Il difficile rapporto con la corte
A distanza di poco più di due decenni, Ariosto e Tasso vivono nella stessa corte, quella ferrarese degli Estensi. Il primo, addirittura, vi si trasferisce bambino e, divenuto poeta, vi si adatta, con discrezione e realismo, tollerando contraddizioni e ipocrisie e mitigando (come si è visto nelle Satire, ► T1, p. 663) la protesta e la disapprovazione. Senza mai rinunciare alla sua dignità – al pari dei contemporanei Machiavelli e Guicciardini, costretti anch’essi a dolorose sconfitte personali – Ariosto fronteggia la realtà, per quanto spregevole possa essere, senza mai lasciarsene sopraffare, osservando con equilibrio e con coscienza
critica le miserie dell’esistenza.
Tasso, invece, a corte arriva da lontano, desideroso di gloria e trattato come un ospite eccezionale. E vi arriva con la convinzione di trovare un pubblico aristocratico, fatto di spiriti eletti, che possa apprezzare e capire fino in fondo la sua arte. In altre parole, idealizza
un ambiente che invece si rivela un luogo di invidie e maldicenze, insidiato dal conformismo e dalla presenza vigile del tribunale dell’Inquisizione.