Al cuore della letteratura - volume 5

Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Verga

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La morte di Gesualdo

Mastro-don Gesualdo, IV, cap. 5


Riportiamo le pagine finali del romanzo. Gesualdo, nel palazzo ducale del genero, assiste impotente e rassegnato al disfacimento di tutto ciò che ha costruito. Abbandonato dai familiari, rifiutato dalla nobiltà, egli vorrebbe almeno stabilire un dialogo sincero con la figlia Isabella. Ma ciò non è possibile e il vecchio muore in una solitudine senza affetti, dopo una straziante agonia sotto lo sguardo malevolo della servitù.

Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo, allorché fu in casa della figliuola.
Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi1
e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi – sin dallo scalone di marmo – e
il portiere, un pezzo grosso addirittura, con tanto di barba e di soprabitone, vi
5 squadrava dall’alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevate una faccia che non
lo persuadesse, e vi gridava dietro dal suo gabbione: «C’è lo stoino2 per pulirsi le
scarpe!». Un esercito di mangiapane,3 staffieri4 e camerieri, che sbadigliavano a
bocca chiusa, camminavano in punta di piedi, e vi servivano senza dire una parola
o fare un passo di più, con tanta degnazione da farvene passar la voglia.5 Ogni cosa
10 regolata a suon di campanello, con un cerimoniale di messa cantata6 – per avere un
bicchier d’acqua, o per entrare nelle stanze della figliuola. Lo stesso duca, all’ora di
pranzo, si vestiva come se andasse a nozze.
Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s’era fatto animo per contentare la
figliuola, e s’era messo in gala7 anche lui per venire a tavola, legato e impastoiato,8
15 con un ronzìo nelle orecchie, le mani esitanti, l’occhio inquieto, le fauci strette9 da
tutto quell’apparato, dal cameriere che gli contava i bocconi dietro le spalle, e di
cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento e togliervi
la roba dinanzi. L’intimidiva pure la cravatta bianca del genero, le credenze alte e
scintillanti come altari, e la tovaglia finissima, che s’aveva sempre paura di lasciarvi
20 cadere qualche cosa. Tanto che macchinava di prendere a quattr’occhi la figliuola,
e dirle il fatto suo. Il duca, per fortuna, lo tolse d’impiccio, dicendo ad Isabella,
dopo il caffè, col sigaro in bocca e il capo appoggiato alla spalliera del seggiolone:
«Mia cara, d’oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà nelle sue
stanze. Avrà le sue ore, le sue abitudini… Poi, col regime speciale che richiede il
25 suo stato di salute…».10
«Certo, certo», balbettò don Gesualdo. «Stavo per dirvelo… Sarei più contento
anch’io… Non voglio essere d’incomodo…».
«No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacere, caro mio».

Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suocero. Gli riempiva il bicchierino;
30 lo incoraggiava a fumare un sigaro; lo assicurava infine che gli trovava miglior
cera, da che era arrivato a Palermo, e il cambiamento d’aria e una buona cura
l’avrebbero guarito del tutto. Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasi

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giudizioso; cercava il modo e la maniera d’avere il piacere di tenersi il suocero in
casa un pezzo, senza timore che gli affari di lui andassero a rotta di collo…11 Una
35 procura generale… una specie d’alter ego12 Don Gesualdo si sentì morire il sorriso
in bocca. Non c’era che fare. Il genero, nel viso, nelle parole, sin nel tono della
voce, anche quando voleva fare l’amabile e pigliarvi bel bello, aveva qualcosa che
vi respingeva indietro, e vi faceva cascar le braccia, uno che avesse voluto buttargliele
al collo, proprio come a un figlio, e dirgli:
40 «Tè! per la buona parola, adesso! Pazienza il resto! Fai quello che vuoi!».
Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio
col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l’antifona13 dell’alter ego. Gli mancava
l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al servitore
che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene
45 appena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in un quartierino al pian di
sopra, poche stanze che chiamavano la foresteria, dove Isabella andava a vederlo
ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole
e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere
davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso
50 occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che
a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto
pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio:
«Cos’hai?… dimmelo!… Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non
posso tradirti!».
55 Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado
anche della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso… accusando lo stomaco
peloso dei Trao,14 che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili!

Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che
gli si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i
60 giorni malinconici dietro l’invetriata,15 a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze,
nella corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e
coi piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere
e degli strambotti16 coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col
grembialone sino al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno
65 strofinaccio fra le mani ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di
mascalzoni ben rasi e ben pettinati che sembravano togliersi allora una maschera.
I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca
e le mani nelle tasche delle giacchette attillate, discorrendo di tanto in tanto
col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una fumatina, accennando
70 con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano passare dietro le invetriate
dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù
delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna. Don

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Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani;
tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che
75 egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga,17 le belle terre che aveva covato cogli
occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte,
e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le
povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini
che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro. La
80 Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi
avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimé, povera roba! Chi
sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta,
col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano, fermavasi
appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo Sagramento,
85 le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a
capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato18 in mano, ritto dinanzi
alla sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla
striglia appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due
a passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti.
90 Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda,
dalle finestre, dalle arcate del portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che
fumava e fiammeggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi
il palazzo fosse abbandonato in mano a un’orda famelica, pagata apposta per
scialarsela19 sino al tocco della campana che annunziava qualche visita – un’altra
95 solennità anche quella. – La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna
ad aspettare le visite come un’anima di purgatorio.20 Arrivava di tanto in tanto
una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva
appena il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla
campana;21 delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto
100 vestibolo, e dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo;
proprio della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece
passava il tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la sollecitudine
del suo antico mestiere,22 quel che erano costate le finestre scolpite, i
pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella
105 gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva
la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto,
sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava
le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni
colpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei
110 villaggi interi da fabbricare… delle terre da seminare, a perdita di vista…23 E un
esercito di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a
fiumi da intascare!… Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano
su quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai
giù sino alle finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi,

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115 al cinguettìo lungo le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare i solchi!…
Oramai!… oramai!…

Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città negli orecchi,
lo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente
dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte, per
120 non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, il
cambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per sbaglio,
avevano fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire.24 Dopo era
ricaduto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo
trovar rimedio a quella malattia scomunicata!25 tal quale come i medici ignoranti
125 del suo paese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’uno dopo l’altro, dei dottoroni
che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano
in anticamera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare
con un ragazzo o un contadino. Lo mostravano agli apprendisti come il zanni26
fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due code, facendo
130 la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appena, a fior di labbra, se il
povero diavolo si faceva lecito27 di voler sapere che malattia covava in corpo, quasi
egli non avesse che vederci, colla sua pelle!28 Gli avevano fatto comperare anch’essi
un’intera farmacia: dei rimedi che si contavano a gocce, come l’oro, degli unguenti
che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vive, dei veleni che
135 davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella bocca, dei bagni e
dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senza forza di muovere il capo, vedendo già
l’ombra della morte da per tutto.
«Signori miei, a che giuoco giuochiamo?», voleva dire. «Allora, se è sempre la
stessa musica, me ne torno al mio paese…».
140 Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo lasciavano sfogare, se pretendeva
di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d’essere
all’ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che
veniva ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra
di loro, voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una
145 parola di vita o di morte. Oppure gli facevano l’elemosina di una risposta che non
diceva niente, di un sorrisetto che significava addirittura «Arrivederci in Paradiso,
buon uomo!». C’erano persino di quelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero
offesi. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso
che facevano i medici, alle alzate di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col
150 genero, e al borbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si
tenne più. Un giorno che quei signori tornavano a ripetere la stessa pantomima,29
ne afferrò uno per la falda, prima d’andarsene.
«Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato, infine! Non sono un ragazzo.
Voglio sapere di che si tratta, giacché si giuoca sulla mia pelle!».
155 Colui invece cominciò a fare una scenata col duca, quasi gli si fosse mancato
di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarlo, e perché non

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piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che gli dicevano
sottovoce:
«Compatitelo… Non conosce gli usi… È un uomo primitivo… nello stato di
160 natura…». Sicché il poveraccio dovette mandar giù tutto, e rivolgersi alla figliuola,
per sapere qualche cosa.
«Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?… È una malattia grave, di’?…».
E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, malgrado che tentasse di cacciarle
indietro, infuriò. Non voleva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi e
165 andarsene via da quella casa maledetta.
«Non dico per te… Hai fatto di tutto… Non mi manca nulla… Ma io non ci
sono avvezzo, vedi… Mi par di soffocare qui dentro…».
Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo diceva, al povero
padre. Sembrava che fossero in perfetto accordo, marito e moglie; discorrevano
170 cortesemente fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una
mezz’oretta nel salottino della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno
ogni mattina, prima della colazione; per i Morti, a Natale, per la festa di Santa
Rosalia,30 e nella ricorrenza del suo onomastico o dell’anniversario del loro matrimonio,
le regalava dei gioielli, che essa aveva fatto ammirare al babbo, in prova del
175 bene che le voleva il marito.
«Ah, ah… capisco… dev’essere costata una bella somma!… Però non sei contenta…
si vede benissimo che non sei contenta…».
Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che
non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorché udiva
180 un passo all’improvviso, o suonava ad ora insolita la campana che annunziava il
duca; e dei pallori mortali, certi sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero.
Alcune volte l’aveva vista giungere correndo, pallida, tremante come una foglia,
balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai, aveva udito
un’agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la voce della
185 cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare spaventato
sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava anzi che le
sue domande l’infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casa, ciascuno
chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo, Isabella con la
buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappeti soffocavano
190 ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie, così tranquilli,
che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva freddo nella schiena.
Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il peggio di tutti
stava lui che aveva la morte sul collo. Quand’egli avrebbe chiuso gli occhi tutti gli
altri si sarebbero data pace, come egli stesso s’era data pace dopo la morte di suo
195 padre e di sua moglie. Ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Ne aveva data tanta
dell’acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata,31 tutti gli altri… un vero
fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna, era tutto opera sua; e intanto non
trovava riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi
e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva per far
200 andare la baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tenevano dietro l’uscio
a contargli i sospiri, insino al cuoco che gli preparava certe brode insipide che non

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riusciva a mandar giù, ogni cosa l’attossicava;32 non digeriva più neanche i bocconi
prelibati, erano tanti chiodi nelle sue carni.
«Mi lasciano morir di fame, capisci!», lagnavasi colla figliuola, alle volte, cogli
205 occhi accesi dalla disperazione. – Non è per risparmiare… Sarà della roba buona…
Ma il mio stomaco non c’è avvezzo… Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli
occhi dove son nato!».
[…]

[Gesualdo, sentendo la fine vicina, vuole stilare il testamento. Poi ha un ultimo dialogo con la figlia.]

Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno,
sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato.
210 Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano
scarna, e trinciò una croce in aria,33 per significare ch’era finita, e perdonava a tutti,34
prima d’andarsene.
«Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…».
Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle
215 mani erranti35 che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente,
senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:
«Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente». Poi
gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…».36
La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e
220 qualcosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto…
come ho potuto… Quando uno fa quello che può…».37
Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fisso per vedere se
voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei
capelli fini.
225 «Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…».38
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza
e di passione, quei sospetti odiosi39 che dei bricconi, nelle questioni d’interessi,
avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli
indietro, e cambiò discorso.
230 «Parliamo dei nostri affari.40 Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…».
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva
che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per
chiudere gli occhi.
«Ma no, parliamone!», insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da
235 perdere adesso». Il viso gli si andava oscurando,41 il rancore antico gli corruscava42

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negli occhi. «Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo
marito…».
Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto,
cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori43 che gli avevano dati, lei e suo marito,
240 con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla:
«Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare
delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire!». Spiegava quel che gli erano costati,
quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava
come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i
245 pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o
cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue
in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: «Mangalavite, sai… la conosci anche
tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme44 di terreni, tutti alberati!… ti
rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca,
250 negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze!45 E la Salonia…
dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno
che vi lasciò le ossa!…».
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
«Basta», disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa… Senti…».
255 La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe
fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino
che esitava e cercava le parole.
«Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato46 a
delle persone47 verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te
260 che sei ricca… Farai conto di essere48 una regalìa che tuo padre ti domanda… in
punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…».
«Ah, babbo, babbo!… che parole!», singhiozzò Isabella.
«Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…».
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se
265 l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel
segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui
quell’altro segreto,49 quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola.
E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle
il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse
270 indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi
in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta,
com’essa era Trao,50 diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia,51 e non
aggiunse altro.
«Ora fammi chiamare un prete», terminò con un altro tono di voce.52 «Voglio
275 fare i miei conti con Domeneddio».

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Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio.53
Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte,
peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza
accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei
280 capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella
canzone54 che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
«Mia figlia!», borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la
sua. «Chiamatemi mia figlia!».
«Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla», rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
285 Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva
peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi
udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come
uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava
la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando55
290 delle bestemmie e delle parolacce.
«Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo56 adesso? Vuol passar mattana!57 Che cerca?».
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse58
il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di
tornare a dormire gli andò via a un tratto.
295 «Ohi! ohi! Che facciamo adesso?», balbettò grattandosi il capo.

Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio
aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa
sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso
da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre
300 fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava
a imbiancare.59 Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei
cavalli, e picchiare di striglie60 sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò
a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto,61 spalancò le vetrate, e s’affacciò a
prendere una boccata d’aria, fumando.
305 Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.
«Mattinata, eh, don Leopoldo?».
«E nottata pure!», rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo
regalo!».
310 L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece
segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
«Ah… così… alla chetichella?…», osservò il portinaio che strascicava la scopa
e le ciabatte per l’androne.
Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a
315 un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in
bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne
anche lei a far capolino nella stanza accanto.

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Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E
neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…».
320 «Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… Ha cessato di penare».
«Ed io pure», soggiunse don Leopoldo.
Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che
faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai.
«Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti
325 non si parla».
«Si vede com’era nato…»,62 osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate
che mani!».
«Già, son le mani che hanno fatto la pappa!…63 Vedete cos’è nascer fortunati…
Intanto vi muore nella battista64 come un principe!…».
330 «Allora», disse il portinaio, «devo andare a chiudere il portone?».65
«Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della
signora duchessa».

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il protagonista della Roba, Mazzarò, vive esclusivamente per i beni materiali, considerati alla stregua di amanti fedeli. Privo di altri affetti e sentimenti, egli trova in essi una sorta di religioso risarcimento della propria solitudine. Senza moglie né figli, non conosce la pietà per il prossimo (si pensi a come tratta i sottoposti) né l’amore filiale; la sua esistenza è simile a quella di un asceta che non si concede nulla: non ha vizi, non beve, non fuma, non ha interesse per le donne.

Consacratosi a un destino irrevocabile (Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba, r. 90), la sua scelta è premiata dal successo (Ed anche la roba era fatta per lui, r. 91), giusto riconoscimento alla sua dedizione, alla sua energia infaticabile, al suo martirio. Alla stregua di un eroe epico o di un cavaliere medievale, Mazzarò ignora infatti le tentazioni e non abbandona mai la vita “povera”, logorando i suoi stivali (rr. 87-88), andando in giro, sotto il sole e sotto la pioggia (r. 87), ossessionato da un unico pensiero: accumulare. In questa spasmodica ricerca, egli non si pone limiti, spostando sempre più in alto l’asticella dell’ambizione fino a non temere il confronto con nessuno (voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, r. 139).
Quando si avvicina la morte, però, il destino di Mazzarò si capovolge: da vincitore a vinto, sconfitto dalla legge inesorabile della natura e deciso a trascinare con sé nell’abisso del nulla anche la sua roba. Invidioso della gioventù altrui, seduto malinconicamente col mento nelle mani (r. 144) a guardare le sue terre, egli prorompe in un urlo forsennato («Roba mia, vientene con me!», r. 152) e, con un gesto estremo, al tempo stesso tragico e comico, ammazza a colpi di bastone le sue bestie. Il suo atteggiamento quasi di devozione religiosa verso l’accumulazione dei possedimenti terrieri, forse ritenuti un mezzo per tendere all’eternità, si scontra con il “tradimento” della morte, la quale separa la soggettività del suo io, destinato ormai alla fine, e l’oggettività della roba, che gli sopravvive, indifferente a lui e alla sua logica esistenziale.

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Anche in Mastro-don Gesualdo la morte rivela il fallimento della vicenda umana del protagonista: accolto malato e stanco nella dimora della figlia Isabella, egli trascorre gli ultimi giorni come un forestiero (r. 49) oggetto delle ipocrite attenzioni del genero e della fredda indifferenza della figlia, che non gli perdona di averla costretta a un matrimonio infelice al solo fine di garantirsi un titolo nobiliare prestigioso. Perfino i servi, sfaccendati nell’opulenta e indolente organizzazione della casa, lo guardano con disprezzo, invidiosi della scalata sociale realizzata da un uomo dalle origini umili come le loro.

Proprio alla fine dell’esistenza, Gesualdo capisce l’inutilità della ricchezza, unica ragione della sua vita operosa. Ora che la solitudine in cui è immerso non è più riscattata dal lavoro e dalla lotta, che lo avevano tenuto impegnato celandogli l’ostilità del mondo, capisce che la roba sta per sfuggirgli e sarà presto destinata alla rovina. Le terre abbandonate, lo spreco delle risorse, i lussi della casa gli fanno comprendere di essere uno sconfitto non soltanto sul piano degli affetti, ma anche su quello della roba che, per una sorta di spietata legge del contrappasso, sarà dissipata dal genero spiantato e scialacquatore.

Il destino di Gesualdo è pertanto quello di un tragico «personaggio bifronte» (Cigliana), nuovo padrone invidiato dai suoi, ma anche vilipeso dai galantuomini in quanto parvenu, bifolco rifatto. La sua scalata sociale si è trasformata in un fallimento umano doloroso e in un isolamento che è la conseguenza della rottura del patto di solidarietà con la classe sociale da cui proviene.
Anch’egli, come Mazzarò, ha costruito, mantenuto e accresciuto il proprio patrimonio grazie alla fatica e al sacrificio. Tuttavia, mentre Mazzarò, chiuso nella propria grettezza, non può concepire altro che un perpetuo bisogno di possesso, Gesualdo si concede un’infrazione che si rivelerà fatale: il matrimonio. Per quanto tale decisione sia sempre dettata da motivi di convenienza, essa è di fatto la causa di tutti i suoi mali, economici e affettivi.

C’è inoltre un’altra differenza tra i due uomini. Mentre in punto di morte Mazzarò vuole portare con sé la roba che ha accumulato in una sorta di grottesca e folle identificazione con essa, Gesualdo si appiglia disperatamente all’idea che essa possa sopravvivergli: a sancire la sua resa definitiva è la coscienza che questo non potrà accadere. Pur assillato anch’egli dall’attaccamento ai beni materiali, e benché incline come Mazzarò a una vita consacrata alla parsimonia e alla rinuncia, Gesualdo non può definirsi interamente né avaro né egoista, come notiamo dal pensiero rivolto ai figli illegittimi avuti prima del matrimonio, le persone verso cui ha degli obblighi (r. 259). Isabella, a cui chiede di lasciar loro qualcosa del patrimonio che sta per ereditare, non è capace però di entrare davvero in contatto con lui e i suoi occhi, dopo una breve, inespressa commozione, tornano indifferenti e insensibili: la distanza che separa padre e figlia si traduce così nello sdegnoso ritrarsi di Isabella, nella sua indisponibilità alla confidenza e nel riapparire della ruga ostinata dei Trao fra le ciglia (r. 270), di fronte alla quale a Gesualdo non resta che rinunciare a ogni tentativo di comunicazione.
In quegli occhi e nello sconforto senza lacrime di Gesualdo, rassegnato con dignità alla sconfitta (Allentò le braccia, e non aggiunse altro, rr. 272-273), Verga proietta il proprio radicale pessimismo sulle possibilità di salvezza dell’uomo, costretto a vivere in un mondo spogliato di ogni idealità, asservito alla sola morale utilitaristica e privato di ogni autentica religione degli affetti.

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Le scelte stilistiche

A differenza dell’“oppresso” Rosso Malpelo, che la società condanna alla marginalità, Mazzarò è un “oppressore”, ma eroe di un mondo che ne riconosce i valori e per questo lo rispetta e lo ammira. Ciò spiega perché Verga scelga, per raccontarne le imprese, la voce di un narratore complice, che aderisce alla sua mentalità e alla sua visione della vita. A eccezione dell’incipit (in cui il punto di vista è quello di un viandante che si presuppone colto) e del breve intermezzo del lettighiere (r. 7), che, da umile qual è, non comprende le scelte di Mazzarò, il racconto sembra ispirato direttamente dalle convinzioni del protagonista. Così assistiamo, in un certo qual modo, alla sua celebrazione: dall’anonimo narratore popolare che con stupita ammirazione descrive come normali, anzi come lodevoli, i metodi del protagonista, non giungerà mai una parola di censura della sua ingordigia economica, mai un dubbio sul suo comportamento, mai il sospetto che la folle rincorsa del denaro lo abbia portato a recidere ogni legame con gli uomini e anche con sé stesso. Perfino la considerazione della morte della madre come fardello economico (Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto, rr. 54-56) viene ritenuta del tutto normale: ma in realtà è evidente che spingendo alle estreme conseguenze la legittimazione delle azioni e della mentalità del protagonista, l’autore induce in chi legge una presa di distanza o anche un moto di nauseata indignazione.
Il modo in cui il narratore descrive le vicende del protagonista contiene perfino un che di leggendario o di fiabesco, a cui collaborano in modo decisivo accumulazioni* e iterazioni* (E cammina e cammina, rr. 11-12) nonché l’uso delle iperboli*, spia evidente della trasfigurazione mitica di Mazzarò operata dall’immaginario popolare (Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, r. 25). È il lettore a dover cogliere, dietro alla straniante impersonalità di Verga, il dramma di un uomo che, per dedicare alla roba la propria vita, finisce per essere travolto dall’inutilità dei suoi sforzi, nel delirante, finale abbraccio con tutto ciò che ha conquistato.

La stessa ottica straniante si può rilevare nella variabilità dei punti di vista delle ultime pagine di Mastro-don Gesualdo. All’inizio del passo è lo stesso protagonista che osserva la realtà del palazzo in cui è ospitato: la condizione di escluso in cui si trova gli permette di valutare la vacuità e l’insensatezza che vi regna. Anche durante il colloquio con Isabella, dietro l’apparenza di un’osservazione neutrale compiuta da un narratore esterno, a essere registrati sono soprattutto gli stati d’animo di Gesualdo: guardandola fisso per vedere se voleva lei pure (rr. 222-223), La guardò fissamente (r. 255), E mentre la guardava (r. 266).
Le fasi finali dell’agonia del protagonista vengono descritte invece attraverso il punto di vista del domestico: è lui a prestare al narratore la chiave di valutazione dei fatti, simboleggiata da una serie di espressioni che sottintendono il suo cinismo e il disprezzo per il moribondo (capricci, r. 280; canzone, r. 281; contrabbasso, r. 286; uzzolo e mattana, r. 291: gli ultimi due termini sono toscanismi propri del linguaggio di scuderia e riferiti ai cavalli imbizzarriti). Al lettore non resta che avvertire lo sconsolato pessimismo di Verga, il quale non evita di concedersi però una deroga all’impersonalità: l’epiteto poveraccio che riserva al morente alla r. 160 tradisce un sentimento di pietà per il tragico fallimento di un uomo ingannato dal miraggio della ricchezza e della potenza e dalla tragica illusione di governare il destino.

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      Verso le competenze

La roba

COMPRENDERE

1 La novella può essere divisa in tre sequenze fondamentali: la descrizione della roba di Mazzarò; la sua storia; la conclusione della vicenda. Individua nel testo queste diverse parti, quindi riassumine il contenuto.

ANALIZZARE

2 Fai l’analisi del periodo della frase iniziale della novella (rr. 1-8).


3 Nella Roba, per accentuare il tono epico della narrazione, Verga ricorre a una serie di iperboli. Trovale nel testo.


4 Individua le espressioni popolari presenti nella novella.


5 La presentazione iniziale di Mazzarò è affidata al punto di vista di un viandante sconosciuto, che osserva la proprietà del protagonista. Da quali elementi possiamo supporre il suo alto livello culturale?

INTERPRETARE

6 Il testo è ricco di similitudini che attingono al mondo naturale (folto come un bosco, rr. 16-17; come un fiume, r. 136) e animale (ricco come un maiale, rr. 31-32; numerosi come le lunghe file dei corvi, rr. 62-63). Perché, secondo te?

PRODURRE

7 Un altro famoso avaro è Arpagone, immortalato dal commediografo francese Molière (1622-1673) nella commedia L’avaro (1668). Sulla base del brano contenuto nel libro digitale, individua analogie e differenze con Mazzarò in un testo descrittivo di circa 20 righe.


8 Mazzarò può essere considerato un perfetto esemplare di avaro. In che cosa consiste per te l’avarizia? Quando e perché nella società di oggi una persona può essere considerata avara? Scrivi al riguardo un testo espositivo e argomentativo di circa 30 righe.


La morte di Gesualdo

COMPRENDERE

9 Dove e in che modo muore il protagonista del romanzo?

ANALIZZARE

10 Elenca tutte le manifestazioni di lusso a causa delle quali il patrimonio di Gesualdo andrà in rovina.


11 Trova nel testo le espressioni che denunciano il fastidio o l’invidia dei servitori nei confronti del protagonista.

INTERPRETARE

12 Perché Gesualdo prova irritazione per l’atteggiamento della servitù del palazzo?


13 Il colloquio tra il protagonista e la figlia è costellato di punti di sospensione. Perché?


14 Nella sofferenza provata da Gesualdo dinanzi allo sperpero del genero si può cogliere la differenza di due mentalità, espressione di due diverse classi sociali. Sei d’accordo con quest’affermazione? Motiva la tua risposta.

PRODURRE

15 Dopo aver letto la novella e il brano del romanzo, metti in luce in un breve testo argomentativo di circa 30 righe le differenze esistenti nel rapporto che i due protagonisti intrattengono con la roba.


Al cuore della letteratura - volume 5
Al cuore della letteratura - volume 5
Il secondo Ottocento