Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
A differenza del Principe, i Discorsi hanno una struttura meno organica e più frammentaria. Il titolo stesso dell’opera sottolinea tale natura: la parola “discorso” viene dal latino discurrere, cioè “andare qua e là”, quindi “procedere senza una meta definita”. In effetti, ci troviamo di fronte a una serie di annotazioni e riflessioni, stimolate dalla lettura dei primi dieci libri (la «Deca» del titolo) dello storico romano Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.), autore di una monumentale opera sulla storia di Roma dalle origini (Ab Urbe condita libri, Libri sulla storia di Roma dalla fondazione).
Anche l’argomento si differenzia da quello del Principe: al centro dei Discorsi vi è infatti la vita delle repubbliche, con le loro leggi e le strutture civili e istituzionali, nelle quali un ruolo fondamentale è rivestito dalla partecipazione collettiva del popolo. Tale differenza contenutistica ha inoltre un risvolto sul piano stilistico: al tono appassionato del Principe corrispondono qui una più pacata tendenza alla riflessione e un procedere discontinuo, anche se comune alle due opere è la volontà da parte dell’autore di indicare soluzioni alla crisi italiana.
L’opera è preceduta dalla dedica a Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, due importanti esponenti degli Orti Oricellari, un vero e proprio circolo culturale animato da un certo fervore repubblicano e antimediceo. Segue poi il Proemio, dove vengono gettate le basi della riflessione politica machiavelliana. Infatti, dopo aver espresso la volontà di seguire vie non percorse ancora da nessuno, l’autore dichiara di volersi appoggiare all’«esperienzia», che gli viene dagli studi e dalla diretta pratica politica, per rintracciare nella storia romana leggi sempre valide nella storia dei popoli e degli Stati.
L’analisi è ripartita in 3 libri, composti rispettivamente da 60, 33 e 49 capitoli. Il primo libro tratta i problemi della fondazione e della legislazione dello Stato; il secondo si sofferma sull’ampliamento dello stesso e quindi su tematiche concernenti la politica estera; il terzo esamina i requisiti necessari per la stabilità dello Stato e le sue inevitabili trasformazioni. Va però precisato che questa suddivisione degli argomenti non è rigida, visto che la natura aperta dell’opera consente a Machiavelli una certa libertà e la possibilità di spaziare senza il vincolo di schemi precostituiti.
Per molto tempo si è sostenuta la contraddittorietà del contenuto dei Discorsi rispetto a quello del Principe. Si tratta di una posizione oggi in gran parte superata. Innanzitutto, non è possibile cogliere un’evoluzione nel tempo del pensiero dell’autore, visto che, come abbiamo detto, le due opere vengono scritte durante lo stesso periodo. In secondo luogo, non muta l’impostazione metodologica, basata anche in quest’opera sul criterio della «verità effettuale» e sulla necessità dell’imitazione degli antichi.
Certo, mentre nel Principe troviamo la teorizzazione dello Stato assoluto, che costituisce agli occhi di Machiavelli una dura necessità per fare uscire l’Italia dalla crisi, nei Discorsi l’autore esalta il modello repubblicano, così come si era storicamente realizzato nella Roma antica. In particolare, la sua preferenza è per una “repubblica mista”, in cui vi sia un equilibrio di poteri tra plebe e aristocrazia. Ma l’apparente contraddizione si spiega con un motivo molto semplice: Il Principe analizzava il problema della creazione di uno Stato nuovo, all’interno della situazione italiana di quel momento; i Discorsi invece si soffermano essenzialmente sul mantenimento dello Stato e sui suoi ordinamenti.
Nella sua concezione naturalistica della Storia, Machiavelli immagina le varie forme dello Stato come altrettanti momenti di uno sviluppo circolare. La forma originaria di governo è la monarchia, che però si corromperà, degenerando nella tirannide; con la reazione nobiliare, subentra poi l’oligarchia; l’opposizione all’oligarchia porta alla democrazia, che è destinata a involvere nella demagogia e nell’anarchia. E il processo ricomincerà quando un uomo nuovo saprà mettere ordine nel caos.
All’interno di questo disegno ciclico dei governi, la repubblica romana, grazie alla sua costituzione, ha rappresentato secondo Machiavelli (che qui riprende la tesi di Polibio, storico greco del II secolo a.C.) un raro esempio di equilibrio, capace di dare rappresentanza istituzionale alle diverse istanze politiche e sociali. I consoli, il senato e i tribuni della plebe, garanti rispettivamente del principio monarchico, aristocratico e democratico, hanno cooperato gli uni con gli altri per il bene dello Stato.
Al contrario Machiavelli ritiene la Chiesa cattolica colpevole di aver inculcato nei cristiani una mentalità apatica e disgregatrice, poco amante della libertà e portata alla rinuncia all’impegno civile e politico: «La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione e nel dispregio delle cose umane».
Non solo: accanto a questa responsabilità civile ve n’è un’altra, più politica, riguardante la mancata unificazione dell’Italia. Lo Stato della Chiesa, secondo Machiavelli, con l’ingerenza temporale e con un’egoistica politica delle alleanze, ha permesso agli eserciti stranieri di imperversare sul territorio italiano e ha impedito che uno Stato prevalesse sugli altri e conquistasse tutta la penisola. Al tempo stesso, lo Stato della Chiesa non ha mai raggiunto una forza e un’autonomia tali da adempiere esso stesso a questo compito.
Il magnifico viaggio - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento