T5 - Ser Ciappelletto
T5
Ser Ciappelletto
Decameron, I, 1
DENTRO IL TESTO
I contenuti tematici
Il notaio Ciappelletto, uomo perverso e privo di scrupoli, viene incaricato da un ricco mercante fiorentino di recarsi in Borgogna a riscuotere, per suo conto, alcuni crediti. Egli accetta l’incarico, ma un giorno si ammala. È ospitato da due usurai fiorentini, i quali si trovano in imbarazzo circa la soluzione da adottare: se lo manderanno via, potranno essere tacciati di crudeltà per avere cacciato un uomo in fin di vita; se morirà in casa loro, senza essersi confessato o, essendosi confessato, senza aver ricevuto l’assoluzione (tanti e tali sono i peccati di Ciappelletto che nessun sacerdote vorrà credere al suo pentimento), saranno accusati di empietà per avere ospitato un uomo così malvagio. Ciappelletto decide di aiutarli e li invita a chiamare un confessore: ci penserà lui a ingannarlo, facendosi passare per un uomo virtuoso. Così avviene: Ciappelletto, con una falsa confessione, si fa credere addirittura un santo.
Perché Ciappelletto è disposto a tanto? Soltanto per aiutare i suoi ospiti? Questa potrebbe essere una prima spiegazione: la solidarietà di classe; sia Ciappelletto, che è notaio, sia i suoi ospiti, di professione usurai, appartengono a quella borghesia degli affari unita al suo interno da una certa complicità. Ma davvero, in virtù di questo senso di appartenenza, si può essere pronti a dannare per l’eternità la propria anima?
Forse in Ciappelletto prevale altro: il gusto della beffa, una beffa che ha in sé stessa la propria ragion d’essere. Del resto il tema della beffa è ricorrente nel Decameron, che dedica a esso due intere giornate, la Settima e l’Ottava.
Tuttavia ci potrebbe essere anche una terza spiegazione: Ciappelletto decide di ingannare il frate per il piacere che gli deriverà da un’ultima azione peccaminosa prima di morire, coerentemente con il modo in cui egli è vissuto durante tutta la sua esistenza. Infatti dal ritratto di Ciappelletto emerge la volontà, anzi proprio la soddisfazione che il personaggio prova nel compiere il male (rr. 17-23).
Si tratta evidentemente di una sorta di rovesciamento del motivo francescano della “perfetta letizia” che deriva dal compiere il bene. Qui, invece, tutta la gioia sta nel fare il male. In vita come in punto di morte.
Il narratore della novella, Panfilo, la conclude con una riflessione sulle ragioni del successo di san Ciappelletto. Il morto è ritenuto ormai da tutti un santo, tanto che viene sepolto con grandi onori nella chiesa del convento dei frati; anzi, pare addirittura che molti fedeli ottengano da lui le grazie desiderate.
È un epilogo paradossale, a proposito del quale Panfilo formula due ipotesi: o Ciappelletto alla fine si è veramente pentito, ed è stato quindi accolto da Dio in Paradiso, oppure – e Panfilo sembra propendere per questa idea – è finito all’Inferno. In quest’ultimo caso il fatto che vengano esaudite le preghiere di chi si rivolge a Dio per il tramite di un dannato creduto santo starebbe a testimoniare la grandezza di Dio, il quale è più attento alla bontà di cuore di chi lo prega che non all’effettiva santità di coloro che il popolo dei fedeli elegge a propri mediatori. Da un punto di vista teologico questo paradosso risulta però tutto sommato corretto: così si spiega per esempio la tolleranza della Chiesa del tempo verso i frequenti abusi tipici di certa devozione popolare. Soltanto con il Concilio di Trento (1545-1563) si stabiliranno regole più rigide per le canonizzazioni.
La critica ha molto discusso su quale debba essere considerata la posizione di Boccaccio rispetto al contenuto di questa novella.
Per alcuni lettori (a partire da Francesco De Sanctis) essa testimonia nell’autore la presenza di uno spirito irreligioso e anticlericale, come se egli avesse voluto irridere la semplicità e l’eccessiva buona fede dei confessori, oltre che la credulità popolare (ma – va notato – non traspare nel testo alcun senso di derisione nei confronti della figura del frate confessore).
