L’architettura romanica

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L’architettura romanica

Un "bianco mantello" di chiese

Dalla fine del X secolo vengono rinnovate o ricostruite dalle fondamenta migliaia di chiese e monasteri, in gran parte fondati nell’Alto Medioevo e sparsi in un’area vastissima, che copre i territori dell’Europa attuale con l’eccezione delle zone che erano sotto il dominio degli Arabi, soprattutto nella Penisola iberica. Come vedremo, questo fenomeno va di pari passo con l’espansione del monachesimo benedettino che, sulla scia di influenti centri come l’Abbazia di Cluny in Borgogna e quello di Montecassino nel Lazio, porta alla capillare diffusione dei monasteri nelle campagne. Contemporaneo e complementare, inoltre, è il risveglio edilizio nelle città.
Per far intendere la vastità della ripresa costruttiva, gli storici dell’arte fanno ricorso al suggestivo racconto di un cronista francese, Rodolfo il Glabro, monaco benedettino attivo in Borgogna nell’XI secolo. Nelle sue Storie dell’anno Mille, egli riferisce dello straordinario fervore costruttivo che si diffuse in tutta Europa in quel periodo. Racconta infatti Rodolfo: «Nell’approssimarsi del terzo anno dopo il Mille, su quasi tutta la Terra, ma soprattutto in Italia e in Gallia, si videro restaurare e rinnovare le chiese; benché la maggior parte fossero ben costruite e non avessero alcun bisogno di restauri, un vero spirito di emulazione spingeva ogni comunità cristiana ad averne una più sontuosa di quella dei vicini. Si sarebbe detto che il mondo stesso, scrollandosi di dosso le spoglie della vecchiaia, si fosse rivestito di un bianco mantello di chiese. Allora, quasi tutte le chiese delle sedi episcopali, quelle dei monasteri consacrate a ogni sorta di santi e perfino i piccoli oratori dei villaggi furono ricostruite più belle dai fedeli».
Il racconto di Rodolfo è tuttora attendibile: se si potesse guardare dall’alto l’Europa medievale, essa apparirebbe come una distesa di boschi, praterie, paludi, catene montuose, fiumi e laghi, interrotta qua e là da villaggi e città e dalle rovine degli insediamenti romani, ma soprattutto punteggiata da un’infinità di monasteri (1), torri e campanili.

La policromia romanica

Un «bianco mantello» di chiese, dice Rodolfo il Glabro, riveste l’intero Occidente: è un’immagine suggestiva, che però non va interpretata alla lettera, ma piuttosto come metafora del rinnovamento edilizio che interessa soprattutto l’architettura religiosa. La civiltà dell’Occidente romanico è infatti sostanzialmente cristiana e l’aggettivo «bianco» può essere inteso in questo senso come "luminoso", "puro", "splendente". Nella realtà, sia le cattedrali, e in genere le chiese, sia le loro decorazioni (le sculture, i capitelli e gli altri elementi architettonici) non erano rivestite soltanto di marmi bianchi. Recenti restauri condotti in diverse regioni, anche molto distanti fra loro, hanno permesso di accertare una predilezione degli artisti medievali per decorazioni dai colori vividi, come il rosso, il verde, il blu. Questi esempi sono indicativi di un’arte "colorata", che la mentalità moderna attribuisce con difficoltà al mondo romanico, perché le facciate delle chiese hanno oggi in gran parte perduto la policromia originaria. Ne è un esempio Notre-Dame la Grande (2), a Poitiers: la facciata riccamente scolpita appare oggi nel colore della pietra, ma in antico le figure e i motivi ornamentali erano dipinti con colori vivaci, di cui oggi non rimangono che labilissime tracce. Gli artisti e i committenti ricercavano la policromia anche sfruttando le differenti tonalità di diversi materiali, con delicati effetti cromatici. Accade in Toscana, Liguria e Sardegna grazie all’utilizzo di marmi bianchi e verdi o neri, o in Lombardia e in Emilia-Romagna, dove si sceglie un rivestimento della facciata non solo di pietra o di marmo, ma anche in mattoni rossi, interrotto talvolta da decorazioni e rilievi. È questo il caso dell’Abbazia di Pomposa (3), il cui prospetto è arricchito da bacini in maiolica (sorta di recipienti inseriti nelle superfici murarie a scopo decorativo) di origine orientale o araba.

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La chiesa romanica

Nel quadro geograficamente vastissimo dell’arte romanica, l’architettura sacra è la testimonianza più diffusa e meglio conservata. Al di là della pluralità di stili e delle declinazioni locali, è possibile individuare i tratti comuni delle chiese romaniche, che superano le forme altomedievali secondo due linee guida: la scomposizione della navata in unità modulari (campate) e il largo impiego delle volte (a botte e a crociera) per coprire ampi spazi (4) . Il risultato dell’applicazione di questi princìpi è uno spazio organico e ben strutturato. La pianta più frequente delle chiese romaniche è quella a croce latina con deambulatorio e cappelle a raggiera o con tre o più absidi parallele. Più rara la pianta a croce greca, e più in generale la pianta centrale, che è utilizzata quando si vuole suggerire un forte significato simbolico, essendo ispirata al Santo Sepolcro di Gerusalemme. Come si nota dalla ricostruzione assonometrica (5), l’arco a tutto sesto assume una funzione fondamentale nel suddividere lo spazio secondo rapporti proporzionali in ragione del doppio e del triplo. In questo sistema è basilare il modulo della campata, lo spazio della navata compreso tra quattro pilastri: infatti l’area della campata della navata centrale è spesso pari alla somma dell’area di due campate delle navate laterali. Le dimensioni della campata determinano le proporzioni del corpo principale della chiesa, del transetto e dell’eventuale nartece, mentre le spinte delle volte (ossia la forza che esse esercitano sugli elementi di sostegno) condizionano le dimensioni delle murature, che diventano più spesse e regolari. La navata è spesso scandita verticalmente da un matroneo o da un triforio, una stretta galleria ricavata nello spessore murario e aperta sulla navata centrale tramite trifore (finestre a tre aperture). Quando il triforio non è aperto sulla navata, e presenta solo finte finestre, si parla di triforio cieco. Il matroneo e il triforio possono a loro volta essere sormontati dal claristorio (dall’inglese clerestory, composto di clere o clear, "chiaro", e story, "piano di un edificio", e quindi letteralmente "piano luminoso"), la parete superiore della navata centrale, in cui si aprono finestre che illuminano l’ambiente.
La chiesa romanica si struttura su più livelli, costituiti dallo spazio principale della navata, dalla cripta sottostante e, al di sopra, dal presbiterio. La cripta contiene la sepoltura del santo e di solito è sotterranea; tuttavia, con le sue volte permette l’innalzamento del presbiterio, a cui si accede da scale: in questo modo tutti i fedeli possono vedere lo svolgimento del rito. All’incrocio tra le navate e il transetto si trova il tiburio, una struttura a prisma o a cilindro che ingloba una cupola, o la torre di crociera, in modo che anche la sezione verticale dell’edificio abbia la forma di una croce. La presenza del tiburio o della torre fa sì che sia visibile soltanto la calotta interna della cupola.
Lo spazio che deriva dall’unione coerente di questi elementi crea una nuova combinazione di pieni e vuoti. La funzione strutturale di sostegno è spesso affidata a pilastri, che reagiscono meglio delle colonne a spinte trasversali e verticali. A differenza delle colonne, che sono unicamente a base circolare, i pilastri possono essere cilindrici, quadrati, cruciformi (il cui spaccato richiama appunto la forma di una croce), compositi (pilastri quadrati sui cui lati sono addossate quattro semicolonne) e a fascio (costituiti da fasci di colonne di diverse dimensioni).
All’esterno, la facciata si compone di diversi elementi e spesso prevede decorazioni scultoree. Questa caratteristica della chiesa romanica ha conseguenze pratiche sull’organizzazione dei cantieri, perché i rilievi non sono applicati a costruzione finita, ma scolpiti mentre la costruzione procede: le figure dell’architetto e dello scultore spesso si identificano, o comunque collaborano strettamente.
Esistono diverse tipologie di facciate, variamente combinate e rielaborate: le più frequenti sono a capanna, che presentano cioè due spioventi, oppure a capanna composita o a salienti, quando, come suggerisce il termine stesso, la copertura presenta una successione di spioventi posti a differenti altezze (6). Addossato al portale maggiore può trovarsi un protiro, una sorta di loggetta decorata che precede l’entrata principale.

Un'arte anonima?

È raro che siano noti i nomi degli architetti degli edifici romanici; fanno eccezione, per l’Italia, Buscheto, Rainaldo e Deotisalvi a Pisa – celebrati da iscrizioni in marmo sulla facciata della cattedrale (7) e del campanile – e Lanfranco a Modena. Su quest’ultimo si conservano, oltre alle iscrizioni del Duomo di Modena, alcune raffigurazioni miniate. La pagina tratta dalla Relatio de innovatione ecclesie Sancti Geminiani è esemplare per comprendere come funzionava il cantiere di una chiesa romanica (8). Si vedono infatti gli operai del duomo guidati da Lanfranco, che è rappresentato con una statura più imponente, abbigliato in modo elegante e con un diverso copricapo, a segnalare il suo ruolo di coordinamento non solo tecnico, ma anche intellettuale. Al pari dell’angelo dell’Apocalisse che con la virga – strumento di comando e di misurazione – edifica la Gerusalemme celeste, l’architetto modenese dirige operai e muratori. Nella parte superiore della miniatura si vede lo scavo delle fondamenta da parte degli sterratori; in basso, la messa in opera dei muri con i blocchi di pietra trasportati dai manovali.
A parte queste eccezioni, in genere i documenti citano l’abate o il vescovo che ha presieduto alla costruzione, a conferma di un ruolo non solo spirituale, ma anche concettuale e organizzativo. Nel caso di Guglielmo da Volpiano (962-1031), pare che la figura dell’architetto e quella dell’abate coincidessero; è probabile che si debba a lui la progettazione di diverse chiese, come quella di Saint-Bénigne a Digione. Abati e vescovi erano veri e propri imprenditori e promotori di cultura; per questo si trovano non solo menzionati nei documenti e nelle cronache del tempo, ma anche raffigurati su capitelli, portali e lunette, tanto che spesso è possibile datare un edificio conoscendo gli anni in cui è stato guidato da un abate o consacrato da un vescovo.

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Un comune linguaggio europeo

L’architettura di età ottomana ha lasciato in Germania alcuni precoci segni di innovazione che possono considerarsi già tipici del linguaggio romanico: in particolare, le pareti interne movimentate da pilastri e semicolonne addossate, finti archi (archi ciechi), loggette e lesene, che ricorrono anche all’esterno, a enfatizzare lo spessore della muratura. La Cattedrale imperiale di Spira (9-10) è una chiesa esemplare dal punto di vista delle novità strutturali, tanto da essere considerata la "corona di tutte le chiese" per il suo aspetto grandioso, che avrebbe presto influenzato anche l’architettura anglo-normanna. L’edificio, iniziato tra il 102 7 e il 1029 e il cui primo rifacimento risale al 1060, subì profonde modifiche fra il 1082 e il 1106, ai tempi dell’imperatore Enrico IV: sopra il coro (lo spazio riservato ai cantori nel vano absidale) e le navate, il soffitto a capriate lignee fu sostituito da volte a crociera, sorrette da pilastri rafforzati grazie all’inserimento di semicolonne (11).
Anche la chiesa benedettina di San Michele a Hildesheim (12), iniziata sotto l’arcivescovo Bernoardo nel 1001, parzialmente distrutta da un incendio e ricostruita nel 1186, riflette, pur nell’aspetto attuale rimaneggiato, l’originaria concezione basata su uno schema basilicale a tre navate, due transetti e due cori con abside. Lungo le navate, il pilastro che si alterna a due colonne crea ritmo e armonia.
In Francia, la chiesa abbaziale di Jumièges (1040-1067), la più antica delle chiese normanne di questo tipo, seppure in rovina, mostra un alzato particolarmente innovativo (13), che caratterizzerà a lungo l’architettura romanica: sopra le arcate, scandite alternativamente da colonne e pilastri compositi che salgono fino al tetto, si trova il matroneo a trifore, fiancheggiate da semicolonne addossate. Con l’invasione normanna delle isole britanniche, nel 1066, queste novità passano presto al di là della Manica. La Cattedrale di Durham (14), iniziata nel 1093 e terminata nel 1133 circa, presenta un sistema di copertura con volte a crociera e possenti costoloni, le nervature aggettanti che segnano l’intersezione delle due volte a botte. Inoltre, pilastri a fascio si alternano a pilastri cilindrici con decorazioni geometriche, e un matroneo, sovrastato da un claristorio, corre nei piani alti.

Dossier Arte - volume 1 
Dossier Arte - volume 1 
Dalla Preistoria al Gotico