La concezione della vita

Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Verga

La concezione della vita

La lucida analisi della realtà che Verga compie nella sua opera può, sia pure indirettamente, servire da denuncia della tragica sconfitta che incombe sull’umanità, nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. Non si pensi tuttavia che egli sia tentato di suggerire proposte consolatorie, possibili illusioni e vie di fuga capaci di offrire alternative alla vita di oggi o di domani. Verga non concepisce alcuna possibilità di riscatto o di emancipazione, perché il dolore non deriva dalle ingiustizie o dal corso della Storia, ma è connaturato al fatto stesso di esistere e per questo riguarda indistintamente tutti gli uomini e tutte le classi sociali.
L’autore anzi esprime una condanna nei confronti di chi tenta di mutare la propria condizione sociale e di affrancarsi dalle proprie origini. L’unica risposta possibile alla situazione di sofferenza è di natura difensiva: nella novella Fantasticheria, per esempio, Verga esalta il «tenace attaccamento di quella povera gente» alla propria terra, ai propri costumi, alla propria mentalità. L’orizzonte dei vinti e dei diseredati sarà sempre chiuso «fra due zolle», al di fuori delle quali ci sono soltanto la rovina e la perdizione: «Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui». È qui enunciato il cosiddetto «ideale dell’ostrica»: come questa, staccata dal proprio scoglio, è destinata a morire, così chi abbandona, rifiuta o tenta di emanciparsi dalle proprie radici è condannato fatalmente a soccombere.

Accettando la teoria darwiniana della “lotta per la vita”, Verga non ripone alcuna fiducia nel progresso, che anzi è visto come una macchina mostruosa, una «fiumana» inarrestabile che travolge i più deboli: per sopravvivere al vortice evolutivo, non resta che ancorarsi alla condizione che si è avuta in sorte, difendendosi da ogni interferenza esterna e da ogni tentazione di alleviare il proprio stato. Il destino che si abbatte sugli uomini è infatti invincibile e immutabile. Inutile è contrapporvisi, confidando in un riscatto impossibile, che sia quello promesso dalla Provvidenza divina, oppure quello garantito dai cantori positivisti della scienza, o ancora quello auspicato dai socialisti mediante la lotta di classe. Si può solamente tentare di mitigarne i colpi e le avversità appigliandosi al lavoro, alla famiglia e ai primitivi codici di saggezza e di sopportazione: una mesta, ma dignitosa rassegnazione rappresenta per Verga l’unico antidoto morale al dolore dell’esistenza e all’urto spietato della civiltà.

Alla concezione positiva della Storia di tradizione illuministica e liberale, Verga oppone dunque «la visione di un caotico e ingovernabile divenire del mondo, che trascende la volontà degli uomini ed è indifferente alla loro sorte, rievocando la severa immagine leopardiana di natura» (Martinelli). Di questa sorte, Verga vuole essere il testimone: il suo ateismo materialista lo porta a guardare alla realtà senza concepire per l’individuo alcuna felicità, ma soltanto un orizzonte dominato da una grandiosa e oscura fatalità. Scopo ultimo della sua opera è mostrare il carattere ineluttabile dell’esperienza umana, l’impari lotta che si è costretti a ingaggiare per sopravvivere ai meccanismi della Storia e della natura.

Questa cupa visione del mondo si accentua sempre più, durante la sua parabola di uomo e di scrittore. Con Mastro-don Gesualdo, soprattutto, assistiamo a una crescente disumanizzazione e all’affermarsi di temi quali l’alienazione e l’incomunicabilità. Travolto ogni sentimento di appartenenza e cancellati i vincoli di umanità e solidarietà, il mondo verghiano finisce per essere guidato solo da una vorace logica economica, accettata da tutti senza neppure il tentativo di contrastarla. I valori borghesi di profitto e benessere hanno ormai turbato e corrotto gli equilibri di una società secolare e immobile, conducendola alla disgregazione. È un processo senza ritorno, come senza ritorno è la vicenda del manovale Gesualdo fattosi – per sua disgrazia – borghese.
Nessuno riesce a sottrarsi al culto della «roba», la proprietà dei beni materiali diventa aspirazione di vita, unico, ossessivo fine dell’esistenza umana. Chi accumula proprietà si illude di avere maggiori probabilità di sopravvivere, mettendosi al riparo dalle insidie di una società in cui ognuno può “farcela” soltanto a scapito degli altri. Al tempo stesso, i beni diventano parte integrante della persona, tanto che chi li possiede non è in grado di distaccarsene (come vediamo nel tragicomico epilogo della vita di Mazzarò, protagonista della novella La roba).

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Il personaggio di Gesualdo rappresenta proprio una vittima del progresso e delle spietate leggi del determinismo verghiano: ancora ingenuamente fiducioso di poter far convivere «roba» e affetti, finisce per soggiacere alla legge crudele che vede l’una nemica degli altri.
D’altro canto, per quanto arricchitosi, egli resta e resterà per sempre un “villano”, che ha faticato tanto per entrare nel mondo dei “signori” solo per scoprire che la morale economica che vi regna (e a cui si è dovuto adeguare) lo ha condotto alla solitudine, all’inaridimento e all’incomunicabilità con i suoi cari. Il cancro che lo porta alla tomba è, in questo senso, metaforicamente lo sfacelo della sua «roba» destinata a essere sperperata, in un connubio tragico e significativo: perdere la «roba» è, in fondo, come perdere la vita.

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La roba

Novelle rusticane


Il motivo verghiano della «roba» è perfettamente esemplificato dalla novella omonima e dal romanzo Mastro-don Gesualdo. La prima – pubblicata inizialmente nel dicembre del 1880 nella “Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere e arti” e poi compresa nella raccolta Novelle rusticane – ha come protagonista Mazzarò, un uomo che, da bracciante sfruttato, ha raggiunto la ricchezza, appropriandosi a poco a poco delle terre e dei beni del suo padrone.

Il viandante1 che andava lungo il Biviere di Lentini,2 steso là come un pezzo di
mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi
di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di
Passanitello,3 se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa,
5 sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga4 suonano
tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda,

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e il lettighiere5 canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno
della malaria: «Qui di chi è?», sentiva rispondersi: «Di Mazzarò». E passando
vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese,
10 e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano
la mano sugli occhi6 per vedere chi passava: «E qui?». «Di Mazzarò». E cammina
e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi,7 e vi scuoteva all’improvviso
l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul
colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano
15 sdraiato bocconi sullo schioppo,8 accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso,
e apriva un occhio per vedere chi fosse: «Di Mazzarò». Poi veniva un uliveto folto
come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo.
Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il
fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri
20 di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese,9 e i buoi che passavano
il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani
della Canziria,10 sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre
di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio
che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. «Tutta roba
25 di Mazzarò». Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale
che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le
zolle, e il sibilo dell’assiolo11 nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto
grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. – Invece
egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco,12
30 a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a
riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come
un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante,13 quell’uomo.
Infatti,14 colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove
prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua,
35 col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano
di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza,
e gli parlavano col berretto15 in mano. Né per questo egli era montato in
superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che
eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore;16 ma egli portava ancora il
40 berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era
anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di
seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga
– dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura.
Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della
45 terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava
meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio,

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ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande
come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i
contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava
50 la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello,17
nelle calde giornate della messe.18 Egli non beveva vino, non fumava, non usava
tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie
larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il
vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle
55 che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì,19 quando aveva dovuto farla
portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando
andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel
che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena
60 curva 14 ore, col soprastante20 a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi
un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita
che non fosse stato impiegato a fare della roba;21 e adesso i suoi aratri erano numerosi
come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli,
che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel
65 fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare,
come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia
accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare,
nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla messe poi i mietitori di
Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente,
70 col biscotto22 alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e
le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano
nelle madie23 larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro
la fila dei suoi mietitori, col nerbo24 in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e
badava a ripetere: «Curviamoci, ragazzi!». Egli era tutto l’anno colle mani in tasca
75 a spendere, e per la sola fondiaria25 il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva
la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di
grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire26 tutto; e ogni volta che
Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di
80 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia27 per la sua roba, e andava
a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re,28 o gli altri; e alle
fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade,
che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda,29 alle volte
dovevano mutar strada, e cedere il passo.
85 Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire
la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi

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dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi
stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto
quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non
90 aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la
roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima
era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi
campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte
95 quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi
campieri30 dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al
minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non
si faceva sorprendere colle mani nel sacco. «Costui vuol essere rubato per forza!»,
diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di
100 dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: «Chi è minchione se ne stia
a casa», «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe
fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la
vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla
mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi
105 covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del
barone; e costui uscì31 prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e
poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non
firmasse delle carte bollate,32 e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce.33 Al
110 barone non rimase altro che lo scudo di pietra34 ch’era prima sul portone, ed era
la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: «Questo solo, di
tutta la mia roba, non fa per te». Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e
non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu,35 ma non gli
dava più calci nel di dietro.
115 «Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò!», diceva la gente;
e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri,
quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella
testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del
mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non
120 cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma
per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei
gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva
nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero
diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva
125 poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava36 – per un pezzo di
pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a
lagnarsi delle malannate,37 i debitori che mandavano in processione le loro donne a
strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla
strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare.

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130 «Lo vedete quel che mangio io?», rispondeva lui, «pane e cipolla! e sì che ho
i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba». E se gli domandavano
un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: «Che, vi pare che l’abbia
rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?». E se
gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva.
135 E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano
per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla
sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba,
e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra;
perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re,
140 ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva
lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata
la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora,
dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare
145 le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano
di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia,
e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino
stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: «Guardate
chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!».
150 Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima,
uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi
di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: «Roba mia, vientene con me!».

Al cuore della letteratura - volume 5
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Il secondo Ottocento