Per altri (per esempio Benedetto Croce) Boccaccio appare invece semplicemente ammirato dall’intelligenza umana, anche in una manifestazione a dir poco estrema come quella offerta da Ciappelletto: all’autore non starebbe qui a cuore il problema dell’esistenza o della non esistenza di Dio o quello dell’adeguatezza dei suoi ministri, quanto la celebrazione di un individuo d’eccezione (Ciappelletto, appunto) capace di imbrogliare i propri simili in maniera così estrosa; sarebbe, insomma, un’esaltazione dell’intelligenza.
Altri studiosi ancora (come Vittore Branca) sostengono, al contrario, che lo scrittore, lungi dall’esaltare Ciappelletto, provi quasi una sorta di sgomento di fronte alla logica mercantile (quella del profitto e dell’interesse economico) portata alle estreme conseguenze: in nome della «ragion di mercatura» si può giungere a compiere le peggiori nefandezze; così l’autore, con questa novella, sembra prendere le distanze dagli aspetti più brutti e ambigui e in definitiva disumani di quell’etica commerciale.
Le scelte stilistiche
Il ritmo narrativo della novella è serrato, ma la parte più efficace è quella relativa alla confessione di Ciappelletto. La confessione è resa efficacemente attraverso una scena (cioè, qui, un dialogo tra i due personaggi nel quale il tempo del discorso coincide con il tempo della storia).
Il sacerdote esamina Ciappelletto su quasi tutti i sette vizi capitali della tradizione classica e cristiana (lussuria, gola, avarizia, ira, invidia) ed egli, agli occhi del frate, riesce tutte le volte a ribaltare ogni vizio nella corrispondente virtù, secondo la tecnica del rovesciamento parodico, sviluppata attraverso la figura dell’antifrasi.
L’effetto comico è massimo agli occhi del lettore, che conosce l’autentico carattere del personaggio grazie al ritratto che ne ha dato in precedenza Boccaccio, come anche si divertono – e insieme si meravigliano di fronte a tanta spudoratezza (ma poi decidono di acconsentirvi a proprio vantaggio) – i due fratelli usurai, che conoscono nei dettagli le abitudini di vita del loro ospite.
Il personaggio si rivela abilissimo nell’usare le parole (capacità molto apprezzata da Boccaccio in tutto il Decameron) e gli artifici retorici, comprese alcune tecniche teatrali: con notevoli capacità istrioniche, Ciappelletto sospira per lasciare intendere imbarazzo e contrizione per i presunti peccati commessi; utilizza espressioni di una devozione, pure un po’ stereotipata, che non possiede, come i lettori già sanno (rr. 145-147); piange (rr. 117- 118) e finge di non riuscire a confessare quelle colpe che egli sembrerebbe ritenere più gravi, ma che di fatto non sono neanche peccati veniali.
VERSO LE COMPETENZE
COMPRENDERE
1 Sintetizza in poche righe il ritratto fisico e morale di Ciappelletto.
ANALIZZARE
2 Individua punto per punto come i vizi di Ciappelletto (elencati nel suo ritratto iniziale) nella confessione vengono da lui ribaltati nelle virtù a essi opposte.
3 Analizza il linguaggio del sacerdote che confessa Ciappelletto: quali caratteristiche ha? Quali espedienti retorici utilizza? È simile o diverso rispetto al linguaggio di Ciappelletto?
INTERPRETARE
4 Quale ritratto del sacerdote emerge nella novella?
scrivere per...
argomentare
5 Nel momento in cui le preghiere dei fedeli vengono esaudite, è importante che la persona alla quale sono state rivolte sia davvero santa? È meglio sapere sempre e comunque la verità, oppure quello che conta è, per così dire, il risultato finale e l’intenzione di chi compie il gesto (come si dice nella conclusione della novella)? Sviluppa le tue riflessioni in un testo argomentativo di circa 20 righe.
esporre
6 Sempre più frequentemente libri e film raccontano di personaggi cinici e spregiudicati, pronti a tutto pur di conseguire i propri obiettivi. Spesso si tratta di personaggi affascinanti, presentati in modo accattivante. Nella nostra società il cinismo è quindi un valore positivo? Rifletti su questo tema in un testo espositivo di circa 30 righe.
Classe di letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento