Arriviamo agli anni Settanta. La vita «dirama in mille rivoli» oppure si logora, si dissipa. La voce che orientava il poeta non è più una sola, anzi, alla dualità scoperta nell’uomo si aggiungono altre voci. Non solo non c’è più alcuna guida, ma si è come trascinati da immagini sogni emozioni ricordi. Lo sciame dei pensieri che attraversano il soggetto concorda con uno stato di dormiveglia e di sopore. Forse è qui che si situa «la salute della mente»: non in un luogo, ma in una condizione da cui è più facile cogliere – senza pretendere di afferrare pienamente – la verità che giace al fondo dell’uomo, il senso, il fondamento dell’esistere. Il linguaggio – come se rincorresse una pluralità di voci che s’interrogano e si rispondono – si fa composito e si dilata simultaneamente su più registri, né è casuale – nel movimento del pensiero e della scrittura luziani – che le diverse voci che s’intersecano fra loro finiscano per assumere il volto e la figura di personae: Ipazia, Sinesio, Rosales, Hystrio...1
Il poeta, che Nel magma era spettatore e, a un tempo, attore del dramma della mente – della sua scissione – scompare dalla scena e affida ad altri le sue esitazioni, i suoi dubbi, le sue domande: ad altri personaggi, oppure a un coro.
È proprio dal poema – dialogico o a più voci – che nasce il teatro. Ed è un teatro in versi che celebra la poesia: quasi un rito della parola, in cui per Luzi si condensa l’umano. Di una parola che non prende alla lettera il mondo ma ne interpreta lo spirito, perché avverte la violenza di leggere solo «cifre e segni» là dov’erano uomini «in carne ed ossa»; di una parola ch’è sentita come atto e movimento del dire ed è sorpresa sempre nel suo nascere e nel suo farsi; di una parola che aspira ad accogliere in sé l’oscuro, il diverso, quanto è irriducibile alla «geometria» della mente.
Nelle ultime raccolte2 il linguaggio luziano arriva a tradurre in scrittura il fluttuare stesso del pensiero. Ed è un pensiero che procede per lampi, per visioni, per immagini; che non trova più alcun «punto fermo» né nel presente né nella memoria e tuttavia scopre che in ogni frammento in cui il vivere si è disseminato, vive la vita nella sua interezza. Ma quale vita, ormai, se l’umanità dell’uomo è come strappata o svenduta e le parole vengono meno allo sfrenato e inverosimile accadere delle cose?
Il dubbio alimenta domande su domande fino a contrarsi in un dilemma, i cui corni sono irrevocabilmente disgiunti da una o: è la fine o l’inizio? All’interrogazione non si dà risposta, anche se nel titolo dell’opera Per il battesimo dei nostri frammenti è già implicito un augurio.
(Anna Panicali, Saggio su Mario Luzi, Garzanti, Milano 1987)