Gian Lorenzo Bernini

   3.  IL SEICENTO >> Arte e stupore: il Barocco

Gian Lorenzo Bernini

Da sempre l’immenso patrimonio costituito dalla statuaria antica è stato spunto per studi, riflessioni, nuove creazioni. Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento si assiste a una svolta clamorosa verso un’arte completamente nuova e inattesa. Con l’accrescimento del collezionismo degli oggetti antichi, praticato da innumerevoli personalità religiose e laiche, si vengono a creare nuove attività per gli artisti. Si passa dalla raccolta di oggetti piccoli e preziosi (praticata nel Quattrocento e nel Cinquecento) come monete, medaglie, cammei, alla collezione di grandi statue, busti, frammenti monumentali, da tutti giudicati fonti insuperabili di armonia e bellezza. Comincia così a svilupparsi la specializzazione di molti artisti e artigiani nel campo del restauro delle statue antiche.
Uno dei maggiori esponenti di questa tendenza nei primi anni del Seicento a Roma è il toscano Pietro Bernini (Sesto Fiorentino 1562-Roma 1629), scultore di talento che raggiunge una notevole fama anche grazie alla conoscenza sempre più precisa della tecnica degli antichi.
A Napoli, dove si era spostato con la moglie, lo scultore aveva avuto un figlio, Gian Lorenzo (Napoli 1598-Roma 1680), che fin da fanciullo aveva dimostrato capacità tali da indurre Pietro a dargli una formazione ferrea proprio a partire dallo studio delle statue antiche. Forte di questa esperienza il giovanissimo Gian Lorenzo acquisisce una tecnica prodigiosa in cui tutti gli strumenti della scultura (dal trapano allo scalpello, dalla raspa alle cere di lucidatura) sono combinati insieme per conseguire quel livello "vivente" della figura che aveva caratterizzato appunto la statuaria classica. Anche il giovane scultore, come il padre, entra presto sotto la protezione del cardinale Scipione Borghese, uno dei più grandi committenti d’arte di tutti i tempi.

I gruppi borghesiani

Gian Lorenzo Bernini inizia, poco più che ventenne, a realizzare per Scipione Borghese gruppi scultorei in cui la rinascita dell’ideale classico tocca un vertice assoluto.
I gruppi di Enea e Anchise, di Apollo e Dafne e del Ratto di Proserpina e il David che scaglia il sasso, divengono subito capolavori osannati e permettono a Bernini di iniziare una carriera vivace e fortunata.

Enea e Anchise

Questo gruppo (45), che è il più antico ed è realizzato interamente dal solo Gian Lorenzo, si ispira all’Eneide di Virgilio: raffigura il momento in cui Enea, in fuga da Troia in fiamme, porta sulle spalle il vecchio padre Anchise ed è seguito dal figlioletto Ascanio. La differente età dei tre protagonisti permette all’artista di esibire il suo virtuosismo tecnico nella resa della pelle delle tre diverse età dell’uomo: vellutata e morbida nel bambino, vigorosa e guizzante in Enea, segnata dagli anni in Anchise.

Ratto di Proserpina

Lo stesso virtuosismo ritorna nella costruzione del Ratto di Proserpina (46): il re degli inferi Plutone rapisce la figlia di Giove e Cerere, mentre il cane Cerbero sorveglia l’azione. La scultura è creata secondo due direttive divergenti, che evidenziano la lotta convulsa tra Plutone e la fanciulla, avvitati in un movimento a spirale. Come già in Enea e Anchise, Bernini sfrutta al massimo le potenzialità del marmo per sottolineare le differenze tra i corpi dei due personaggi: le carni di Proserpina sono morbide e femminili, mentre Plutone ha muscoli possenti e una folta barba, realizzata con l’uso del trapano. La mano del dio sembra affondare nella coscia della fanciulla, con una strabiliante imitazione mimetica del corpo umano e delle sue reazioni.

Apollo e Dafne

In questo gruppo (47) il tema dell’inseguimento del dio che afferra la ninfa e la vede trasformarsi in una pianta di alloro (secondo il racconto delle Metamorfosi di Ovidio, autore classico fondamentale per la cultura secentesca) permette a Bernini di dare libero sfogo al suo talento di abile modellatore del marmo. Le due figure sembrano muoversi nello spazio, fissate come in un'istantanea. Dafne scappa disperata, con la bocca socchiusa in un grido, mentre Apollo l'ha quasi raggiunta: il rapporto tra i due personaggi è esplicitato da una linea obliqua, che parte dal piede sollevato del dio e continua nel corpo incurvato della ninfa, fino al braccio sinistro sollevato ad arco. Viene così reso con efficacia il movimento nonostante la fissità della materia della statua, tra un moto repentino e il pesante materiale che sembra impedirlo. Il corpo nudo della ninfa, modellato per far percepire al meglio la bellezza dell'incarnato, è sensuale: il confine tra l'arte e la realtà si assottiglia e il marmo, solido e immobile, si disfa nelle foglie leggere in cui si stanno trasformando le dita e i capelli di Dafne, così sottili da diventare quasi simili a un alabastro trasparente.

