6 - La religione nella Roma arcaica

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 16 – Le origini di Roma e la prima età repubblicana

6. La religione nella Roma arcaica

I caratteri della religione romana: sincretismo, adattamento, funzione pubblica

A Roma la religione aveva tre caratteri distintivi. Il primo era il sincretismo, cioè la tendenza a conciliare tradizioni di pensiero e religione diverse (e talvolta inconciliabili). Era un carattere presente fin dalle origini: all’unificazione dei villaggi che formarono Roma, infatti, si arrivò tramite una federazione religiosa istituita attorno al santuario latino di Iuppiter Latiaris, sul Monte Cavo, tra i colli Albani, a cui si aggiunsero il culto dell’eroe Enea come Pater Indiges e quello per Romolo Quirino. La convivenza tra divinità di diversa provenienza rimarrà uno dei tratti distintivi della storia religiosa di Roma, e la tolleranza dei culti autoctoni sarà a fondamento della sua politica di conquista.
Un secondo carattere riguarda la disponibilità dei Romani ad adattarsi a nuovi culti, già evidente nel rapporto originario con la cultura etrusca, di cui avevano adottato le divinità, in parte corrispondenti a quelle greche, e le pratiche religiose.
Il terzo carattere riguarda la preminente funzione pubblica e politica della religione. I culti antichi non erano incentrati sulla cura dell’anima; nascevano piuttosto con lo scopo di “governare” i fenomeni ignoti della natura e le loro conseguenze sulla vita degli esseri umani. Tra le pratiche ereditate dagli Etruschi, per esempio, rivestivano una certa importanza i rituali che, in occasione di manifestazioni pubbliche o imprese collettive, miravano a ottenere la protezione divina. Presso gli Etruschi, e poi presso i Romani, prima di ogni iniziativa – la fondazione di una città, l’inizio di una guerra, l’apertura dei comizi – era obbligo consultare gli dèi attraverso gli arùspici e gli àuguri, gli indovini incaricati di trarre gli auspici, ossia di interpretare la volontà divina. I patrizi furono sempre molto attenti a conservare il monopolio di questo potere.
Come in molte civiltà antiche, dunque, anche a Roma potere politico e potere religioso si intrecciavano. In epoca monarchica era il re a detenere i due poteri. In età repubblicana, invece, il potere politico passò ai consoli e quello religioso ai sacerdoti, i quali però erano titolari anche di cariche pubbliche, pur non inserite nel cursus honorum. I più importanti sacerdoti preposti alle cerimonie pubbliche, sempre appartenenti alle famiglie nobili, erano i pontefici. L’origine del termine (che deriva, come abbiamo visto, dall’espressione pontem facere) mostra la stretta relazione fra religione e governo della comunità, e dunque il carattere sacrale del potere; analogamente a quanto era avvenuto nelle civiltà fluviali del Vicino Oriente, il possesso di competenze fondamentali per la comunità – l’acqua irrigava i campi e i ponti facilitavano i contatti commerciali – conferiva loro grande prestigio e ne legittimava la preminenza sociale e politica.
I pontefici erano così diventati i depositari di antiche tradizioni e di norme giuridiche tramandate oralmente, oltre che i responsabili dei rituali religiosi che garantivano il favore degli dèi e quindi il buon andamento dei raccolti o la vittoria nelle battaglie. Essi stabilivano anche, sulla base del calendario ereditato dagli Etruschi, i periodi dell’anno in cui era lecito e opportuno svolgere le attività produttive. Al sommo sacerdote, il pontefice massimo, venne inoltre affidato, a partire dal 296 a.C., il compito di compilare gli annali, una cronaca dei fatti principali accaduti durante l’anno, accompagnata dall’elenco dei magistrati, in particolare i consoli “eponimi” (che davano il proprio nome all’anno nel quale governavano). Gli annali venivano poi esposti al pubblico affinché tutti ne fossero informati.

Il pantheon dei Romani e il culto degli antenati

Sincretismo, adattamento a nuovi culti, importanza pubblica della religione fecero sì che il pántheon dei Romani non fosse sempre lo stesso, ma si modificasse lungo tutto il corso della loro storia: si introdussero via via nuovi dèi, o quelli tradizionali cambiarono nome, o si adottarono nuove forme di culto attribuendo altre competenze agli dèi tradizionali. Molte divinità, come si è detto, vennero importate dalla religione etrusca e da quella greca: Giove, Giunone e Minerva, le tre principali, corrispondevano per esempio a Zeus, Era e Atena. Anche Vesta, protettrice del focolare, aveva un legame con il nome di una divinità greca (Estía), anche se, con tutta probabilità, si trattava di un culto indigeno. Forse autoctono era anche il culto di Giano, il custode delle porte e dei passaggi, raffigurato con una testa a due facce.
Accanto alle divinità principali, poi, i Romani veneravano un numero elevatissimo di dèi minori, legati a tutti gli aspetti della vita quotidiana e dell’esistenza umana. Nel calendario, un gran numero di giorni era dedicato alle divinità tutelari (che avevano cioè una funzione di tutela e protezione degli individui o della collettività sotto un particolare aspetto) e, nei rituali votivi loro destinati, era evidente una concezione utilitaristica della religione – l’idea, cioè, che il culto fosse volto a ottenere vantaggi e favori –, originata però da un profondo timore nei confronti dei fenomeni naturali e della dimensione ignota o misteriosa della vita.
Molto sentito era il rapporto con gli antenati, nei quali le famiglie patrizie riconoscevano origini comuni. Agli antenati erano dedicati piccoli altari nelle abitazioni, presso i quali ogni famiglia celebrava quotidianamente cerimonie private. Le divinità della famiglia erano venerate in tre diverse forme:

  • i Penati (da pena, “viveri”, “scorte”) erano gli spiriti che proteggevano i membri della famiglia; erano custoditi nelle parti più interne della casa (penita), in cui si conservavano le scorte di cibo e le ricchezze familiari;
  • i Lari (da lar, che significava “focolare” in latino e “padre” in etrusco), identificati con il focolare domestico, erano i protettori della casa e vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale;
  • i Mani (da manus o manis, “buono”) erano le anime stesse degli antenati e dei defunti, che dall’aldilà continuavano a essere benevolmente partecipi delle vicende familiari.
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Le feste religiose e il calendario

Nell’antica Roma erano molto importanti le feste religiose (feriae), nelle quali gli individui si riconoscevano come membri di una comunità. Si trattava di riti legati alle stagioni, alle attività contadine o a occasioni belliche, durante i quali si sacrificavano primizie agricole e giovani animali per assicurarsi abbondanti raccolti o buona sorte in battaglia.
Nella festa dei Saturnali (17-23 dicembre), per esempio, si celebrava Saturno, dio dei campi e della fertilità, che secondo la leggenda aveva regnato nella cosiddetta “età dell’oro”, un passato mitico in cui la terra produceva spontaneamente i suoi frutti e gli esseri umani vivevano in pace.
Durante la festa, che durava una settimana, i Romani sospendevano le attività lavorative e si scambiavano piccoli doni (un’usanza che avrebbe ereditato il cristianesimo).
Le feste erano divise in tre cicli: feste della purificazione, cui appartenevano per esempio i Lupercalia (15 febbraio), dedicati a Fauno e propizi alla purificazione della città, e i Lemuria (9-11 maggio), volti a placare gli spiriti; della guerra, con le Equirria (14 marzo), consacrazione dei cavalli a Marte, e l’Armilustrium (19 ottobre), la purificazione delle armi; dei campi, come i Liberalia (17 marzo), celebrazione tra l’altro del passaggio all’età adulta con l’assunzione della toga virile.
Il calendario, gestito dai pontefici, distribuiva i tempi delle feste. In origine, l’anno cominciava a marzo, mese dedicato a Marte, dio della guerra e dell’agricoltura: all’inizio della primavera, infatti, l’esercito riprendeva le campagne militari, sospese durante i mesi più freddi, e la natura si risvegliava dopo l’inverno. Solo in seguito l’inizio dell’anno fu fatto coincidere con il mese dedicato a Giano (da cui ianuarius, gennaio), quando le giornate invernali si allungano dopo il solstizio d’inverno.
L’anno era diviso in 12 mesi di 22 o 25 giorni ciascuno. I mesi erano scanditi da alcune date particolari, calcolate in base alle fasi lunari: le calende (da cui il termine “calendario”) erano il primo giorno del mese; le none il quinto o il settimo giorno, a seconda dei mesi; le idi il tredicesimo o il quindicesimo. I giorni, come abbiamo già visto, erano inoltre divisi in fasti e nefasti, ossia adatti o meno allo svolgimento delle attività quotidiane.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana