Annibale Carracci

   3.  IL SEICENTO >> L’arte del primo Seicento

Annibale Carracci

L'Accademia degli Incamminati

Accanto all’esperienza di Caravaggio e dei suoi imitatori e seguaci, l’altro protagonista della pittura romana del primo Seicento è Annibale Carracci (Bologna 1560-Roma 1609), che, come Merisi, non è originario dell’Urbe ma inizia la sua carriera artistica a Bologna negli anni Ottanta del Cinquecento.
Bologna, seconda città dello Stato pontificio, è un centro importante per la diffusione delle idee controriformistiche, anche grazie alla nomina, nel 1566, dell’arcivescovo Gabriele Paleotti: il prelato dà infatti alle stampe il Discorso intorno alle immagini sacre e profane, uno dei testi più importanti nell’ambito della letteratura artistica dell’epoca, con posizioni rigorose e censorie nei confronti della libertà delle immagini sacre e delle iconografie troppo originali, in vista di un linguaggio più semplice, che suscitasse immediata devozione. Non si tratta di una riflessione isolata: del resto è a Bologna, città che era crocevia tra la zona tosco-romana e il Lombardo-Veneto e che viveva di fiorenti scambi commerciali con il Nord Europa, che si manifestano nuove tendenze artistiche favorevoli a un ritorno allo studio dal vero. In questo contesto, inizia l’esperienza di sodalizio artistico tra Ludovico Carracci (Bologna 1555-1619) e i suoi due cugini, i fratelli Agostino (Bologna 1557-Parma 1602) e Annibale, che intorno al 1580 fondano a Bologna, con forte spirito programmatico e didattico, l’Accademia dei Desiderosi, ribattezzata nel 1590 Accademia degli Incamminati. Si tratta di un’iniziativa che, basandosi sul modello istituzionale proposto da Vasari a Firenze nel 1563, propugnava una vera e propria rivoluzione nella pratica pittorica, stimolando gli artisti a seguire non tanto la tradizione quanto la lezione della natura. Dal punto di vista didattico, i Carracci sollecitavano una ripresa della pratica del disegno a partire dall’osservazione diretta di modelli ritratti dal vero: questo impianto teorico, unito a una profonda conoscenza sia dei capolavori parmigiani di Correggio sia dell’arte veneta, trova un’immediata traduzione pittorica nelle opere eseguite dai tre cugini, in collaborazione o in autonomia.

La grande macelleria, Ragazzo che beve e Mangiafagioli

Queste tre tele, eseguite dal solo Annibale tra il 1582 e il 1584, possono essere considerate veri e propri manifesti di questa prima fase dell’attività e della radicale volontà di rottura con l’arte del secondo Cinquecento. I tre dipinti denotano un accurato studio dei dati del mondo reale, nella raffigurazione di scene di genere ispirate alla vita quotidiana. Con questo intento, l’artista si tiene lontano dagli effetti del comico e grottesco che avevano caratterizzato precedenti esperienze cinquecentesche, per esempio quelle fiamminghe, impegnate nella resa delle immagini popolaresche. Annibale riesce invece a dare una misura monumentale ed eroica ai suoi protagonisti, grazie alla pennellata virtuosa, attenta a rendere ogni dettaglio della realtà, come i riflessi del vetro nel Ragazzo che beve (26) o la torta d’erbe bolognese e le unghie nere del protagonista nel Mangiafagioli (27)  , e all’impiego del grande formato, solitamente adatto a scene di storia sacra o mitologica, come nella Grande macelleria (25), in cui l’attività umile dei macellai riceve un’inaudita monumentalità classica.

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Affreschi di Palazzo Magnani

Nella pittura d’ispirazione letteraria, la novità della pratica dei Carracci è subito evidente, come nel monumentale ciclo eseguito dai tre cugini nella sala principale del bolognese Palazzo Magnani, dove le Storie della fondazione di Roma (28) furono eseguite intorno al 1590, in occasione della nomina del proprietario Lorenzo Magnani a senatore. Il fregio orizzontale presenta quattordici scene divise da cornici e decorazioni in finto marmo, come fossero tele fittizie, quasi in procinto di staccarsi dal muro: i paesaggi rimandano alla tradizione veneta, ma la rievocazione dell’Antico delle scene supera gli intellettualismi della maniera cinquecentesca, per osservare direttamente il vero e la natura. È assai probabile che la nota frase dei tre cugini tramandataci da Malvasia, scrittore bolognese, riguardo alla decorazione della sala, «ella è de’ Carracci, l’abbiam fatta tutti noi» sia esatta e che i tre cugini si scambiassero le invenzioni e attingessero a un comune repertorio di elaborazioni grafiche.

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Annibale Carracci a Roma

Gli affreschi monumentali di Bologna a Palazzo Magnani e in altre residenze signorili cittadine insieme alle altre opere emiliane diedero grande notorietà ad Annibale, tanto che il cardinale Odoardo Farnese, forse su consiglio del letterato reggiano Gabriele Bombasi che da anni conosceva bene il pittore, lo incaricò, con suo fratello Agostino, di decorare il piano nobile di Palazzo Farnese, a Roma. Il primo soggiorno di Annibale a Roma è del 1594, forse per stabilire i termini del contratto, ma il trasferimento ufficiale dei due fratelli risale agli inizi del 1596.

Camerino di Palazzo Farnese

Nel palazzo di famiglia dei Farnese il cardinale fa affrescare da Annibale, Agostino e alcuni allievi, il Camerino (piccolo studio), una sorta di prova prima di affrontare la più vasta impresa della Galleria Grande. Il Camerino è decorato nella volta con una grande tela centrale raffigurante Ercole al bivio (29) e con una serie di affreschi con le storie di Ercole: il cardinale voleva identificarsi con il mitico eroe, forte ed equilibrato, saggio e paziente, capace di compiere le scelte giuste in un momento storico travagliato e confuso. Il quadro dell’Ercole al bivio non si trova più nella volta, sostituito oggi da una copia, ma è conservato nella quadreria del Museo di Capodimonte a Napoli con molte altre opere d’arte provenienti dalle collezioni farnesiane. Fra queste figura una delle più famose statue della collezione di famiglia, oggi al Museo archeologico, l’ Ercole di età ellenistica (30) scoperto al tempo di Paolo III, principale motivo di ispirazione per Carracci nella rappresentazione della tela di soggetto mitologico.
Il tema iconografico della scena principale del ciclo del Camerino deriva da un testo greco: vi si narra di un adolescente Ercole, incerto se dedicare la vita alla virtù o al piacere, a cui apparvero due donne, la Virtù e la Felicità, ognuna delle quali espose al giovane eroe i vantaggi dell’una e dell’altra scelta di vita, tentando di convincerlo a seguire una delle due opposte strade. Nella tela di Annibale, Ercole, ossia il giovane committente Odoardo Farnese, è raffigurato pensoso tra le due figure femminili che indicano rispettivamente all’eroe una ripida salita, cioè il faticoso percorso della virtù e un cammino piano e fiorito, dove compaiono strumenti musicali e spartiti, carte da gioco e maschere teatrali, che alludono ai piaceri della vita, ma anche all’ingannevolezza di queste vacue occupazioni. Le figure, con la loro solidità scultorea, mostrano quanto l’arte classica abbia influenzato Annibale a Roma, ma anche quanto, nello stesso tempo, la sua arte si stia muovendo verso il recupero di un altro "classico", ovvero Raffaello.
Come attesta una famosa lettera di un allievo di Annibale, il rapporto del pittore con i Farnese non si limitò alla sola decorazione del palazzo, ma fu simile a quello di un pittore di corte. Stipendiato dal cardinale, anche se con una paga modesta, di cui il bolognese si lamenterà a lungo, viene incaricato di occuparsi di tutte le "esigenze figurative" della casata, realizzando quadri, disegnando suppellettili, stoviglie e paramenti sacri, e progettando apparati effimeri per le feste, ossia addobbi e festoni, talvolta di foggia molto complicata, in materiali non durevoli, come stoffa e cartapesta. 
Tra il 1598 e il 1603, forse per una cappella privata della famiglia, realizza la Pietà (31), perfetta fusione dell’eredità padana e soprattutto correggesca, con il vigore e la monumentalità tipicamente romane e una posa che sembra un chiaro omaggio, a quasi un secolo di distanza, alla Pietà vaticana di Michelangelo (► p. 200).

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Paesaggio con la fuga in Egitto

Subito dopo il grande lavoro della Galleria Farnese (► pp. 366-367), all’inizio del Seicento, Annibale riceve una fondamentale commissione, eseguita in parte da lui e in parte dai giovani allievi, per una cappella di Palazzo Aldobrandini. In questo ciclo Annibale inventa l’idea di ambientare le storie sacre in grandiose aperture naturali, invertendo quasi il tradizionale rapporto tra lo sfondo e le figure in primo piano e realizzando uno dei primi paesaggi - intesi come genere autonomo - dell’arte occidentale. Nelle cosiddette Lunette Aldobrandini la natura è protagonista assoluta della narrazione, mentre le figure, di dimensioni ridotte, diventano parte integrante dell’ambiente. Nel Paesaggio con la fuga in Egitto (32), dipinto certamente dal maestro, è rappresentato uno dei paesaggi più belli e sognanti della storia della pittura occidentale, una pietra miliare nella raffigurazione della natura a cui guarderà tutta la pittura europea del Seicento e del Settecento.
All’interno di un paesaggio ideale, ogni singolo elemento naturale è inserito in una composizione perfettamente calibrata e bilanciata: massimo è l’equilibrio formale, realizzato grazie alla raffigurazione di una bellezza idilliaca . I personaggi sacri diventano tutt’uno con il paesaggio circostante, che è insieme "classico" e naturalistico, caratterizzato da una profonda verità di visione, per la luce, il colore e gli effetti atmosferici.
Malgrado i capolavori realizzati, le fonti raccontano che Annibale non riuscì a godere del successo: trattato dai Farnese come l’ultimo dei servitori, mortificato da compensi sempre più ridotti, l’artista cessa presto di lavorare, lasciando ampio spazio agli scolari, per poi morire prematuramente nel 1609, un anno prima di Caravaggio.

Dossier Arte - volume 2
Dossier Arte - volume 2
Dal Quattrocento al Rococò