Terre, mari, idee - volume 1

Unità 8 L’ECUMENE ROMANA >> Capitolo 19 – Roma tra crisi e riforme

La guerra sociale della lega italica

Dopo le minacce dei Cimbri e dei Teutoni, sventate da Mario, Roma dovette affrontare una nuova sanguinosa guerra, combattuta questa volta interamente sul suolo italico: la ribellione degli alleati italici. Essi da tempo sostenevano gran parte del peso delle campagne militari ma, privi della cittadinanza romana, erano esclusi dalle decisioni politiche, non avevano accesso alle cariche pubbliche, non beneficiavano delle distribuzioni alimentari a prezzo politico e dell’assegnazione delle terre e avevano una posizione di subordinazione nello sfruttamento delle province. Erano discriminati persino nei ranghi dell’esercito, non avendo accesso alle posizioni di comando, essendo sottoposti a una disciplina più dura e ricevendo parti minori nella spartizione del bottino. Dal tempo dei Gracchi, questa situazione diveniva sempre più intollerabile.
Nel 91 a.C. il tribuno della plebe Marco Livio Druso, recuperando parte del programma politico di Caio Gracco, promulgò alcuni provvedimenti che avevano l’obiettivo di accontentare i diversi ceti sociali: tentò di introdurre una nuova riforma agraria; ripristinò l’esclusiva senatoria nell’accesso ai tribunali che giudicavano le malversazioni nelle province ma, allo stesso tempo, andò incontro al ceto equestre proponendo l’apertura del senato ai cavalieri; introdusse infine un nuovo calmiere ai prezzi del grano destinato alla plebe e ai proletari.
Gli ottimati, contrari a questi provvedimenti, non erano tuttavia in grado di opporvisi senza l’appoggio di altre forze sociali. Così, non appena Druso avanzò un’ulteriore proposta riguardante l’estensione della cittadinanza a tutti gli Italici, i senatori ne approfittarono per sobillare la popolazione di Roma contro il tribuno, sfruttando – com’era già accaduto ai tempi di Caio Gracco – i timori popolari di dover condividere con altri i propri privilegi di cittadini romani.
Nei disordini organizzati dagli ottimati per bloccare la proposta di legge, Livio Druso fu assassinato. Gli alleati italici, vedendo ancora una volta deluse le loro speranze, scatenarono a quel punto una rivolta violenta e di vaste proporzioni, nota come guerra sociale (ossia la guerra dei socii, gli “alleati”). Numerose città dell’Italia centrale e meridionale si riunirono in una confederazione, la lega italica, creando addirittura uno Stato indipendente con capitale Corfinio (oggi in Abruzzo), ribattezzata Italica, e proprie istituzioni.
Tra il 91 e l’89 a.C. le legioni romane furono duramente impegnate per combattere la ribellione, difficile da reprimere poiché condotta da popolazioni armate e addestrate allo stesso modo dei Romani. Solo in seguito a gravi perdite umane ed economiche Roma riuscì a prevalere, grazie in particolare al valore dei comandanti Lucio Cornelio Silla e Gneo Pompeo Strabone. Nonostante la vittoria di Roma, comunque, le richieste dei socii furono sostanzialmente accolte: già mentre si combatteva fu delineata una soluzione politica al conflitto, prevedendo di estendere la cittadinanza ai rivoltosi che si fossero arresi subito, oltre che agli alleati rimasti fedeli. Il provvedimento aiutò a giungere alla fine del conflitto, che si chiuse definitivamente solo nell’88 a.C. con la caduta dell’ultima roccaforte ribelle, Nola, in Campania. La pace sottoscritta nello stesso anno ristabilì il controllo di Roma sulla penisola e sancì la concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici.
Per evitare che le proposte politiche dei popolari fossero sostenute dai nuovi cittadini italici (che, fin dai tempi dei Gracchi, avevano trovato in questa fazione una sponda alle loro rivendicazioni), gli ottimati imposero che essi venissero iscritti soltanto in 8 delle 35 tribù in cui erano suddivisi i comizi tributi. In questo modo, nonostante fossero dieci volte più numerosi dei cittadini romani prima dell’estensione della cittadinanza, gli Italici non avrebbero potuto essere determinanti nelle votazioni, che venivano espresse per tribù e non per testa. Per partecipare alle assemblee ed esprimere il voto, peraltro, era necessario recarsi a Roma, fatto che ostacolava una piena partecipazione degli Italici alla vita politica della capitale.
Tuttavia, nonostante questi evidenti limiti, le conseguenze della guerra sociale avevano una portata epocale. Era ormai aperta la strada alla completa unificazione politica della penisola, di cui Roma era sempre più il centro di attrazione.

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Lucio Silla e Mario: lo scontro tra ottimati e popolari

Alla fine della guerra sociale Roma appariva sempre più segnata dai contrasti tra i popolari, guidati da Mario, e gli ottimati, raccolti attorno alla figura di Lucio Silla (138-78 a.C.), che aveva acquisito grande notorietà e prestigio proprio nel conflitto con gli alleati italici.
Agli inizi della sua carriera militare, Silla era stato luogotenente di Mario nella guerra contro Giugurta. In considerazione delle sue capacità militari, nell’88 a.C. fu scelto dal senato come comandante della spedizione contro Mitridate VI, re del Ponto (regno dell’Anatolia settentrionale affacciato sul mar Nero) che, assunta la guida della rivolta dell’Asia minore contro le sopraffazioni dei mercanti e dei pubblicani romani, aveva approfittato delle difficoltà di Roma durante la guerra sociale minacciando i territori della provincia con le sue mire espansionistiche.
La scelta di Silla, anziché di Mario, era motivata dai timori che gli ottimati nutrivano nei confronti dell’ambizione di potere di quest’ultimo: un ulteriore successo militare avrebbe infatti accresciuto il suo prestigio politico, già enorme. Tuttavia, mentre le legioni di Silla si trovavano nell’Italia meridionale, pronte a imbarcarsi per l’Asia minore, Mario, con il sostegno di popolari e cavalieri, riuscì a imporre al senato di affidargli il comando delle truppe. Appresa la notizia, Silla diresse le sue legioni contro Roma: dichiarati i suoi avversari nemici pubblici, costrinse l’avversario alla fuga, ne uccise i seguaci e ristabilì i poteri del senato tramite l’approvazione di una serie di norme che sancivano l’obbligo di sottoporre all’istituzione senatoria ogni proposta di legge prima di presentarla al voto popolare. Poi, una volta riacquistata la legittimità del suo ruolo di comandante della spedizione, partì verso l’Oriente.
Approfittando della lontananza dell’avversario, nell’87 a.C. Mario tornò a Roma, dove scatenò una sanguinosa campagna di persecuzione contro gli ottimati vicini a Silla e si fece eleggere console per la settima volta. Morì però l’anno successivo, e la guida dei popolari fu assunta dal figlio, Mario il Giovane.

