Terre, mari, idee - volume 1

Unità 5 L’ETÀ CLASSICA >> Capitolo 11 – L’imperialismo ateniese e l’età di Pericle

Il ruolo del teatro

Tra le espressioni artistiche più importanti dell’Atene classica vi fu anche il teatro. Le prime forme derivavano probabilmente dai canti intonati dai sacerdoti di Dioniso, il dio del vino e della forza vitale della natura. Rappresentazioni pubbliche erano poi state organizzate a fini propagandistici dal tiranno Pisistrato, per esaltare l’operato del proprio governo attraverso la narrazione delle leggende di antichi eroi attici. Da queste esperienze nacquero le prime compagnie di attori che, anche grazie all’affermazione di un regime più democratico, furono libere di mettere in scena opere legate all’attualità politica.
Ad Atene le rappresentazioni teatrali si svolgevano durante le feste primaverili, chiamate Dionisie. Si trattava di veri e propri agòni, competizioni artistiche che prevedevano premiazioni simboliche per i vincitori. Alle prime ore del mattino il pubblico affluiva nel teatro, che era situato ai piedi dell’acropoli e poteva contenere fino a 20 000 spettatori, e vi restava fino a sera. Gli attori erano tutti maschi, poiché alle donne non era consentito partecipare ad attività pubbliche, a parte le processioni sacre delle feste religiose. Durante lo spettacolo indossavano costumi e maschere, e la loro recitazione era accompagnata dalle musiche e dalle danze del coro, che si esibiva nello spazio antistante la scena occupata dagli attori.
A seconda dei temi trattati e degli aspetti formali che le caratterizzavano, le rappresentazioni vennero a differenziarsi in tragedie e commedie (autori tragici furono Eschilo, Sofocle ed Euripide, mentre il più noto commediografo è Aristofane). Al di là delle differenze, entrambe costituivano uno specchio della società del tempo: ogni spettatore poteva riconoscersi nelle vicende dei protagonisti, che toccavano i temi fondamentali della vita (come la fragilità dell’esperienza umana rispetto agli improvvisi cambiamenti del destino) e della politica.
In virtù di questo ruolo di stimolo alla riflessione sui problemi della città, il teatro era considerato un fondamentale momento di educazione civica e politica, rivolto a gran parte della popolazione. Agli spettacoli, infatti, potevano assistere anche i non cittadini e perfino gli schiavi, e la partecipazione era garantita anche ai nullatenenti grazie a un costo per l’ingresso assai ridotto (sotto Pericle venne addirittura previsto il rimborso da parte dello Stato ai più poveri).
Diffondendosi da Atene alle póleis di tutto il mondo ellenico (dall’Asia minore alla Magna Grecia), il teatro divenne una delle espressioni più significative della civiltà greca.

Il teatro

Il luogo delle rappresentazioni teatrali era costruito in genere sul fianco di una collina. Le gradinate formavano un semicerchio, consentendo una visuale e un’acustica perfette: anche gli spettatori delle ultime file potevano vedere e ascoltare distintamente ciò che avveniva sulla scena. La struttura del teatro, per la maggior parte all’aperto, era costituita dall’orchestra (lo spazio per il coro), la scena (lo spazio per gli attori) e la cavea (gradinate del pubblico).


  Teatro di Epidauro

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L’oratoria, la filosofia, la geografia e la storia

La vivace vita politica nell’Atene del V secolo a.C. era in larga misura basata sul rapporto tra capi politici e démos, e sull’abilità dei primi nel convincere il secondo attraverso l’uso della parola. Per questo motivo, l’oratoria e la retorica – l’arte di saper parlare e di comunicare in modo efficace – assunsero un ruolo sempre più centrale nella cultura classica. Si affermarono in questo periodo nuove figure di intellettuali e filosofi, i sofisti, che in quanto insegnanti di arte retorica erano molto ricercati in una città dove, con l’affermazione della democrazia, la capacità di argomentare le proprie tesi era divenuta fondamentale nell’agone politico. La sapienza dei sofisti non si limitava però all’eloquenza, ma indagava i problemi del linguaggio, della conoscenza, del ruolo dell’essere umano nel mondo, differenziandosi dunque dall’indagine naturalistica dei primi filosofi. L’abbandono dell’indagine sulla natura in favore di una riflessione sull’etica e sulla ricerca del “bene” caratterizzò anche la filosofia di Socrate (470/469-399 a.C.), il cui insegnamento ci è noto mediante le opere del discepolo Platone (428/427-348/347 a.C.).
Il passaggio a forme di pensiero svincolate dal mito e dalla religione, che aveva caratterizzato la nascita della filosofia, riguardò in questa fase anche altre discipline, e in particolare la geografia e la storiografia, che ebbero una comune origine nella riflessione e nelle opere di autori come Erodoto (480 ca.-424 ca. a.C.) e Tucidide (460-395 a.C.).

Finanziare la democrazia: il ruolo della pólis e le liturgie

Il finanziamento delle opere pubbliche e della difesa della città, l’organizzazione delle feste religiose e agonistiche, la retribuzione delle cariche e il rimborso concesso ai cittadini per la partecipazione in assemblea – in una parola, il sostentamento economico della democrazia ateniese – richiedevano una grande quantità di denaro. Ai tempi di Temistocle, l’allestimento della flotta era stato possibile grazie all’impiego dell’argento estratto dalle miniere del Laurio, in precedenza diviso tra i cittadini. Nel 454 a.C., come sappiamo, un’importante fonte di finanziamento era giunta dal tesoro della lega delio-attica.
Ma il denaro pubblico non esauriva affatto le esigenze finanziarie della vita collettiva. Gran parte delle spese per l’organizzazione di eventi religiosi o agonistici e per la realizzazione delle opere pubbliche non era sostenuta dallo Stato, bensì dai cittadini più ricchi.
Il termine greco che indicava questa pratica era liturgìa, mentre gli storici moderni utilizzano il termine evergetismo. Contribuire economicamente alla vita della città era considerato un onore ma era anche uno strumento di formazione del consenso: con le liturgie i cittadini eminenti potevano aumentare il proprio prestigio, traendone benefici nella carriera politica (Cimone, per esempio, era solito aprire le porte dei suoi giardini al popolo perché godesse dei frutti, e lo stesso Pericle fece in parte affidamento sul suo patrimonio privato, che era però molto inferiore a quello del suo avversario). 
Le liturgie erano di vario tipo: esistevano per esempio le coregìe, vale a dire le sovvenzioni per l’allestimento delle rappresentazioni teatrali, che contemplavano il mantenimento di un’intera compagnia di attori per circa un anno, o le trierarchìe, cioè i finanziamenti per la costruzione di una trireme, per il suo armamento e per il sostentamento dell’equipaggio.

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La condizione delle donne

La preclusione alla recitazione nelle rappresentazioni teatrali era solo un aspetto della condizione di inferiorità sociale in cui erano tenute le donne. Anche nell’Atene democratica, come del resto in tutte le altre città greche, i cittadini maschi avevano un ruolo dominante: potevano dedicarsi alla professione, detenere cariche pubbliche, partecipare alla vita politica, mentre le donne erano per lo più relegate nel ginecèo (dove erano collocate le stanze riservate alle donne; il termine deriva infatti da guné, “donna”), la parte più interna della casa, dalla quale uscivano raramente e per breve tempo, per esempio in occasione delle feste religiose. Persino affacciarsi alle finestre esterne della casa poteva essere considerato un segno di poca moralità.
A causa della scarsità delle fonti e della quasi totale assenza di scritti di autrici donne (l’unica eccezione è la poetessa Saffo, vissuta tra il 630 e il 570 a.C.), conosciamo poco della vita quotidiana femminile, e l’immagine della donna ubbidiente, riservata e prolifica è forse più un modello ideale codificato e tramandato dalla cultura maschile (attraverso la pittura vascolare, il teatro e la letteratura), anche al fine di imporlo. La realtà quotidiana, probabilmente, era un po’ diversa, e non escludeva che le donne potessero ricoprire anche ruoli più attivi, a partire dalla gestione della casa e del patrimonio familiare.
Resta tuttavia il fatto che le donne erano prive di personalità giuridica e non avevano diritti politici. Era loro vietato partecipare alle gare sportive e alle rappresentazioni teatrali, non solo come atlete o attrici, ma anche come spettatrici. Le semplici attività quotidiane, come recarsi al mercato, erano di norma affidate alle schiave o agli uomini. In queste condizioni, nemmeno le donne delle famiglie più agiate avevano la possibilità di migliorare la propria posizione: non potevano istruirsi ed erano costrette a dedicarsi esclusivamente ad allevare i figli e alla cura della casa, coordinando il lavoro delle schiave. Non possedevano inoltre un proprio patrimonio: i beni portati in dote venivano amministrati dal marito, scelto dal padre sulla base dello status economico e sociale dei pretendenti. Se restavano vedove, tornavano sotto la tutela del padre o dell’uomo più anziano della famiglia, che si occupava di cercare un altro marito, non essendo consentito loro di vivere da sole né di avere un’attività professionale per mantenersi in modo autonomo.
In parte diversa era la condizione femminile nelle classi sociali più popolari. Le donne ateniesi più povere erano costrette a uscire di casa per guadagnarsi il necessario per vivere, per esempio lavorando come venditrici nei mercati. Maggiore libertà era riconosciuta poi alle etère (da etáira, “compagna”), cortigiane istruite e raffinate, in genere donne straniere o ex schiave, capaci di recitare brani di poesia e di suonare strumenti musicali, che allietavano con la loro bellezza e le loro abilità artistiche i banchetti riservati agli uomini.

L’educazione dei giovani

La “grecità” non era solo la conoscenza di una lingua, ma anche un patrimonio di riferimenti culturali condivisi, un modo di agire e di comportarsi, una mentalità comune. Per questo in tutte le città l’educazione dei giovani, soprattutto di quelli delle classi dirigenti, era considerata particolarmente importante. Si trattava prima di tutto di un’educazione del corpo: il culto del corpo maschile è presso i Greci fondamento della vita quotidiana e persino dell’esercizio del governo. Per partecipare ai giochi panellenici di Olimpia, per esempio, era necessario essere Greci di nascita (anche se originari della Ionia o della Magna Grecia), ed essere liberi.
La grande cura dedicata all’esercizio del fisico non riguardava dunque solo Sparta, ma tutto il mondo greco. Ad Atene venne però maturando, dall’età di Solone in poi, la convinzione che il “perfetto ateniese” dovesse incarnare un equilibrio tra forza fisica e sapienza, tra muscoli e cultura. Per questo i figli maschi delle famiglie agiate vennero sempre più spesso seguiti ed educati da maestri privati, in molti casi retribuiti generosamente, che li istruivano in quattro discipline principali: lettere, ginnastica, musica e disegno. Quando raggiungevano i diciott’anni, i giovani ateniesi entravano nel periodo della efebìa. La condizione di efebo durava due anni, durante i quali i giovani ricevevano una preparazione militare completa. L’efebìa però non era un semplice addestramento all’uso delle armi. Affidati a un anziano e separati dalla famiglia, gli efebi entravano a far parte a pieno titolo della comunità solo dopo aver superato riti di passaggio a volte molto elaborati: sotto questo aspetto, l’efebia era una sorta di rito di iniziazione in qualche modo analogo a quello che era praticato a Sparta con la kryptéia.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

«LE CREATURE PIÙ INFELICI»

Il brano, tratto dalla tragedia di Euripide (480-406 a.C.), Medea, è la riflessione di Medea riguardo all’infelice condizione della donna. Il passo rappresenta un atto di denuncia che un autore attento alla vita sociale come Euripide fa con consapevole determinazione. È anche spia di forme di rivendicazioni femminili tutt’altro che marginali e trascurabili.



“Di quanti esseri al mondo hanno anima e mente, noi donne siamo le creature più infelici. Dobbiamo anzitutto, con dispendio di denaro, comperarci il marito e dare un padrone alla nostra persona; e questo è dei due mali il peggiore. E poi c’è il gravissimo rischio: sarà buono colui o non sarà? Separarsi dal marito è scandalo per la donna, ripudiarlo non può. E ancora: una donna che venga a ritrovarsi tra nuove leggi e usi e costumi, ha da esser indovina se non riesce a capire da sé quale sia il migliore modo di comportarsi col suo compagno. Se ci riesce e le cose vanno bene e lo sposo di vivere insieme con la sua sposa è contento, allora è una vita invidiabile; se non, è meglio morire. Quando poi l’uomo di stare coi suoi di casa sente noia, allora va fuori e le noie se le fa passare; ma noi donne a quella sola persona dobbiamo guardare. Dicono anche che noi donne vivendo in casa viviamo senza pericoli e l’uomo ha i pericoli della guerra. Vorrei tre volte trovarmi nella battaglia anziché partorire una sola.”


Euripide, Medea, vv. 230-251, trad. di M. Valgimigli, Rizzoli, Milano 1982


PER FISSARE I CONCETTI
  • Dalla lettura del brano proposto, qual è la condizione che maggiormente critica e patisce Medea dell’essere donna?

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Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana