Il primo Novecento – L'autore: Eugenio Montale

LETTURE critiche

Prima e dopo Montale

di Giovanni Raboni

In questo testo del 1981, Giovanni Raboni (1932-2004), importante poeta del secondo Novecento, spiega come l’opera di Montale costituisca uno spartiacque decisivo nella produzione lirica italiana, con cui è inevitabile fare i conti.
Piaccia o no, «non possiamo non dirci montaliani».

La poesia di Montale – la poesia di Ossi di Seppia e, soprattutto, delle Occasioni – attraversa la cultura poetica italiana del Novecento come uno spartiacque, come una linea di demarcazione nettissima che è impossibile non vedere o fingere di non vedere. Ci sono, nella storia della poesia italiana di questo secolo, un prima e un dopo Montale: due spazi comunicanti, certo, ma assolutamente non confondibili fra loro.
Di quali altri poeti contemporanei si può dire lo stesso? Di nessun altro, credo; e non è tanto, si badi, una questione di «grandezza», quanto una questione di fulminea messa a fuoco, di perentoria tempestività nell’entrata in scena. La straordinaria fusione di esattezza gnomica1 e di densità lirica accertabile nella poesia di Montale a partire dalla Casa dei doganieri (1932) e in piena, complessiva evidenza nelle Occasioni (1939) scatta come un congegno perfettamente tarato e oliato, come un’efficientissima trappola, a dettar legge, a decidere ciò che da quel momento in poi, nel linguaggio della poesia, è attuale o invece attardato, inserito nella corrente o tenacemente, magari preziosamente, nostalgico. Si può immaginare uno sviluppo della poesia italiana contemporanea che prescinda dalle esperienze di poeti pure grandissimi come Rèbora, come Campana, come Saba; se ne può immaginare persino, sia pure con fatica, uno che prescinda dalla frantumazione e ricomposizione del metro e della sintassi compiute da Ungaretti fra l’Allegria e Sentimento del tempo; ma è assolutamente impossibile immaginare gli ultimi cinquant’anni di poesia in Italia senza Montale, in particolare senza il Montale delle Occasioni.
Non dico che tutto venga da lì: in poesia, tutto viene da tutto e, nello stesso tempo, tutto è casuale e imprevedibile; dico solo che non esistono, nel periodo che va dall’inizio degli anni Trenta a oggi, poeti italiani più giovani di Montale che non debbano qualcosa di decisivo a Montale, che non abbiano imparato da Montale, in maggiore o minor misura, l’impostazione e il controllo della propria voce, il modo di formare, situare, valorizzare le proprie metafore. Solo D’Annunzio, penso, è altrettanto «ineliminabile» dalla storia della poesia italiana moderna – e questo, di nuovo, non significa che D’Annunzio sia necessariamente più grande (cioè più complesso, più completo, più ricco di senso) di Pascoli, così come Montale non è necessariamente più grande dei poeti nominati poco fa; semplicemente, l’uno e l’altro rappresentano delle mutazioni cruciali nella struttura compositiva, nella figuralità, nel ritmo e più ancora, per quanto riguarda Montale, nella scelta degli «oggetti» della poesia.

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Infatti […] la peculiarità – e, di conseguenza, l’esemplarità, la capacità di porsi come modello in qualche modo ineluttabile – della poesia montaliana non è tanto nel modo di pronunciare la realtà, quanto nel modo di inquadrarla, di «selezionarla»; nella scelta, appunto, degli oggetti attraverso i quali la realtà «si presenta», si fa significante o, se si vuole, emblematica. Proprio in questo, fra l’altro, va cercata e misurata la distanza che separa Montale sia da D’Annunzio che da Ungaretti, entrambi, anche se assai diversamente, portati a far evaporare la realtà dalle parole, a «depurare» la propria vocalità dagli oggetti (fisici e mentali) che l’originano. Mentre in Montale potremmo dire, per semplificare, che avviene il contrario, cioè che le parole tendono ad essere private di ogni alone, di ogni sovradeterminazione musicale o comunque «suggestiva», per venire assunte ed esaltate come «scabre ed essenziali», cioè nella loro funzione precipuamente veicolare, nella loro originaria e dura capacità di «dare un nome» alle cose.
Poesia, dunque, di oggetti, di presenze; poesia che rinuncia all’aureola di se stessa per puntare sulla precisione e, al tempo stesso, sul mistero, sulla magia della scelta. Il discorso di Montale «si fa» attraverso un fitto sistema di apparizioni e rivelazioni apparentemente «occasionali» ma, in realtà, profondamente emblematiche, di oggetti enigmaticamente quotidiani, amuleti che condannano o strappano all’inesistenza, e di presenze salvifiche (angeli o donne angelicate o forse angeli-demoni, «angeli neri») che pochi hanno il privilegio di scorgere e che tracciano misteriose scie di luce nell’angusta, soffocante oscurità dell’universo. Per questa via (ed eccoci alla terza delle semplici cose che mi premeva dire) il famoso – sin troppo famoso, forse, e tuttavia innegabile – pessimismo di Montale si tramuta, con esaltante e fecondo paradosso, in una sorta di febbrile, prensile2 tensione; lo strisciante «male» (e, dunque, l’intima non-volontà) di vivere che domina sin dagli inizi la sua poesia non impedisce – anzi, in qualche modo libera, sprigiona – una vasta ansia di descrivere e decifrare quello stesso mondo al quale si dà, in linea di principio, così poco credito e peso. Struttura e superficie della poesia diventano così come un orecchio spalancato, una specie di radar o calamita di segnali. Il mondo che sembrava vuoto o addirittura inesistente pullula di presenze, ronza di messaggi che aspettano d’essere captati, di minimi, preziosi brandelli di vita che chiedono d’essere vissuti.
Questa dialettica fra vuoto e gremito, fra sgomento e speranza, fra negatività e salvazione – una dialettica rigorosamente laica, che riguarda l’uomo e soltanto l’uomo, che non chiede né ammette interlocutori al di fuori del suo teatro interiore, della sua coscienza – è probabilmente il maggiore lascito della poesia di Montale e, in particolare, della poesia delle Occasioni. Ed è a questa dialettica, a questo pensiero – più ancora che alle cadenze, ai tagli ritmici, alle folgoranti tipologie verbali in cui essi concretamente si manifestano – che i poeti venuti dopo Montale non potranno più fare a meno di riferirsi; è questo il senso in cui, parafrasando un detto celebre, «non possiamo non dirci montaliani».


Giovanni Raboni, La poesia che si fa, Garzanti, Milano 2005

Il percorso della poesia di Montale

di Alberto Casadei

In queste pagine il critico Alberto Casadei (n. 1963) compendia le questioni fondamentali relative agli Ossi di seppia. Nel suo libro d’esordio Montale si allontana dal Simbolismo per tratteggiare il profilo di un io poetico spaesato, corroso dal dubbio, teso a interrogare instancabilmente le forme del reale, in cerca dell’autenticità nascosta dietro le apparenze.

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Montale rifiuta, salvo momentanee deviazioni, una via maestra del tardo simbolismo, il riconoscimento del senso profondo (se non addirittura religioso) della realtà, tale da giustificare l’esistenza del singolo e in particolare del poeta, in quanto rivelatore di nessi nascosti ai più. Semmai, la linea che gli Ossi verranno a incarnare, almeno nei risultati che ora appaiono più duraturi, è quella della lettura problematica del reale, necessaria dopo la scoperta, una volta finita l’infanzia, di una non-corrispondenza fra il singolo–adulto e la natura in tutte le sue manifestazioni. È la certezza del «male di vivere», tema che può essere rintracciato in molti testi poetici e forse soprattutto prosastici tra fine Otto e inizi Novecento, ma che assume negli Ossi una fisionomia chiara e distinta: diversa, in questo, dalle versioni più edulcorate, al limite dell’ironia o dell’autocompassione, che potevano essere rintracciate nei poeti crepuscolari, i quali comunque costituiscono spesso antecedenti interessanti per Montale, così come vari liguri. […]
S’innesta qui un altro dei motivi della prima innovazione poetica montaliana, e cioè la capacità, evidente sin dalla prima raccolta, di coniugare un’elevata compattezza formale con una ricerca di tipo gnoseologico,1 attuata appunto nella forma e non solo enunciata attraverso di essa. Lo stile di Montale si lega a un costante “impegno” di tipo esistenziale, quello che egli riconoscerà sempre come l’unico necessario al poeta, il quale deve mirare a far emergere nei suoi testi una verità puntuale, i tratti specifici della condizione umana in sé considerata. Ecco allora che per l’autore degli Ossi non basta più, alla maniera dei vari poeti neoclassici, «fare versi antichi su pensieri nuovi», e nemmeno si tratta di rinnovare incessantemente, alla maniera delle avanguardie. Si deve invece evidenziare lo stato di corrosione in cui si trova il poeta–uomo che scrive dopo la fine di certezze di lunga durata, a cominciare da quelle religiose. Montale tenta di sopperire a questa crisi attraverso un’attenta meditazione riservata, soprattutto nel periodo giovanile, a pensatori o filosofi antipositivisti e aperti invece a forme di spiritualità, eventualmente ricollegabili ad aspetti del cristianesimo: di qui i possibili riscontri fra varie poesie degli Ossi e opere di Henri Bergson o Émile Boutroux, lette magari in traduzioni parziali o compendi.
Tuttavia, se la condizione da cui parla l’“io” degli Ossi è quella di coloro che riescono a dire solo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», è evidente che le certezze possono ormai essere valutate solo sul versante del negativo. I personali interessi di tipo esistenzialistico- spiritualista del giovane Montale non possono togliere valore a quanto i testi indicano, e cioè la necessità di cercare sì la «maglia rotta nella rete», l’«anello che non tiene », il «fatto che non era necessario», ma senza una speranza forte e comunque partendo da una ben più forte constatazione del manifestarsi ovunque del «male di vivere», espressione ricalcata sul francese mal de vivre per esprimere lo stato perenne di sofferenza esistenziale. Si potrebbe forse affermare che Montale ha accettato le riflessioni di Leopardi e di Schopenhauer e ha letto quelle di pensatori contingentisti o paraesistenzialisti.2 Ma la sua poesia non diventa filosofia, non mira alla sistematicità e non propone una possibile soluzione, se non per interposta persona, ossia mediante un “tu” che, anche quando

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identificabile, resta sempre in primo luogo l’espressione di sentimenti o esperienze che l’“io” non sa provare o compiere.
Montale vuole insomma, con la sua poesia, manifestare una condizione che non è confrontabile con quelle tipiche dell’io-poeta nella tradizione lirica italiana. In questo senso si può affermare che egli sarà sempre un autore senza “classici”: non a caso, nella sua ampia produzione critica, una volta sola si dedicherà a scrivere un saggio ampio su un classico, ossia quella commemorazione di Dante per il settimo centenario della nascita (1965), dalla quale si ricava in primo luogo la decisa affermazione della sua non–modernità. Montale ha lavorato sin dalle sue prime prove consapevole di dover non ossequiare ma impiegare la tradizione: gli interessano cioè i modi per attraversare la monumentalità della storia letteraria allo scopo di giungere a un distillato, una poesia che riassuma una lunga e, per l’autore, in parte misteriosa elaborazione delle tante letture e delle poche, ma precise, esperienze esistenziali. […]
I classici, quindi, «da attraversare»: come, fra i modelli del primo Montale, aveva fatto Debussy rispetto a Wagner3 ma anche rispetto alla tradizione musicale classico-romantica. Non si trattava di distruggere il sistema armonico, ma di inserire controtempi nelle melodie: non era più accettabile la «retorica» ottocentesca, ma non erano auspicabili le rivoluzioni primonovecentesche, che privavano di spessore la parola poetica. Gli Ossi escono in un momento di felice indecisione, di spinte contraddittorie tra il presente e il passato: e Montale riesce a cogliere la via che diventerà poi fondamentale, quella di una lirica che non si chiude su se stessa, né per eccesso di classicismo né per desiderio di innovazione assoluta. In questo lo aiutò senza dubbio la formazione bifronte, italiana e insieme francese, con letture intense e quasi onnivore (testimoniate dagli appunti del prezioso Quaderno genovese, risalente al 1917): ma il risultato fu significativo perché approdò a uno stile e a un’organizzazione del libro poetico tali da rinnovare dall’interno il rapporto con gli ultimi grandi esiti della tradizione italiana. Da questa angolatura è vero che gli Ossi, specie nella loro prima versione, rappresentano in primo luogo un controcanto all’Alcyone dannunziano, l’opera che, pure a livello di complessità compositiva, risulta con essi meglio confrontabile. Non è solo questione delle pur numerose riprese lessicali, le quali, come tante altre nobilitanti, rientrano in fondo nel registro alto-tragico che la raccolta montaliana vuole assumere, nonostante l’apparente quotidianità della materia. Il fatto è che sia nelle poesie “lunghe” o nei poemetti (come Mediterraneo), sia, e soprattutto, nelle poesie “brevi” (in specie quelle della sezione eponima 4), Montale spesso ripropone situazioni già vissute dall’“io” dannunziano, secondo moduli che, all’eccezionalità e al “gigantismo”, affiancavano il sentimento della caducità, ma mai il dubbio dell’ignoranza. Sono invece proprio questi due dei termini-chiave usati dall’io che, negli Ossi, legge il reale alla ricerca di una verità che possa emergere: il mare, il vento, il sole al suo zenit e quindi l’ora meridiana rappresentano scenari in cui l’io si colloca per interrogare e soprattutto per interrogarsi, e però la forza delle domande sta proprio nel loro continuo riproporsi, al di là di ogni momentanea constatazione o di ogni ipotesi-intuizione sul manifestarsi di un «fantasma» liberatore che finalmente indichi un (im)possibile mondo autentico dietro le apparenze.


Alberto Casadei, Montale, il Mulino, Bologna 2008

Al cuore della letteratura - volume 6
Al cuore della letteratura - volume 6
Dal Novecento a oggi