La guerra civile dell’82 a.C. e la dittatura di Silla

Mentre Roma era saldamente nelle mani dei popolari di Mario, Silla proseguì la sua campagna militare in Asia minore. Dopo aver sconfitto Mitridate, nell’84 a.C. stipulò la pace di Dardano (nella Troade, Anatolia nordoccidentale) e organizzò il ritorno in patria, sapendo di poter affrontare gli avversari politici con la forza delle sue legioni ma anche con il prestigio acquisito grazie alla vittoria, oltre che con le ingenti ricchezze sottratte ai nemici in guerra.
Nell’83 a.C. egli giunse in Italia e coalizzò intorno a sé quel che restava del partito degli ottimati e la nobiltà delle città italiche, da sempre alleata dell’aristocrazia senatoria. Ebbe così inizio una nuova guerra civile (82 a.C.) che coinvolse la penisola, la Sicilia e l’Africa.
L’esercito di Silla, guidato da Gneo Pompeo Magno (figlio di Strabone, il generale vincitore nella guerra contro la lega italica), dopo violenti combattimenti riuscì ad avere la meglio nello scontro decisivo, che si svolse nei pressi di Porta Collina, sotto le mura di Roma; qui, Mario il Giovane tentò inutilmente di fuggire attraverso i sotterranei della città e infine si uccise per non cadere nelle mani dei nemici. I sostenitori dei popolari continuarono per qualche tempo a combattere in Spagna, alla guida di Quinto Sertorio, parente di Mario.
Con l’appoggio delle popolazioni locali, egli riuscì anche a creare uno Stato indipendente che resistette fino al 72 a.C., prima di soccombere alle legioni romane di Pompeo.
Nel frattempo, in Italia, Silla concentrò nelle proprie mani tutti i poteri. Subito dopo la fine della guerra civile nell’82 a.C. si fece proclamare dittatore a tempo indeterminato, in aperto contrasto con la consuetudine secondo cui la dittatura era una magistratura straordinaria e temporanea. Si trattò del primo passo verso l’affermazione di un potere personale e autoritario, che consentì a Silla di modificare l’organizzazione politica e istituzionale dello Stato. Per impedire che i sostenitori di Mario minacciassero di nuovo le istituzioni, egli fece eliminare migliaia di avversari politici e condannò a morte coloro che erano sfuggiti alle stragi di massa. I loro nomi furono pubblicati nelle liste di proscrizione esposte nei luoghi pubblici, in modo che chiunque potesse ucciderli impunemente e impossessarsi dei loro beni, con i quali egli riuscì anche a ricompensare i suoi seguaci.
Il programma di Silla non mirava comunque all’instaurazione di una monarchia, ma era piuttosto improntato al consolidamento dell’autorità del senato. Egli rafforzò il controllo dei senatori sui consoli, privati del comando militare nelle province e della possibilità di essere rieletti per più di un anno consecutivo. Fece inoltre approvare leggi che rallentavano la carriera politica degli homines novi, costringendoli a ricoprire tutte le cariche del cursus honorum. Abolì il diritto di veto dei tribuni della plebe e sottopose le loro proposte di legge alla preventiva approvazione del senato, cancellando le norme previste dalla legge Ortensia del 287 a.C. ( p. 326). I tribunali per i reati di corruzione tornarono a essere assegnati esclusivamente ai senatori, il cui numero fu raddoppiato grazie all’ingresso di nuovi membri provenienti dall’aristocrazia italica.
Silla aveva conquistato il potere con mezzi illegali, utilizzando l’esercito per i suoi fini politici. Consapevole dei rischi che il suo esempio avrebbe potuto costituire per il futuro della repubblica, egli impose una legge che limitava l’ingresso dell’esercito in armi nella penisola: il confine invalicabile dalle legioni armate fu spostato da Roma al fiume Rubicone, in Emilia.
Convinto di aver raggiunto lo scopo delle sue riforme – tutte motivate dalla volontà di rendere più stabili le istituzioni repubblicane attraverso il rafforzamento del senato –, Silla si ritirò a vita privata nel 79 a.C. e morì l’anno seguente.

Nel cuore della STORIA

L’assassinio come arma politica

La violenza e gli assassinii politici sono una costante della storia romana sin dai tempi di Romolo (ucciso e fatto a pezzi, secondo una leggenda, dai Romani stessi). L’eliminazione fisica dell’avversario, spesso successiva ad altre forme di intimidazione e di violenza, è la conclusione estrema di un confronto politico che non trova soluzione se non nell’uso della forza.

Una società violenta

Per comprendere le ragioni di tale fenomeno va ricordato che in epoca romana non esistevano organismi preposti alla repressione della violenza privata o pubblica, e che l’omicidio era considerato un evento per nulla eccezionale. Il costume collettivo tendeva a giustificare la prepotenza nei confronti degli avversari o dei deboli (schiavi, bambini, donne), essendo la forza bruta considerata più un valore che un connotato di “inciviltà”.

