Le poetiche antinovecentiste

   8.  L’ARTE TRA LE DUE GUERRE >> Il Ritorno all’Ordine e la riscoperta del classico

Le poetiche antinovecentiste

Nella seconda metà degli anni Venti si sviluppano poetiche e ricerche che si oppongono al clima autarchico del Novecento. Per i raggruppamenti artistici che si formano in direzione antinovecentista l’obiettivo è quello di recuperare il dialogo con i linguaggi contemporanei europei, portando lo sguardo al di là dello sterile classicismo su cui si era arroccato il movimento sarfattiano.

Milano, Torino e Roma

I chiaristi lombardi – tra cui militano l’architetto e critico d’arte Edoardo Persico, Umberto Lilloni, Angelo del Bon, Francesco De Rocchi, Adriano Spilimbergo, Cristoforo De Amicis e Attilio Alfieri – si riuniscono a Milano a partire dal 1927, e dal 1929 si raccolgono intorno a Persico, recuperando le atmosfere morbide e luminose della pittura impressionista. Nelle loro opere prevale un senso di inquietudine e di fragilità: alla compatta robustezza delle immagini del Novecento italiano, legate a una rappresentazione classica e monumentale dell’uomo, si sostituisce un’iconografia più debole, animata da figure disorientate, vulnerabili, persino smarrite in un sentimento di intimità e commozione, avvolte in una profusione di luce aurorale. Ai valori volumetrici, si preferisce l’incanto di una pittura chiara, vibrata e sospesa in un tempo provvisorio della vita o addirittura in quello effimero del sogno.
Anche i Sei di Torino (Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci) rivolgono l’attenzione all’Impressionismo, ai valori costruttivi cézanniani, al colore espressionista e alle ricerche degli artisti dell’École de Paris.
Il clima più eccentrico si sviluppa a Roma intorno al 1927 dal sodalizio di Mario Mafai (Roma 1902-1965), Scipione (Gino Bonichi, Macerata 1904-Arco 1933) e Antonietta Raphaël (Kaũnas 1900-Roma 1975). La loro ricerca si connota per un virulento e acceso Espressionismo. È il critico Roberto Longhi a battezzare i tre pittori, nel 1929, Scuola di Via Cavour, rifacendosi al nome della via in cui abitavano Mafai e Raphaël. Il termine “scuola” non deve tuttavia far pensare a un’organizzazione, né a regole e programmi, che di fatto sono molto lontani dallo spirito di questi artisti.
Mafai e Scipione si conoscono nel 1924 e insieme frequentano la Scuola libera del nudo e la biblioteca di Palazzo Venezia, dove consultano monografie e studiano l’arte antica cercando i loro riferimenti lontano dalla classicità: guardano ad artisti come Tintoretto e alla pittura spagnola tra Manierismo e Barocco, da El Greco a Velázquez.
Queste fonti sono ben evidenti nella pittura di Scipione, come mostra per esempio Il Cardinal decano (64). Avvolto in un’atmosfera infuocata e visionaria, il cardinale si staglia in primo piano, con le sue mani allungate e ossute riprese dalla pittura di El Greco. Sullo sfondo la cupola e il colonnato di San Pietro si smaterializzano nel colore e nella luce dominata dalle intermittenze del colore rosso, metafora del dolore e delle ferite dentro la precarietà del tempo e della storia.

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Un’affine atmosfera pervade Case al Foro Traiano di Mafai (65), che ritrae la città eterna affrancandola da un’immagine solenne e monumentale per restituirla in una dimensione visionaria. Come dei fantasmi, affiorano in primo piano i resti archeologici oltre i quali si stagliano le facciate delle abitazioni, dipinte con colori infuocati, bagnate da una luce livida e irreale e spogliate della loro consistenza plastica, ad accentuare il carattere espressionista della ricerca dell’artista.
Nel 1924 giunge a Roma da Parigi l’artista lituana Raphaël, che porta informazioni sulle esperienze degli artisti dell’École de Paris, come Chagall, Modigliani e Soutine, insieme a un bagaglio fantastico che deriva dalla sua cultura ebraica d’origine. Nella sua pittura sono presenti molti temi legati alla maternità, come i numerosi ritratti delle figlie. In Simona in fasce (66) la semplificazione della forma in assenza di prospettiva sembra ripresa da una metopa di un tempio greco ed evidenzia una grammatica compositiva di gusto arcaico con marcati accenti volumetrici, felice annuncio della futura attività dell’artista, legata prevalentemente alla scultura.

L’Astrattismo negli anni Trenta

Si collocano in una dimensione opposta al Ritorno all’Ordine anche alcune ricerche astratte che si sviluppano a partire dagli anni Trenta. Gli artisti che si volgono verso questo orizzonte guardano sia alle ricerche astratte internazionali, sia all’opera dei padri storici dell’astrazione – da Kandinskij a Mondrian al Costruttivismo russo – sia, infine, alle esperienze del Bauhaus e dei circoli di arte astratta che si formano a Parigi in quegli anni.
In Italia le prime esperienze in direzione astratta si individuano in ambito futurista, soprattutto con Giacomo Balla. Sulla scia di questi esempi, e grazie all’influenza delle istanze astratte internazionali, nel corso degli anni Trenta si sviluppano ricerche non figurative che lasciano affiorare suggestioni metafisiche. I centri di elaborazione dell’Astrattismo in Italia sono Como e Milano. Il gruppo comasco ruota attorno alla figura dell’architetto Giuseppe Terragni. Nel capoluogo lombardo, attorno alla Galleria del Milione, convergono Osvaldo Licini, Lucio Fontana, Fausto Melotti, Mauro Reggiani, Bruno Munari e Atanasio Soldati, i quali nel secondo dopoguerra porteranno avanti le loro ricerche in direzioni diverse.
Osvaldo Licini (Monte Vidon Corrado 1894-1958) sul finire del 1931, di passaggio a Parigi, entra in contatto con i vari gruppi di tendenza astrattista che animavano l’ambiente artistico d’oltralpe. Questa esperienza accentua un processo già in corso nella sua pittura, che aveva visto abbandonare progressivamente l’elemento naturalistico per sfociare in una sintassi totalmente astratta. Osservando Ritmo (Fili astratti su fondo bianco) (67), esile costruzione di forme geometriche in bilico verso l’infinito, si fa evidente come la ricerca di Licini sia distante tanto dal geometrismo assoluto di Mondrian quanto dallo spiritualismo di Kandinskij. L’astrazione è per Licini «l’arte dei colori e delle forme libere, liberamente concepite, ed è anche un atto di volontà e di creazione, ed è, contrariamente a quello che è l’architettura, un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia». La sua pittura giunge a una dimensione fortemente lirica ed emotiva, tanto da invocare echi surreali e fantastici in cui lo spazio da fisico diventa mentale, come si evince da una sua nota dichiarazione, «il mio regno è nell’aria». 

Per Fausto Melotti (Rovereto 1901-Milano 1986) l’arte astratta è sintesi di rigore e geometria, di suggestioni derivate dalla sua formazione musicale e da antiche radici mediterranee. Come nota il critico Paolo Fossati, Scultura n. 15 (68) è basata su un “rigore contrappuntistico e armonico”. Tre moduli verticali ritmano lo spazio trovando la loro sintesi nel motivo ondulato che li attraversa e li unisce. Questi corpi diafani e smaterializzati si stagliano in un’atmosfera atemporale: ne deriva una composizione di forme pure e assolute, in cui la geometria, come nella ricerca di Licini, incontra la poesia per rifondare una nuova plastica moderna; la ricerca si muove, con grazia fluttuante, verso una prospettiva mentale, intrisa di accenti musicali e ironici.

Il gruppo di Corrente

Il gruppo di Corrente si forma attorno alla rivista “Corrente di Vita Giovanile”, fondata nel 1938 da Ernesto Treccani. Questa rivista riunisce giovani intellettuali iscritti alle associazioni giovanili fasciste e personalità più sbilanciate verso posizioni liberali e marxiste. Malgrado la formazione composita, il loro obiettivo è comune. Essi si oppongono alle recenti scelte politiche del regime, che portano all’alleanza con la Germania, alla promulgazione delle prime leggi razziali e, di fatto, allo scoppio imminente del nuovo conflitto, e si propongono, invero, di promuovere la libertà culturale e di sviluppare un nuovo rapporto con la realtà. Dal punto di vista artistico, le personalità che convergono attorno a Corrente si oppongono allo sterile classicismo del gruppo del Novecento per recuperare un dialogo con l’Europa e con la contemporaneità: guardano all’Espressionismo, soprattutto a Van Gogh, a Ensor e alla pittura fauve, ma anche al Realismo francese dell’Ottocento e al grande esempio picassiano di Guernica (► pp. 271-273), manifesto di una nuova arte politica che intende affermare la propria opposizione alla follia della guerra e dei fascismi.
Lavorando spesso attorno a temi attinti dall’iconografia religiosa, come la deposizione e la crocifissione, gli artisti di Corrente parlano del presente e del dramma della guerra, coniugando impegno politico e rinnovamento linguistico. Si veda a tal proposito la Crocifissione (69) di Renato Guttuso (Bagheria 1912-Roma 1987), in cui si fondono suggestioni picassiane diverse – dalla Crocifissione (70) a Guernica – con un colore forte, marcatamente espressionista. Rivela Guttuso: «Questo è tempo di guerra e di massacri. Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi». Con foga espressionista, che rimanda a soluzioni cubiste e futuriste, la Crocifissione, una delle opere più celebri dell’artista siciliano, presenta il tradizionale tema iconografico in una luce completamente nuova, a partire dalla figura nuda della Maddalena, considerata scandalosa dalle posizioni ecclesiastiche più conservatrici ma, a detta dell’autore, simbolo vero di un dolore universale senza tempo, al di fuori di ogni riferimento materiale. La scelta, altrettanto forte, di non allineare le croci sul Golgota ma di presentarle assembrate è un’ulteriore conferma dell’interpretazione autonoma del soggetto religioso pur nei continui rimandi alla lettura evangelica, rintracciabili nelle azioni dei soldati, nella cura dei dettagli (le corde che legano i due ladroni, i simboli della Passione sul tavolo in primo piano, vera e propria natura morta) e nel paesaggio sullo sfondo, autentico scorcio di una Sicilia rivisitata attraverso l’essenzialità dei tracciati urbani di matrice cézanniana e cubista. Notevole l’impeto cromatico di derivazione quasi manierista (il ricordo va alla Deposizione di Rosso Fiorentino), all’origine di quel particolare effetto di straniamento e atemporalità che porta lo sguardo dell’osservatore dentro un orizzonte terrestre saturo di dolore e di angoscia, di disperazione e di morte.

Dossier Arte - volume 3 
Dossier Arte - volume 3 
Dal Neoclassicismo ai giorni nostri