione sociale. In Italia, per esempio, il governo fascista fece ricorso più volte, a partire dal 1926-1927, a leggi tese a impedire l’esodo dalle campagne e a frenare l’aumento della popolazione urbana, ritenuto eccessivo.
Del resto, se la servitù della gleba sembra un triste istituto legato al passato, sempre più spesso, soprattutto nei paesi poveri, si incontrano realtà di lavoro agricolo e industriale nelle quali il vincolo che lega il lavoratore alla terra o al posto di lavoro assume contorni che sembrano rievocarla.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

DIOCLEZIANO, «PRINCIPE OPEROSO» E «SOLLECITO»

In questo brano, lo storico latino del IV secolo Eutropio, uno dei numerosi esaltatori della figura dell’imperatore Diocleziano, riprende temi che erano stati utilizzati dai critici della prima età imperiale e che ora diventano elementi per un giudizio encomiastico.



«Diocleziano fu un uomo astuto, perspicace e di ingegno assai sottile, inclinato a dar soddisfazione alla propria severità a prezzo della buona fama altrui. Fu tuttavia un principe operoso ed estremamente sollecito dello Stato; per primo introdusse nell’impero romano le forme esteriori della regalità piuttosto che della libertà romana e impose che lo adorassero, mentre prima di lui gli imperatori venivano soltanto salutati. Si fece ornare di gemme, vesti e calzature. Infatti prima di lui la sola insegna del potere era il mantello di porpora, mentre per il resto gli imperatori vestivano come gli altri. […] Quando per l’età avanzata Diocleziano ebbe l’impressione di non avere più l’energia sufficiente a governare lo Stato, suggerì a Massimiano che si ritirassero entrambi a vita privata e affidassero a mani più giovani e vigorose il peso del governo. Il collega gli diede retta a malincuore. Tuttavia nello stesso giorno deposero le insegne imperiali per diventare privati cittadini Diocleziano a Nicomedia, Massimiano a Milano, dopo aver celebrato uno splendido trionfo su molti popoli. […] Lasciato il governo, Diocleziano invecchiò in splendido ritiro in una villa non lontana da Salona,1 dando prova di singolare virtù, per essere il solo che, dopo la fondazione dell’impero romano, tornasse spontaneamente dai fastigi del potere alla condizione di semplice cittadino. Pertanto gli avvenne ciò che in seguito non toccò più ad alcun altro, di ricevere, pur essendo morto da cittadino privato, onori divini


Eutropio, Breviarium ab urbe condita, IX, capp. XXVI-XXVIII, trad. di B.A. Calvi, SEI, Torino 1965



1. Salona: città sulle coste della Dalmazia vicinissima a Spalato, dove l’imperatore si ritirò in uno sfarzoso palazzo.


PER FISSARE I CONCETTI
  • In quale punto del brano è possibile trovare un riferimento alla riforma tetrarchica? Individualo e sintetizza la riforma.

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille