Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani;
tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che
75 egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga,17 le belle terre che aveva covato cogli
occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte,
e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le
povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini
che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro. La
80 Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi
avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimé, povera roba! Chi
sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta,
col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano, fermavasi
appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo Sagramento,
85 le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a
capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato18 in mano, ritto dinanzi
alla sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla
striglia appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due
a passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti.
90 Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda,
dalle finestre, dalle arcate del portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che
fumava e fiammeggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi
il palazzo fosse abbandonato in mano a un’orda famelica, pagata apposta per
scialarsela19 sino al tocco della campana che annunziava qualche visita – un’altra
95 solennità anche quella. – La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna
ad aspettare le visite come un’anima di purgatorio.20 Arrivava di tanto in tanto
una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva
appena il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla
campana;21 delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto
100 vestibolo, e dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo;
proprio della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece
passava il tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la sollecitudine
del suo antico mestiere,22 quel che erano costate le finestre scolpite, i
pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella
105 gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva
la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto,
sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava
le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni
colpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei
110 villaggi interi da fabbricare… delle terre da seminare, a perdita di vista…23 E un
esercito di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a
fiumi da intascare!… Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano
su quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai
giù sino alle finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi,