Personaggi principali: Vanni Fucci

Inferno Vanni Fucci 215 Personaggi principali Vanni Fucci Figlio illegittimo del nobile pistoiese Fuccio (Guelfuccio) dei Lazzari, compare nei documenti del Duecento come uno dei più violenti protagonisti delle vicende della sua città, da cui il soprannome di bestia (v. 126). Fu guelfo di parte nera e commise molti delitti e violenze contro gli avversari politici. Partecipò tra le file dei Fiorentini alla guerra contro Pisa nell assedio del castello di Caprona (1292) e probabilmente in quella occasione Dante ebbe modo di incontrarlo. Rubò il tesoro degli arredi sacri della cappella del Duomo di San Jacopo, in Pistoia, ma del furto furono accusati degli innocenti: Rampino di Ranuccio Forese per poco non fu giustiziato; il notaio Vanni della Monna, costretto da Vanni a nascondere nella propria casa la refurtiva, fu impiccato nel 1296. Vanni Fucci, il principale responsabile, venne condannato in contumacia per pluriomicidio e brigantaggio, nel 1295, ma si sottrasse alle indagini disposte dal podestà, perché si era rifugiato sulle montagne pistoiesi da dove avrebbe fatto sapere che il notaio era stato il ricettatore della refurtiva. Vanni Fucci rappresentato da Gustave Doré, 1890. Incisione da Illustrazioni per l Inferno di Dante Alighieri. Parole in chiaro Fenice (v. 107) Araba fenice, uccello della Fenicia. L aggettivo è usato nella lingua comune come nome proprio. Secondo la mitologia (Ovidio, Metamorfosi IV, vv. 392-402; Lucano, Pharsalia VI, 670 ss.), la fenice era un uccello dal meraviglioso piumaggio che, essendo l unico della sua specie, non poteva riprodursi; perciò ogni cinquecento anni, quando sentiva avvicinarsi la fine, si costruiva in Arabia, sui rami di un leccio o di una palma, un nido di erbe profumate (nardo e cinnamomo con mirra), al quale appiccava il fuoco, bruciando per poi rinascere dalle proprie ceneri. Nella religione dell antico Egitto questo mito della Fenice, legato al culto del sole, rappresentava simbolicamente il perpetuarsi della vita. Il mito era interpretato nel cristianesimo (Celio Firminio Lattanzio, De ave Phoenice) come figurazione della morte e della resurrezione di Cristo. Dante poteva averne notizia, oltre che da Ovidio e Lucano, dagli storici, dai naturalisti (Plinio, Naturalis historia), dagli enciclopedisti (Brunet- to Latini, Tresor VI, 26) e dai poeti. L immagine era infatti diffusa come metafora dell amore nella lirica, dai Provenzali ai Siciliani (Giacomo da Lentini), allo Stilnovo (Cino da Pistoia cita la fenice nel sonetto Novellamente amor, in cui pone a Dante la questione se ci si debba riaffidare a un nuovo amore: Novellamente Amor mi giura e dice / d una donna gentil, s i la riguardo, / che per vertù de lo su novo sguardo / ella sarà del meo cor beatrice. / Io ch ho provato po come disdice, / quando vede imbastito lo suo dardo, / ciò che promette, a morte mi do tardo, / ch i non potrò contraffar la fenice). Elitropia (v. 93) L elitropia (in greco helios = sole; trépo = io volgo) designa un erba o più comunemente una pietra di calcedonio verde con macchie rosse. Nella mitologia la ninfa Clizia, innamorata di Apollo, dio del sole, e abbandonata da lui, si lascia morire di fame e di sete e viene trasformata in girasole, così da poter continuare a guardare costantemente il suo amato (il girasole si volge nel corso del giorno per orientarsi verso la luce). In Dante si fondono testimonianze colte e credenze popolari: il poeta nel canto accenna a un possibile rimedio per guarire con pietre magiche dai morsi dei serpenti (correan genti nude e spaventate, / sanza sperar pertugio o elitropia, vv. 92-93). Nel Medioevo, infatti, il mondo vegetale e minerale era indagato in quanto rivelatore del divino e non in funzione di un esigenza scientifica; l interpretazione dei fenomeni naturali era simbolica e i legami erano di tipo intuitivo. Il mondo vegetale e minerale era descritto nei trattati che elencavano le virtù, anche magiche, delle piante (erbari) o delle pietre (lapidari). Si riteneva, per esempio, che l elitropia potesse riflettere i raggi del sole, guarire dai morsi dei serpenti e rendere invisibile chi la portasse addosso. La credenza sembra condivisa da Dante; Boccaccio, invece, nella famosa novella del Decameron, Calandrino e l elitropia (VIII, 3), irride il personaggio di Calandrino che crede alle virtù magiche delle pietre.

La Divina Commedia
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Edizione integrale aggiornata al nuovo Esame di Stato