T3 Il commissario Ingravallo

T3

Il commissario Ingravallo

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, cap. 1

Riportiamo le prime pagine del romanzo, nelle quali viene introdotto il protagonista.

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato
alla mobile:1 uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della
sezione investigativa: ubiquo ai casi,2 onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura
media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e
5      folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due
bernoccoli metafisici3 dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura
greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte
con una laboriosa digestione: vestito come il magro ▶ onorario statale4 gli permetteva
di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili
10    però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo,
del nostro mondo detto latino, benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo
avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona
di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio
strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista,5 e di chiamate notturne e
15    d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non ha
orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!». Era, per lei, lo statale6
distintissimo lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del
Messaggero,7 evocato, pompato fuori8 dall’assortimento infinito degli statali con
quell’esca della «bella assolata affittasi»9 e non ostante la perentoria intimazione
20    in chiusura: «Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre,
com’è noto, una duplice possibilità d’interpretazione.10 E poi era riuscito a far
chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda… sì della
multa per la mancata richiesta della licenza di locazione… che se la dividevano a
metà, la multa, tra governatorato11 e questura. «Una signora come me! Vedova del
25    commendatore Antonini! Che si può dire che tutta Roma lo conosceva: e quanti
lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano,12 non dico perché fosse mio
marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere?
Madonna santa, piuttosto me butto a fiume».
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva
30    vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come
pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan,13 nella sua saggezza interrompeva talora
codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica14 idea (idea generale
s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle,
sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano
35    sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello15 illuminatore, rivivevano
poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come
dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor
Ingravallo me l’aveva pur detto». Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate16 catastrofi
non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una
40    causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica17
nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità
di causali convergenti.18 Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero,
che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» 
gli sfuggiva preferentemente19 di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che
45    bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai
filosofi,20 da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in
lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava21
dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta
pareva, pencolando22 da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e
50    il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare
la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel
nero pìceo23 della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno
me chiammeno!…24 già. Si me chiammeno a me… può sta ssicure ch’è nu guaio:
quacche gliuommero… de sberretà…»25 diceva, contaminando napolitano, molisano,
55    e italiano.
La causale apparente, la causale principe,26 era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto
di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello27 (come
i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba28 in una depressione
ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata
60    «ragione del mondo».29 Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma
questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà».30 Una
tarda riedizione italica del vieto «cherchez la femme».31 E poi pareva pentirsi,
come d’aver calunniato ’e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe
andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo.
65    Voleva significare32 che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi,
un quanto33 di affettività,34 un certo «quanto di erotia»,35 si mescolava anche ai
«casi d’interesse»,36 ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore.
Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto37
dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano
70    che leggesse dei libri strani: da cui cavava38 tutte quelle parole che non vogliono
dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare39 gli sprovveduti,
gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici
dei matti.40 Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie41 son da lasciare
ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro
75    affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a
posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani,42 senso di responsabilità
e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni
così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso:43 seguitava a dormire in
piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta,44
80    regolarmente spenta.

 >> pagina 671 

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Il Pasticciaccio si apre in modo piuttosto tradizionale, descrivendo il protagonista innanzitutto dal punto di vista esteriore, un po’ come accade nei romanzi dell’Ottocento. Veniamo a conoscenza del suo lavoro, del suo aspetto fisico, del modo in cui si presenta (l’aria assonnata, l’andatura stanca), della condizione economica (vestito in maniera dignitosa ma poveramente, abita a pensione e dunque non ha una casa sua), del suo luogo d’origine, dell’età. Lo osserviamo poi da un punto di vista particolare, quello della padrona di casa, che ne esalta il ruolo (lo statale distintissimo, rr. 16-17) e la solerzia sul lavoro (spesso torna a casa tardi).

Dal secondo capoverso, lo sguardo si sposta dall’esterno all’interno, e apprendiamo qualcosa di più sul modo di pensare di Ingravallo. In particolare, viene enucleato in queste prime pagine un concetto cardine della sua visione del mondo: alla base del suo pensiero (e, di conseguenza, della sua metodologia operativa) sta la convinzione che i fatti non sono mai la conseguenza di una sola causa, ma sono il risultato di più cause, che rendono ogni evento un garbuglio (r. 42) intricato.
La teoria del commissario corrisponde alla filosofia dell’autore, secondo il quale la realtà è un insieme caotico o una trama indissolubile di fili: le causali convergenti (r. 42) di Ingravallo, destinate a sfociare negli imprevedibili accidenti dell’esistenza, simboleggiano il «pasticciaccio» di un assurdo mondo moderno, in cui l’impresa di giungere a forme stabili di conoscenza risulta impossibile.

 >> pagina 672 
Nell’ultimo capoverso si passa alla percezione che del commissario hanno gli altri, il coro di colleghi, preti e uscieri che – tutti insieme – lo considerano astratto, inconcludente, privo del necessario pragmatismo: quanto dice don Ciccio è frutto di strambe filosoficherie (r. 73), che poco hanno a che fare con la pratica dei commissariati (r. 74), la quale esigerebbe sicurezza e determinazione, mentre lui dà l’idea di essere irresoluto e sbadato (ha un’aria un po’ assonnata, r. 6, un fare un po’ tonto, r. 7, un quasi-ghigno, tra amaro e scetticor. 50). Questo coro rappresenta il senso comune, che non sa o non vuole andare oltre l’apparenza delle cose, che si ferma alle grandezze visibili: si possono cogliere in esso quei tratti di faciloneria e pressapochismo che Gadda rinfacciava agli esponenti del fascismo.
Il riferimento alla sconquassata baracca dei taliani (r. 76), in opposizione alla declamata moderazione civile (r. 77) e al polso fermo (r. 77), lascia già trapelare l’insofferenza di Ingravallo (e di Gadda) verso il regime, un’insofferenza che nelle pagine successive si trasformerà in rabbiosa violenza.

Le scelte stilistiche

L’impressione suggerita dalle prime righe del brano che la descrizione sia affidata dall’autore a una voce onnisciente, sia pure lievemente ironica, secondo una modalità tipicamente manzoniana, è destinata presto a cadere. La frequenza dei sintagmi dubitativi testimonia il venir meno di ogni sua certezza e l’affacciarsi di ipotesi e opinioni ambigue: non si sa perché (r. 2), o forse un po’ tozzo (r. 4), una o due macchioline d’olio (r. 9). Chi narra, insomma, non solo testimonia l’incrinarsi di ogni visione oggettiva della realtà, ma anche mostra di conoscere in modo parziale il protagonista, oscillando tra la bonaria canzonatura (come appare nelle righe iniziali del brano), la descrizione pittoresca (per esempio, i capelli vengono paragonati a una giungla, a una parrucca e a una pelliccia di Astrakanrr. 30-31) e la complice simpatia (A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità, rr. 33-34).
D’altra parte, il narratore non è uno solo. Il gioco intricato delle focalizzazioni interne presenta infatti punti di vista diversi mediante il ricorso al discorso diretto, indiretto e indiretto libero. In tal modo le impressioni o le idee di alcuni personaggi si innestano sulla voce narrante principale, senza che lo scrittore ricorra necessariamente a una punteggiatura che indichi in modo chiaro e netto la separazione tra narratore e parlanti: l’effetto che ne deriva è una straordinaria polifonia, che registra fedelmente il contorto gomitolo di fatti, pensieri e sentimenti che costituisce la realtà quotidiana.

