La poetica di Marinetti
Letterato e poeta vicino agli artisti, Fillippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto 1876-Bellagio 1944), il cui vero nome è Emilio Angelo Carlo, trascorre ad Alessandria d’Egitto i primi anni di vita. Si trasferisce poi con la famiglia a Milano, città che si accinge a vivere un intenso processo di sviluppo economico e industriale. Dopo aver conseguito il diploma a Parigi, prosegue i propri studi in Legge alle facoltà di Pavia e di Genova, ma la sua vocazione è la poesia, alla quale si dedica totalmente dopo il conseguimento della laurea in Giurisprudenza. Nei primi anni del Novecento collabora con l’“Anthologie”, rivista milanese stampata a Parigi in francese e in italiano; nel 1905 fonda a Milano la rivista “Poesia”, palestra per l’elaborazione e la diffusione del suo pensiero estetico e letterario che trova nel verso libero (svincolato da schemi e forme metriche tradizionali) un primo, fondamentale momento di rinnovamento e di rottura. Marinetti porta avanti un’azione artisticoculturale rivolta al presente, tesa a narrare i fermenti della società contemporanea, dove il progresso, la velocità e la macchina sono motivi cruciali di riflessione. Se Parigi è l’orizzonte culturale al quale il poeta si rapporta costantemente, Milano, con le proprie peculiarità e contraddizioni culturali e sociali, è la sua officina, punto di partenza per attivare un forte e indelebile processo di rinnovamento della cultura italiana. La Milano dell’età giolittiana è una città in espansione, che guarda al futuro, grazie al forte sviluppo industriale, nonostante sia caratterizzata da un clima culturale ancora avvolto da un sonnolento torpore provinciale. Questa situazione si accentua enormemente se si volge lo sguardo al resto della Penisola. È proprio per far tabula rasa della stagnante cultura passatista che Marinetti nel 1909 lancia il Manifesto del Futurismo: «È dall’Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il FUTURISMO – si legge a chiusura del Manifesto – perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri».
Con uno stile aggressivo e provocatorio, Marinetti declina il proprio pensiero in undici punti programmatici di forte impatto. Invoca
la ribellione e la guerra, considerata la “sola igiene del mondo”; narra il nuovo paesaggio tecnologico, fatto di arsenali e cantieri, di officine e stazioni. Esalta i nuovi miti della società contemporanea, il dinamismo e la velocità, gli scioperi e le sommosse della nuova classe operaia: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia». Marinetti si rivolge in prima battuta ai letterati, ma il portato del suo pensiero raggiunge tutte le arti.