Dossier Arte - volume 2

Il ritorno a Firenze

David 

II marmo da cui nasce il capolavoro michelangiolesco (46) è un blocco di proprietà dell'Opera di Santa Maria del Fiore, l'istituzione (espressione dell'oligarchia cittadina), che governa la costruzione e la decorazione della cattedrale fiorentina, ed era stato già in parte scolpito nel 1463 con lo scopo di realizzare una statua di un profeta, atteggiato come un Ercole antico, da porre su uno degli sproni del duomo fiorentino. L'impresa rimase incompiuta, probabilmente perché il blocco di oltre 4,5 metri di altezza fu giudicato di cattiva qualità e abbandonato. Gli operai di Santa Maria del Fiore (cioè l'organo laico a capo dell'Opera) conferiscono l'incarico nel 1501 al giovane Michelangelo ventiseienne, ritornato appositamente da Roma: il David nasce dunque come opera di arte sacra, e solo a pochi mesi dalla sua conclusione e in seguito a un dibattito promosso dalla stessa istituzione fiorentina è collocato all'ombra della torre di Palazzo della Signoria. Con la nuova collocazione, il gigante si trasforma nel simbolo delle virtù civiche, dell'orgoglio e della forza di una piccola ma fiera Repubblica di fronte alle potenze europee e alle altre realtà della Penisola. Secondo interpretazioni recenti, dunque, sia nella fase ideativa, sia per quasi tutto il corso della realizzazione dell'opera, il David è per Michelangelo un personaggio religioso, è il re pastore di Israele di cui parla la Bibbia, padre di Salomone e antenato di Gesù, discendente della stirpe di Davide secondo i Vangeli.
Con profonda innovazione rispetto alle raffigurazioni quattrocentesche - come i David di marmo e di bronzo di Donatello (► pp. 48-49) - l'eroe biblico è ritratto da Michelangelo non vittorioso, con il piede a schiacciare la testa del gigante Golia, ma nell'attimo in cui sta per scagliare il colpo decisivo con la sua fionda, stirata lungo la schiena e stretta nella mano sinistra. La concentrazione che caratterizza l'audace atto è espressa dallo sguardo e dalla posizione della testa, mentre una leggera tensione attraversa le membra del corpo, soprattutto nella gamba sinistra, appena sollevata da terra. La posizione del braccio destro steso sul fianco, perpendicolare alla base della scultura, evidenzia il lieve piegamento del busto che mette così in risalto la muscolatura del diaframma e della parte superiore del torso, delineata in modo da rivaleggiare con quella di un atleta del mondo greco-romano. L'Antico è dunque un preciso riferimento per l'artista, soprattutto nell'anelito al raggiungimento della perfezione dell'esattezza anatomica, ma la serena pacatezza delle statue classiche è superata dal senso del movimento che Michelangelo riesce a infondere alla scultura. La composizione ideata da Buonarroti ha una vividezza tale da creare fra il gigante marmoreo e l'osservatore un dialogo ideale che rende percepibile la tensione psicologica del personaggio e il suo mondo interiore.
Impegnato in gravosi incarichi pubblici, Michelangelo riesce comunque a realizzare alcune opere di committenza privata. Si tratta di due tondi marmorei e di un dipinto. Queste opere sono accomunate dall'impegno dell'artista nell'inserire gruppi complessi di figure in una cornice circolare, tema caratteristico dell'arte toscana. In ciascuna di esse l'artista risolve la questione in modo diverso ma secondo un principio simile: l'equilibrio compositivo è raggiunto mediante un calibrato bilanciamento dei contrasti, con l'assetto delle figure animato da un sottile dinamismo di forze opposte, colte nell'attimo della loro ricomposizione. Tale aspetto emerge con particolare chiarezza quando si rifletta sulle differenze che separano queste opere dalla pittura di Leonardo, con particolare riguardo ai suoi dipinti con gruppi di figure organizzate in schemi piramidali, come per esempio le due versioni della Vergine delle Rocce (► p. 177): pur mostrando di aver meditato sull'opera leonardesca, Michelangelo se ne distacca proprio per l'elaborazione di una soluzione segnata dalla ricerca della resa in movimento, opposta dunque alla ricerca dell'integrazione armonica delle figure, perseguita da Leonardo. 

