Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo ad un risolino di stupore, stupore di essercela presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quanto poi si è rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato.
Di venerdì all’alba, Maria in Cèlo, la madre di Barbino, partiva con la bicicletta per andare al mercato a vendere i suoi prodotti, dalla frazione di Vighizzolo al comune di Montichiari,1 e stava via tre ore buone: quattro chilometri a andare, quattro a ritornare. Al ritorno ci impiegava appena un po’ di più che all’andata, per via dei manubri carichi di sporte e del portapacchi appesantito dai sacchetti di miscela2 per i polli. Per tutta la settimana aveva palpato il culo alle sue diciotto galline e alle quindici anatre come i gioiellieri calibrano3 i diamanti con guanti bianchi, lenti e pinzette. Allora non c’era gallina che non facesse uova d’oro. Però lei, soprattutto, aveva un piccolo commercio di conigli che allevava in due gabbie coperte da sacchi di iuta in fondo all’orto. [...]
Quel giorno Barbino, terzo figlio maschio, cinque anni, correva all’indirizzo del gancio dove pendeva la sua vestaglia, quella che lei teneva indosso da un giovedì all’altro e che si levava solo per sostituirla con quella della festa l’ora scarsa per andare a messa prima4 la domenica e il tempo al mercato del venerdì e che si rimetteva tale e quale verso le dieci di ogni ritorno senza neanche lavarla, e così, di nuovo vestita a suo agio e piacere, eccola che senza perdere un solo altro minuto andava a palpare
i ciceroni5 dei pennuti nel pollaio per sapere su quante uova poteva contare l’indomani e a portare la sbobba6 nel porcile annesso... il maiale era per la famiglia tutto, e lei si lagnava di non aver mai imparato a fare uso delle setole, che era un delitto buttarle via mentre c’era gente che ci faceva le spazzole... [...] e Barbino, staccata dal gancio con sacrale timore e infilatosi la vestaglia del suo sogno, con la capocchia abbrustolita di un fiammifero acceso e subito spento, sentendosi favorito dalla sorte per alcune ore di assenza di lei via al mercato di Montichiari e quindi della presenza della sua meravigliosa vestaglia pregna degli odori più inebrianti del mondo in cui ora poteva infilarsi lui, si impiastricciava le guance di nei di bellezza e cominciava a annusare all’altezza delle ascelle come per calarsi nella parte con tutti i sensi, e così conciato usciva in strada trascinandosi dietro una sedia e una coperta di lana tutta spinosa con su un’aquila, detta imperialem che era l’unico trofeo di guerra del Cèlo7.
(Aldo Busi, Seminario sulla gioventù, Mondadori, Milano 2004)