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David che scaglia il sasso

II giovane eroe (48) è raffigurato nel momento di massima tensione fisica ed emotiva, mentre sta per far roteare la fionda e lanciare il sasso che ucciderà Golia. Il volto concentrato, con le labbra serrate per lo sforzo, è un autoritratto dell’artista ; il corpo, muscoloso e scattante, ruota secondo un movimento a spirale e imprime alle gambe una spinta che si percepisce perfettamente, superando la difficoltà di resa del movimento creata da una materia difficile da plasmare come il marmo: la raffigurazione appare così molto diversa da quella, più statica e intellettuale, del capolavoro del primo Cinquecento, il David di Michelangelo, ma anche dalle precedenti composizioni fiorentine quattrocentesche, in cui l’eroe era colto nel momento successivo alla vittoria. A differenza delle virtuosistiche statue della seconda Maniera, in cui gli scultori consigliavano che lo spettatore si muovesse intorno alla scultura, scoprendo sempre nuovi punti di vista, Bernini prevede una visione frontale privilegiata, in modo che lo spettatore si trovi idealmente al posto del gigante, completando il gruppo ed entrando di fatto come attore, in attesa di essere colpito, con un’innovativa e teatrale rottura dei confini tra spazio immaginario dell’arte e del racconto biblico e spazio reale dell’uomo del Seicento.

Baldacchino di San Pietro

Nel corso della sua vita Bernini riesce quasi sempre a mantenere la prestigiosa posizione di un artista di successo, conscio del proprio ruolo, al diretto servizio del papa regnante e dei maggiori personaggi della Curia. Urbano VIII, dotto e sensibile, lo chiama il "Michelangelo del suo tempo" e lo sceglie quale suo prediletto: come Michelangelo un secolo prima, Bernini è scultore, pittore e architetto e si distingue anche quale esperto in settori particolari come per esempio gli allestimenti teatrali, gli apparati effimeri per le feste e le grandi cerimonie che di frequente si tenevano a Roma. Il suo percorso artistico è tale che ben presto assume la supremazia assoluta nella Roma del tempo, un talento in grado di creare un nuovo clima culturale.
Per Urbano VIII il maestro realizza il Baldacchino (49) che impreziosisce l’altare maggiore di San Pietro (1624-1633) e lo consacra come l’inventore di nuove forme di "spettacolarizzazione" delle sacre immagini. Questa incredibile opera è concepita come un gigantesco arredo processionale trasformato in monumento ed è il simbolo di una decisiva svolta nella cultura artistica del Seicento: la ricchezza dei materiali, il dinamismo della composizione e la compenetrazione fra scultura e architettura sono caratteri distintivi dei nuovi indirizzi dello stile che viene chiamato "Barocco". Per la morfologia delle colonne l’artista si ispira a quelle, antichissime, dalla tipica forma a spirale conformate a modo di pergola di vite, simbolo di vita eterna. Colonne di questo tipo erano presenti nel presbiterio dell’antica basilica costantiniana e si diceva provenissero dal Tempio di Salomone a Gerusalemme, forse portate a Roma dalle armate dell’imperatore Tito come trofeo di guerra. Bernini concepisce l’idea di realizzare le colonne del baldacchino ingigantendo a dismisura le proporzioni e utilizzando un materiale prezioso, il bronzo, ottenuto in parte, tra feroci polemiche, dalla fusione delle travi del pronao del Pantheon.
La figura del committente è evocata nel baldacchino dalla presenza delle api sulle colonne, emblema della famiglia di Urbano VIII. Il baldacchino, che si erge maestoso nel centro-croce della basilica, si confronta con la sovrastante cupola di Michelangelo e si pone come elemento di mediazione visiva e spaziale fra l’immensità dell’architettura e la dimensione dell’osservatore. Per concludere la struttura, dove una copertura rettilinea avrebbe mortificato lo slancio possente, Bernini attinge alla capacità progettuale di un giovane genio che collaborava al cantiere, Francesco Borromini (► p. 396), nipote del primo architetto di San Pietro, Carlo Maderno (Capolago 1556-Roma 1629); a questo si doveva la facciata della basilica (1607-1614) e l’intenzione dell’allungamento delle navate che stravolgeva l’originario progetto michelangiolesco, basato sull’idea iniziale di Bramante della pianta centrale. Il giovane Borromini è probabilmente il responsabile dell’invenzione di un sistema di copertura a grandi archi che si proiettano nello spazio e non chiudono ma definiscono la forma pur lasciandola aperta e aerea: un’idea che segna l’avvio della carriera di uno dei più straordinari progettisti dell’età moderna.

Dossier Arte - volume 2
Dossier Arte - volume 2
Dal Quattrocento al Rococò