Anche dal punto di vista stilistico, il romanzo offre un’iniziale “normalità” formale, appena complicata da qualche latinismo (ubiquo ai casi, r. 3) o arcaismo (la separazione della preposizione sugli in su gli (r. 3), l’apocope del verbo venivano in venivan (r. 5), la forma giovine (r. 11) invece di giovane. Questa prassi tuttavia cede gradualmente il posto a una delle peculiarità del Pasticciaccio, ovvero il ricorso al dialetto. Con la vedova Antonini entra in scena il romanesco, mescolato con l’italiano senza soluzione di continuità; con Ingravallo, Gadda introduce il campano e il molisano.
Ad arricchire ulteriormente il pastiche linguistico contribuisce poi l’utilizzo di termini appartenenti a registri diversi e soprattutto ad ambiti e linguaggi specifici: vocaboli colti (teoretica, r. 32), espressioni rare o ricercate (cresputi, r. 5; tempo incubatorio, r. 37; inopinate catastrofi, r. 38), neologismi (erotia, r. 66) sono affiancati a termini filosofici, medici, scientifici (abbondano le metafore meteorologiche), giuridici, in una commistione barocca che riflette degnamente il teatro del mondo.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Riassumi quanto Ingravallo sostiene circa il rapporto tra causa ed effetto.

2 Descrivi il carattere di Ingravallo, aiutandoti con espressioni prese direttamente dal testo.

3 Perché viene usata l’immagine della depressione ciclonica (rr. 40-41 e 58-59)?

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ANALIZZARE

4 Rintraccia termini ed espressioni che fanno riferimento all’idea di groviglio e suddividile in base al linguaggio utilizzato.

Italiano standard
Dialetto
Linguaggi specialistici
     
     
     
     
     

5 Identifica e sottolinea all’interno del brano i sintagmi che testimoniano una narrazione dubitativa e non onnisciente.

INTERPRETARE

6 Perché Ingravallo dice che i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà (r. 61)? A che cosa si riferisce? Contestualizza l’affermazione all’interno del brano.

SVILUPPARE IL LESSICO

7 Il pastiche linguistico gaddiano è ricco non solo di termini provenienti da diversi gerghi, registri e parlate locali, ma anche di effetti fonici (allitterazioni, rime, paronomasie…). Rintracciane almeno cinque nel brano che hai letto.

SCRIVERE PER...

RACCONTARE
8 Immagina Ingravallo commissario ai giorni nostri: adatta il carattere, l’aspetto fisico, il modo di pensare del personaggio al contesto della società attuale. Scrivi un testo narrativo di circa 20 righe.

intrecci CINEMA

Un maledetto imbroglio

Portare sul grande schermo un romanzo complesso come il Pasticciaccio è una vera impresa (anche Gadda, a fine anni Quaranta, ne ha tratto una sceneggiatura intitolata Il palazzo degli Ori, rimasta però sulla carta) che farebbe pensare a un cineasta d’avanguardia; sorprendentemente, a trasformare il libro in film è invece un regista legato alla tradizione come Pietro Germi (1914-1974), che nel 1959 dirige e interpreta Un maledetto imbroglio.
Un adattamento di estrema originalità
Il regista opera uno stravolgimento del romanzo originale. Innanzitutto, pur ricorrendo ai dialetti per la caratterizzazione di alcuni personaggi, accantona lo sperimentalismo linguistico. Poi, l’ambientazione è spostata nella Roma contemporanea di fine anni Cinquanta. Inoltre, il film non si conclude con un finale aperto, ma con l’arresto dell’assassino. Rivendicando l’autonomia del cinema rispetto alla letteratura, Germi si serve della trama gialla per realizzare il primo riuscito film poliziesco italiano. Il risultato è un’opera ben distinta dal romanzo (nonostante il copione venga approvato da Gadda), al punto da essere premiato con il Nastro d’argento per la migliore sceneggiatura originale.
Una messa alla berlina della borghesia
A detta dello stesso Germi, il film è anche «un grande panorama di cose e personaggi, un quadro vasto e popoloso, ridondante e barocco». Le simpatie del regista vanno indubbiamente ai personaggi del proletariato, in primo luogo la domestica Assuntina (interpretata da Claudia Cardinale, che conferisce al personaggio spontaneità e umanità). Un maledetto imbroglio è infatti uno spietato ritratto della borghesia, una classe sociale all’apparenza rispettabile ma in realtà avida, gretta e che ha sempre qualcosa da nascondere: «È come in campagna quando smuovi un sasso e sotto ci trovi i vermi» afferma con amarezza Germi nei panni di Ingravallo.

Il magnifico viaggio - volume 6
Il magnifico viaggio - volume 6
Dalla Prima guerra mondiale a oggi