Tondo Pitti 

L’opera (47), realizzata nel 1504-1505, è commissionata da Bartolomeo Pitti, membro di una delle famiglie più in vista di Firenze. La figura di Maria, resa in modo originale, soprattutto nel volto, dall’acconciatura singolare, domina con monumentalità la scena: la definizione delle sue membra e la posizione del suo corpo organizzano lo spazio prospettico del rilievo. La Madonna si proietta verso l’osservatore creando una sorta di piano di riferimento, rispetto al quale sono poi scalati i successivi piani che restituiscono la profondità della scena: a differenza dello stiacciato donatelliano, i passaggi da un piano all’altro avvengono con scarti più netti, dando risalto ai giochi di ombre che si creano sulla superficie dell’opera, a loro volta valorizzati dalla lavorazione diversificata del marmo. Convivono qui, infatti, parti lucidate, parti lavorate a subbia e parti sommariamente scalpellate, che anticipano il tema del "non-finito" michelangiolesco, centrale nella successiva produzione dell’artista.

Tondo Taddei 

Per Taddeo Taddei, nobile mercante e letterato fiorentino, Michelangelo realizza tra il 1504 e il 1506 un altro tondo (48) che declina lo stesso soggetto, in un assetto compositivo che si distacca dalla tradizione e che costituisce un modello per le contemporanee elaborazioni raffaellesche, come per esempio la Madonna del cardellino (► p. 187). Cristo bambino, colto in una posa fortemente dinamica, è protagonista al centro della scena, mentre le figure di Maria e san Giovannino accompagnano la forma circolare del marmo mediante le rispettive silhouette, informate da un assetto più statico, creando una sorta di bilanciamento della composizione. I personaggi sono resi con un’evidenza plastica progressivamente scalata nel rilievo, accompagnata da diversi gradi di finitura superficiale, con un espediente visivo che crea la profondità della composizione. San Giovannino porge a Gesù un animale (forse un cardellino, simbolo della Passione), da cui il Bambino si allontana come impaurito.
La resa indefinita dello sfondo, trattato con una sommaria scalpellatura, è finalizzata a dare risalto alle figure dei protagonisti ed è stata interpretata da alcuni studiosi come l’equivalente dello sfumato pittorico leonardesco.

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Tondo Doni 

Agnolo Doni, già committente di Raffaello (► p. 187), incarica Michelangelo di dipingere una Sacra Famiglia (49), forse in occasione del matrimonio con Maddalena Strozzi (1504) o, come è stato proposto recentemente, per celebrare la nascita della loro figlia Maria (1507). Il tema iconografico è ancora fortemente dibattuto: Maria, il Bambino e san Giuseppe sono in primo piano, mentre lo sfondo è popolato da un gruppo di figure nude. In termini generali, vi si può leggere l’esplicitazione del dialogo fra il mondo pagano della classicità (evocato dai personaggi sullo sfondo) e il mondo cristiano della Sacra Famiglia: a metà fra i due gruppi è san Giovanni Battista, il mediatore fra le due epoche. Al di là delle stratificate interpretazioni sul significato del dipinto, l’opera si offre come una straordinaria prova di Michelangelo nella definizione di forme e soluzioni che esplorano, grazie all’uso di colori freddi e quasi cangianti, l’espressività del corpo umano, sia nella resa anatomica di ascendenza classica sia nella ricerca di pose dinamiche ed emotivamente intense: è il caso della figura di Maria, che ha il busto ruotato dalla parte opposta rispetto alle gambe, a materializzare un movimento ascendente che culmina nelle braccia sollevate per sostenere saldamente il Bambino. Quest’ultimo è colto nel momento in cui Giuseppe lo porge a Maria, a visualizzare un altro movimento circolare contrapposto a quello della Madonna.
Nel gruppo della Sacra Famiglia, infatti, è stata evidenziata la presenza della formula espressiva della "figura serpentinata" (50), cioè di quella posa per cui uno o più personaggi avvitati su se stessi sono visibili contemporaneamente dall’unico punto di vista dell’osservatore, dando concretezza visiva alla sinuosità e alla linea spiraliforme, con una spinta che è insieme fisica e concettuale ed evoca il movimento continuo verso l’alto.

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Battaglia di Cascina 

Fra il 1495 e il 1498 viene realizzato nel Palazzo della Signoria il Salone dei Cinquecento, una grandiosa sala per le adunanze pubbliche, che nel 1503 il gonfaloniere Pier Soderini decide di arricchire con nuovi dipinti che devono illustrare alcune fra le più celebri vittorie militari fiorentine. Il momento è drammatico, in quanto Firenze non è in grado di sconfiggere la rivale Pisa e le due città si confrontano ormai da anni in una guerra di cui i fiorentini non riescono a intravedere un esito positivo. Per la decorazione della sala è chiamato prima Leonardo e poi, l’anno seguente, Michelangelo. Come già per Leonardo (► p. 185), l’impresa è destinata a naufragare, ma si sono conservati alcuni documenti iconografici (copie coeve o successive dei cartoni preparatori) che danno conto delle straordinarie invenzioni che furono concepite dai due maestri. A Buonarroti è affidato l’episodio della vittoria dei fiorentini sui pisani a Cascina, nel 1364. Michelangelo non sceglie di rappresentare la battaglia, ma l’attimo che la precede, ovvero il momento in cui - presi dalla paura di essere colti alla sprovvista - i soldati fiorentini si alzano con veemenza e si preparano allo scontro: si tratta ancora una volta di uno dei temi prediletti dell’artista, il corpo nudo maschile in movimento. La copia parziale del cartone (51), eseguita a metà del Cinquecento da Aristotele da Sangallo, documenta una scena organizzata su linee diagonali divergenti. Al centro si nota un vuoto, che allude quasi a un vortice creato dal turbinoso movimento dei corpi. L’assetto compositivo ideato da Buonarroti enfatizza il senso di drammaticità che segna l’evento, rafforzato dall’intreccio delle membra, mostrate nelle loro qualità di sculture tradotte in disegno. L’anatomia e lo studio delle posizioni delle figure assumono in quest’opera, infatti, una particolare valenza, indicando i futuri sviluppi delle ricerche espressive michelangiolesche .

A Roma

Tomba di Giulio II 

Chiamato a Roma da papa Giulio II, Michelangelo abbandona il progetto del grande affresco con la Battaglia di Cascina per assumere un prestigioso incarico: la sepoltura del pontefice. Quest’opera (52), che unisce scultura e architettura, rappresenta una delle commissioni più tormentate nella vita di
Michelangelo e si prolunga per quasi quarant’anni, secondo due fasi principali: 1505-1506 e 1513-1542. In particolare la seconda stagione, che inizia con la morte del pontefice, si articola in ulteriori e diversificate elaborazioni segnate da nuovi contratti, liti con gli eredi, ripensamenti. Della complessità della vicenda ideativa e realizzativa della monumentale tomba - concepita per la nuova Basilica di San Pietro di Donato Bramante e poi realizzata nella chiesa romana di San Pietro in Vincoli - danno conto numerose fonti scritte e una serie significativa di disegni e progetti del maestro. Un rilevante corpus documentario e grafico ha permesso così di elaborare ipotesi ricostruttive piuttosto dettagliate (53-54). In termini generali, si passa da un primo progetto che prevedeva un grande sepolcro isolato, dunque un oggetto dalle spiccate qualità tridimensionali, a una più semplice tomba a parete dove l’architettura è solo una cornice per le statue marmoree. Ciò che cambia nelle successive elaborazioni è soprattutto la quantità delle sculture, ridotte progressivamente nel numero, insieme alla complessità dei soggetti raffigurati e all’articolazione del telaio architettonico. La fase iniziale è di fondamentale importanza nella formazione dell’artista, in quanto il progetto viene concepito in stretta relazione con la grandiosa spazialità della nuova basilica bramantesca e in rapporto a questa Michelangelo delinea un artefatto dove scultura e architettura sono strettamente connesse. L’artista, inoltre, si impegna in prima persona nella ricerca dei blocchi di marmo più adatti all’impresa, con lunghi soggiorni nelle cave di Carrara, approfondendo una conoscenza dell’universo delle pietre che diviene un carattere distintivo della sua opera, sia come scultore sia come architetto.

Mosè 

Figura centrale nella configurazione definitiva è il Mosè (55), realizzato tra il 1513 e il 1515, ma ritoccato nel 1542 per la collocazione finale nel monumento funebre: Michelangelo non lo rappresenta come profeta ma come un condottiero e legislatore che tiene in mano il massiccio blocco delle Tavole della legge . Il lieve fremito che anima il volto e che percorre nervosamente le membra esprime tutta la forza interiore del personaggio: nonostante sia ritratto in posa seduta, infatti, Mosè assume nella definizione complessiva e nei movimenti degli arti un assetto che esplora i temi stilistici della figura serpentinata.

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Prigioni 

Nell’accidentata vicenda della Tomba di Giulio II, alcune sculture eseguite nel corso degli anni sono entrate nella realizzazione definitiva di San Pietro in Vincoli, altre invece sono state scartate e hanno trovato una diversa destinazione. Appartiene a quest’ultimo gruppo la serie dei Prigioni, ovvero sei sculture di grandi dimensioni, due delle quali (1513 circa) conservate al Museo del Louvre (56) e quattro (1519-1534) alla Galleria dell’Accademia di Firenze (57). Pur con diverse gradazioni, queste figure sono informate da princìpi comuni: pose complesse e artificiose mettono in luce i pregevolissimi dettagli anatomici di una bellezza idealizzata; i corpi, inoltre, sono colti nell’atto estremo di liberarsi dalla materia bruta che li imprigiona, metafora della prigione terrena dello spirito. Lasciate in gran parte incompiute, le statue ben esemplificano uno dei temi fondamentali della poetica michelangiolesca, il "non-finito": i Prigioni, amati da ricchi collezionisti proprio a causa della loro incompletezza, paiono lottare contro la materia inerte del marmo per venire alla luce.

Le ultime opere scultoree

Nell’ultima parte della vita di Michelangelo, la pratica della scultura attiene a una sfera totalmente privata e afferisce al mondo interiore e personale dell’artista. La meditazione religiosa che caratterizza la maturità e la vecchiaia di Buonarroti si coglie nelle due Pietà, che costituiscono le sue ultime opere scultoree: alla fine della sua vita l’artista ritorna sul tema giovanile di una delle sue prime creazioni, il gruppo drammatico costituito dalla Vergine che regge il corpo morto di Cristo, con esiti stilistici totalmente differenti, a testimonianza del suo complesso percorso artistico. La spiritualità di Michelangelo si nutre dei fermenti che attraversano la temperie culturale degli anni Quaranta del Cinquecento, caratterizzati da un profondo sentimento per il rinnovamento della Chiesa cattolica. L’amicizia con la poetessa Vittoria Colonna, vicina agli ambienti "riformati", e i componimenti poetici di Michelangelo di quegli anni definiscono una cornice ben precisa per comprendere l’approccio alla fede dell’anziano Buonarroti, segnato dalla ricerca di un più intimo dialogo con Dio e dalla centralità della figura di Cristo. Come già i Prigioni, entrambe le opere danno conto del "non-finito" michelangiolesco, sul cui significato il dibattito è ancora aperto: questa soluzione formale troverebbe, infatti, da un lato motivazioni di natura stilistica e tecnica (espediente per evidenziare alcune parti rispetto ad altre) o, dall'altro risponderebbe a esigenze ideali e spirituali (rendere visibile il corpo a corpo dell'idea dell'artista con la materia, ovvero il ruolo dello scultore per liberare il concetto chiuso dentro la pietra). 

Pietà Bandini 

L’opera è concepita dall’artista per ornare la propria tomba e la sua lavorazione è intrapresa quando Michelangelo ha ormai superato i settant'anni (58). Prende il nome dal nobile romano che l’acquistò, Francesco Bandini. Già Vasari ricorda il tormentato percorso della scultura che, giunta quasi a metà dello stato di esecuzione, rimane interrotta. A metà della lavorazione, si manifesta infatti un’imperfezione nel marmo che porta Michelangelo a scaricare tutta la sua rabbiosa frustrazione direttamente sul gruppo scultoreo, danneggiandolo gravemente: la frattura che caratterizza il braccio destro del Cristo ne è dolorosa memoria.
Parzialmente ricomposta e sommariamente conclusa da uno dei suoi collaboratori, Tiberio Calcagni (Firenze 1532-Roma 1565), l’opera si presenta come un palinsesto di soluzioni formali e concetti compositivi di grande rilievo. Sono uniti due temi iconografici diversi, quali il compianto e la deposizione di Cristo. Michelangelo crea un gruppo di quattro figure scolpite in un unico blocco marmoreo: Nicodemo (nel cui volto si riconoscono le sembianze di Buonarroti) sostiene, quasi a fatica, il corpo di Cristo, di proporzioni superiori rispetto agli altri, e fulcro della composizione, che appare come fuso con quello della Madonna, in una potente metafora dell’ultimo sofferente abbraccio fra la madre e il figlio; completa il gruppo la Maddalena, quasi del tutto opera di Calcagni.

Pietà Rondanini 

La scultura prende il nome dal palazzo romano dove era conservata prima di essere acquistata dal Comune di Milano nel 1951 (59). Michelangelo lavora al gruppo dal 1552 fino agli ultimi giorni della propria vita: l’opera costituisce così una sorta di testamento spirituale. La scultura non è conclusa e ha conservato anche le variazioni del progetto che l’artista non ha avuto modo di eliminare per il sopraggiungere della morte: è il caso della prima versione del braccio destro di Cristo che avrebbe dovuto essere eliminato e che invece è rimasto come lo vediamo oggi. Rispetto alla Pietà Bandini, si ha una semplificazione dell’assetto del gruppo: la figura di Cristo, allungata e cadente, è sorretta dalla Madonna. I due personaggi sono ricavati da un unico blocco a rafforzare l’effetto di intimo legame fra la madre e il figlio.

Dossier Arte - volume 2
Dossier Arte - volume 2
Dal Quattrocento al Rococò