La violenza preventiva

Bisogna poi considerare che la mentalità romana nutriva una profonda avversione per le organizzazioni segrete, le congiure, le pratiche religiose o i rituali non ufficiali, ritenendoli una possibile minaccia alla solidità dello Stato e agli equilibri politici e sociali esistenti. Per questa ragione, molto spesso l’uso della violenza politica avveniva in forma “preventiva”, da parte di chi intendeva difendere e mantenere invariato questo equilibrio. Si spiega allora perché gli assassinii politici nella Roma repubblicana siano strettamente connessi ai mutamenti della compagine sociale o al tentativo di una classe sociale estranea al potere di inserirsi nella gestione della cosa pubblica. È però interessante notare che i picchi di violenza non si registrano in esatta coincidenza di specifici rivolgimenti sociali, ma nel periodo immediatamente precedente (appunto come tentativo preventivo di reprimerli) o in quello successivo, in particolare dopo un loro fallimento.

Il dilagare della violenza politica

Come giustamente notava lo storico antico Appiano, dopo l’assassinio di Tiberio Gracco il fenomeno della violenza politica si diffuse a macchia d’olio nella società romana e, per circa un secolo, divenne endemico. Gli storici sono soliti attribuirne la responsabilità e la pratica quasi solo ai popolari, ma un’attenta analisi mostra che è vero l’esatto contrario: furono soprattutto gli ottimati a fare sistematicamente ricorso all’aggressione fisica e all’eliminazione personale dell’avversario.
In questa fase storica il momento più tragico si raggiunse con le proscrizioni di Lucio Cornelio Silla che, sulla base di sospetti od ostilità personali, fece trucidare oltre 50 senatori suoi avversari, 1600 cavalieri e 2000 cittadini comuni.

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• SOTTO LA LENTE • CIVILTÀ

La via della seta e i commerci romani con l’Estremo Oriente

L’espressione “via della seta” fu coniata alla fine del XIX secolo per indicare le vie commerciali che collegavano il Mediterraneo con le coste cinesi dell’oceano Pacifico. I contatti dei mercanti romani con il Vicino Oriente risalivano al I secolo a.C., quando l’influenza commerciale e politica di Roma si estese anche su queste aree. Attraverso i regni ellenistici, Roma, già egemone nel Mediterraneo, entrò così in contatto anche con gli imperi dell’Estremo Oriente.
Oltre a perle, pietre preziose, profumi e unguenti, i mercanti portavano a Roma spezie dall’India e tessuti di seta dalla Cina. L’importazione di quest’ultima preziosissima merce, la cui produzione restò sconosciuta in Europa fino al Medioevo, alimentò un fiorente commercio.
La seta era infatti una merce rara, che per il suo valore assicurava ai mercanti elevati profitti e giustificava lunghi e rischiosi viaggi attraverso l’Asia.
Grazie al commercio della seta furono stabiliti i primi contatti tra Roma e l’impero cinese della dinastia Han, con la mediazione dei regni che si trovavano sul percorso seguito dai mercanti.
Nel corso del tempo tali itinerari mutarono per i cambiamenti politici avvenuti nei territori attraversati, spesso causa di impedimento al passaggio dei mercanti. Tra il II e il III secolo d.C. gli ampi spazi dell’Asia centrale furono infatti il teatro delle migrazioni degli Unni, una popolazione nomade che, dopo aver minacciato la Cina, avrebbe in seguito invaso anche l’Europa. La via della seta era stata aperta proprio dalle esplorazioni che gli imperatori cinesi avevano organizzato alla fine del II secolo a.C. per cercare alleati tra i regni dell’Asia centrale contro gli Unni, che premevano ai confini settentrionali dell’impero. I resoconti degli esploratori avevano fornito ai mercanti le informazioni necessarie per creare i loro traffici redditizi.
Lungo questo percorso, tuttavia, non erano trasportate solo le merci. La via della seta costituì per molti secoli una via di comunicazione fondamentale per gli scambi culturali tra l’Occidente e l’Oriente. Gli storici antichi sostengono che i primi contatti diretti tra Romani e Cinesi siano avvenuti verso la metà del I secolo a.C., in seguito alla sconfitta subita dalle legioni romane nella campagna militare contro il regno dei Parti. I primi documenti ufficiali che attestano l’arrivo di ambascerie di Roma in Cina risalgono tuttavia al 166 d.C., periodo in cui i Romani conoscevano bene questi territori, come dimostrano le descrizioni contenute nella Geografia di Tolomeo, che risale alla metà del II secolo d.C.

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Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana