2 La ricerca qualitativa

2. La ricerca qualitativa

2.1 Le operazioni di base della ricerca antropologica

Le due operazioni di base di cui si avvale ogni ricerca antropologica sono:

  • lo spoglio;
  • il rilevamento.

Queste operazioni sono sempre interconnesse e producono i materiali fondamentali che l’antropologo analizza allo scopo di scrivere la monografia etnografica.

Lo spoglio consiste nella raccolta, nella selezione e nello studio di materiali già esistenti, per lo più testi scritti e documenti d’archivio attinenti al tema della ricerca: le fonti documentarie. Lo spoglio non va confuso con lo studio preliminare di libri, articoli o saggi scritti da altri antropologi sul medesimo tema di ricerca.

Le fonti documentarie comprendono:

  • documenti in raccolte monoscritte giacenti in archivi, biblioteche, depositi pubblici o privati (municipali, ecclesiastici, di individui privati e così via);
  • testamenti, registri anagrafici, registri parrocchiali, epistolari;
  • pubblicazioni di tipo governativo e anagrafico (censimenti, rapporti economici, statistici, sanitari);
  • archivi fotografici pubblici e privati;
  • storie locali, riviste e giornali della zona, guide turistiche;
  • documenti personali di abitanti del posto (lettere, diari e così via);
  • romanzi, poesie, canzoni, altro materiale di ambiente locale (di autori locali o meno).

Oggi, in molti casi, lo spoglio si può effettuare anche in modo computerizzato. Lo spoglio elettronico delle fonti inizia sostanzialmente con il contributo dell’antropologo Alberto Mario Cirese (1921-2011): il passaggio dall’organizzazione delle informazioni dal cartaceo al digitale, con la possibilità di evidenziare occorrenze o di ordinare le informazioni automaticamente in modo sequenziale (listati), ha determinato uno sviluppo metodologico importante.

Se lo spoglio è la selezione e lo studio di documenti già acquisiti, testi già formati e presenti nel contesto di studi prima dell’arrivo dell’antropologo, il rilevamento è l’operazione con la quale l’antropologo stesso produce dei materiali ricavandoli dalla propria interazione diretta con il contesto sociale di studio per renderli documenti di indagine per se stesso e per gli altri. L’antropologa italiana Enrica Delitala (1934-2014) sottolinea questa differenza sostanziale, non tanto perché nel primo caso (con lo spoglio) si lavori a tavolino e nel secondo (con il rilevamento) all’aria aperta, ma perché il rapporto fra il ricercatore e la realtà nel primo caso è mediato, nel secondo è invece immediato.

Quando si fa un lavoro di spoglio, per esempio lavorando su fonti scritte o su documenti museali, si stabilisce un “rapporto a tre” fra:

  • realtà;
  • autore del documento;
  • antropologo.

L’operazione di selezione dei dati non modifica né la realtà né il documento (libro, audioregistrazione, oggetto conservato in un museo).

Viceversa, quando si fa un rilevamento si stabilisce un “rapporto diretto a due” fra:

  • realtà;
  • antropologo.

Lo spoglio è un momento operativo comune a tutte le discipline, mentre il rilevamento è tipico delle scienze sociali. Per l’antropologia il rilevamento è la ricerca sul campo.

Anche le scienze naturali o l’archeologia hanno come momento insopprimibile della loro ricerca l’indagine di terreno, ma in questi casi possiamo parlare solo di rapporti fra cose e oggetti, come per lo spoglio, e non di rapporti umani, fra persone, come nella ricerca sul campo.

Data la fluidità e la variabilità delle relazioni che si instaurano sul campo fra l’antropologo e i suoi interlocutori, non è possibile dare una normativa rigida di come debba essere condotta la ricerca, non si può fornire una ricetta infallibile per produrre i risultati migliori. L’antropologo deve avere sempre il massimo rispetto per l’ambiente in cui lavora e per le singole persone con cui entra in contatto, ricordando che i fenomeni sociali non sono mai isolati, ma vivono in un contesto, in un sistema di relazioni, entro cui sono significativi.

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2.2 Che cos’è la ricerca qualitativa

All’analisi delle fonti documentarie, svolta in genere in archivi e biblioteche, si affianca la ricerca sul campo, con cui si entra direttamente in relazione con le persone.

La ricerca sul campo è sostanzialmente una ricerca qualitativa, che in alcuni casi può avvalersi anche di metodi quantitativi. Con l’espressione “ricerca qualitativa” si intende una ricerca che fa uso di strumenti di indagine per capire le motivazioni, i pareri, le tendenze che inducono certi comportamenti. Studiando una comunità o un gruppo sociale con gli strumenti della ricerca qualitativa, gli antropologi tentano di coglierne il punto di vista interno. L’antropologo e linguista americano Kenneth Pike (1912-2000), negli anni Cinquanta del Novecento, ha introdotto una coppia di termini ancora oggi molto utilizzata in antropologia,  emico ed  etico:

  • con l’aggettivo emico si indica il modo con cui gli appartenenti a una data cultura ne intendono le concezioni e le manifestazioni, dunque da un punto di vista interno;
  • con l’aggettivo etico si indica l’atteggiamento e le valutazioni di chi si pone da osservatore esterno di una qualsiasi cultura. In questa accezione il significato del termine “etico” non riguarda il piano morale e i giudizi di valore.

La ricerca qualitativa è un tipo di ricerca empatica, empirica ed esplorativa, per cui non è importante descrivere e prevedere un fenomeno sociale attraverso la misura di variabili statistiche in relazione a determinate quantità numeriche, come avviene invece per la ricerca quantitativa.

La ricerca qualitativa è volta a indagare in modo approfondito un singolo aspetto, un caso, una questione, tutti elementi legati al fenomeno in esame, col fine di ottenere quante più informazioni possibili, considerando anche il linguaggio non verbale, l’emotività, la  prossemica, e altri aspetti che sfuggono alla ricerca quantitativa. Talvolta l’antropologo può utilizzare anche  questionari e metodi quantitativi in relazione a specifici aspetti del tema di ricerca, ma è un uso sempre molto limitato e marginale perché la rappresentatività statistica non è un requisito essenziale.

La differenza fra ricerca qualitativa e quantitativa è la seguente:

  • la ricerca qualitativa è case based, cioè si fonda su studi di caso, singoli, circoscritti e molto approfonditi, rispetto ai quali, mediante l’osservazione e il colloquio con le persone, si restituisce una prospettiva olistica del comportamento umano;
  • la ricerca quantitativa è variable based, cioè, avvalendosi di questionari strutturati, si fonda sull’incrocio di variabili numeriche, per cui le tecniche e le misure matematiche sono indispensabili.

La ricerca qualitativa può essere descritta evidenziando quattro caratteristiche generali molto importanti:

  • apertura: non ha una struttura rigida, ed è sempre modificabile in corso d’opera, in quanto l’indagine valorizza le opzioni inaspettate e gli imprevisti. Già nel 1922, Malinowski attribuiva grande importanza a tutti quegli elementi casuali che egli chiamava «gli imponderabili della vita reale», che non si possono escludere praticando un’immersione nella vita quotidiana degli interlocutori. Abbiamo visto nel primo capitolo di questa unità come il riposizionamento sia un fattore essenziale che rende la ricerca sul campo una ricerca aperta, laddove invece la ricerca quantitativa è per definizione chiusa, pianificata a priori e rigidamente costruita su un numero calcolato di variabili;
  • massima interazione: ha lo scopo di cogliere il punto di vista emico su un dato fenomeno sociale, cioè di cogliere le impressioni, le opinioni, i punti di vista, il pensiero e le sensazioni delle persone coinvolte nel fenomeno sociale che si sta studiando (un rito, una cerimonia, un movimento di lotta, una performance artistica e così via); è indispensabile che nasca empatia fra il ricercatore e il proprio interlocutore, ossia che fra loro vi sia massima interazione. Questa non mina l’oggettività della ricerca, perché si basa sulla concezione interpretativa della cultura secondo cui il “dato” viene sempre costruito nell’interazione dialogica fra antropologo e nativo |▶ unità 1, p. 41 |. Il soggetto è dunque attivo, collabora e partecipa alla ricerca. Lo scopo della ricerca qualitativa non è quindi quello di confermare la verità oggettiva di una tesi, ma di cogliere il punto di vista di una persona rispetto a un fenomeno o a un evento. Al contrario, la ricerca quantitativa prescrive un basso grado di interazione con l’intervistato e si caratterizza per il formalismo delle procedure e l’uso della statistica. In genere il soggetto è passivo: risponde ai questionari scegliendo entro una serie di risposte multiple già prestabilite e il ricercatore non deve assolutamente interagire con lui al di fuori della compilazione del questionario stesso;
  • pochi individui: coinvolge sempre piccoli gruppi sociali all’interno di comunità più ampie, come una famiglia, un’associazione di quartiere, una comitiva di amici, un clan, raccogliendo una grande quantità di dettagli su comportamenti, usi e abitudini. Non serve a quantificare, utilizzando dati numerici o comunque dati che possono poi essere facilmente trasformati in statistiche per misurare il comportamento di un campione molto vasto di popolazione: di questo si occupa la ricerca quantitativa;
  • stile narrativo: si caratterizza per lo stile narrativo in cui è scritto il testo finale che delinea gli esiti della ricerca. Questo tema è molto importante e ha suscitato accesi dibattiti nell’antropologia contemporanea, per cui merita un breve approfondimento specifico.

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2.3 Lo stile narrativo

Nella presentazione finale dei risultati della ricerca, così come nella stesura della monografia etnografica, la ricerca qualitativa non vuole estrapolare dal soggetto studiato la sua identità generale, abbandonando i connotati locali contingenti per farne un concetto astratto; all’opposto è proprio nella specificità e irripetibilità della situazione concreta che fonda la sua comprensione e la sua capacità di comunicare al lettore. Certamente l’antropologo si impegna anche nell’enunciare una qualche forma di generalizzazione e di teorizzazione sulla base dei principali temi culturali che emergono dalla sua ricerca, ma, come ha affermato lo studioso italiano Piergiorgio Corbetta (n. 1941), esperto di metodologie per le scienze sociali, il percorso di ricerca che l’antropologo intraprende nella comunità non può essere impersonale e neutrale, perché egli è parte del mondo che sta studiando. La prosa dunque non può che essere strettamente legata alla sua cultura e personalità, e lo stile di scrittura deve essere narrativo per fare emergere il più possibile ogni sfumatura della soggettività delle persone incontrate sul campo, per restituire al meglio la realtà così come è stata vissuta durante la ricerca.

Lontano dall’astrazione concettuale dell’elaborazione teorica e da quella aritmetica della ricerca quantitativa, lo stile narrativo si caratterizza per:

  • prosa diretta e concreta;
  • frasi in prima persona;
  • descrizioni dettagliate di fatti, azioni, persone, luoghi;
  • cronache particolareggiate di eventi;
  • brani di interviste sbobinate e trascritte con la viva voce dei protagonisti;
  • riflessioni sull’operato dell’antropologo durante la ricerca.

Lo storico italiano Ruggiero Romano (1923-2002) ha affermato che i testi antropologici di Alfred Métraux (1902-1963) sul Sudamerica sono scritti con «parole semplici che contengono chilometri»: si tratta di parole ispirate dalle situazioni concrete vissute sul campo, in Argentina e in Brasile, che soltanto attraverso un’esperienza diretta si sarebbero potute scrivere; ma sono parole che «contengono chilometri» perché hanno la capacità di far viaggiare lontano chi le legge, evocando tutta la ricchezza dell’esperienza etnografica.

La ricerca quantitativa, invece, fa uso di uno stile impersonale e formale, e si avvale di:

  • tabelle, diagrammi e grafici;
  • analisi comparative con i dati ottenuti negli anni passati e con i dati previsti;
  • testi scritti in terza persona.

Nella ricerca quantitativa l’esperienza complessiva del singolo individuo è irrilevante, il contesto sociale è definito in variabili di cui si ricercano correlazioni.

Il tema della scrittura etnografica, cioè di come rendere con la scrittura gli aspetti salienti della ricerca sul campo, ha suscitato accesi dibattiti a partire dal contributo dell’antropologo americano James Clifford ▶ L’AUTORE | che, con altri studiosi, nell’aprile del 1984, ha animato un importante e innovativo seminario universitario a Santa Fe (New Mexico), da cui è stato tratto il libro Scrivere le culture (1986). Clifford si interroga sulla effettiva possibilità di rappresentare fedelmente culture e realtà diverse dalla propria considerando che la scrittura riflette sempre il contesto politico e istituzionale di chi scrive. Come ha osservato anche Clifford Geertz nel libro Opere e vite. L’antropologo come autore (1988), le modalità concrete di costruzione del testo (la scelta del lessico, delle metafore, lo stile e così via) rendono l’antropologo assimilabile a un autore di altri generi testuali come i romanzi e i racconti letterari, piuttosto che a uno scienziato di laboratorio che stila in modo asettico i risultati di un esperimento.

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l’autore  James Clifford

James Clifford (n. 1945) nasce a New York. Dopo aver completato il dottorato in European Intellectual and Social History ad Harvard (1977), entra a far parte del Dipartimento di History of Consciousness presso l’università della California, Santa Cruz (UCSC), dove ricopre il ruolo di presidente dal 2004 al 2007. Lavorando con altri colleghi, contribuisce a sviluppare un programma di dottorato interdisciplinare di successo che collega le scienze umane, le scienze sociali e le arti. La sua ricerca e il suo insegnamento combinano le prospettive di storia, analisi letteraria, antropologia e studi culturali, oltre ad attingere alla poesia contemporanea e agli studi museali. Rimane all’UCSC per trentatré anni fino al suo pensionamento nel 2011. Il suo lavoro ha suscitato polemiche e dibattiti critici in una serie di discipline, specialmente in antropologia culturale, poiché i suoi scritti hanno contribuito notevolmente all’importante periodo autocritico della disciplina negli anni Ottanta sul tema della scrittura etnografica. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia (1986), opera scritta con G. Marcus (n. 1946); I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX (1988); Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX (1997).

2.4 l’osservazione partecipante

Nel primo capitolo di questa unità abbiamo descritto la nascita della ricerca sul campo con Bronisław Malinowski, che ne fece una prima formulazione negli anni Venti del Novecento, e ne abbiamo introdotto le caratteristiche teoriche generali. Vediamo ora in modo più specifico in che cosa consiste.

Con l’espressione “osservazione partecipante” si intende, più che una semplice osservazione, un coinvolgimento diretto del ricercatore con i soggetti studiati. Come scrive Piergiorgio Corbetta, il ricercatore si immerge nel contesto sociale che vuole studiare, vive come e con le persone oggetto della sua ricerca, ne condivide la quotidianità, ci parla, fa loro domande, ne scopre le pene e le speranze, le concezioni del mondo e le motivazioni dell’agire, al fine di sviluppare quella visione dal di dentro (emica) che è il presupposto della comprensione etnografica.

L’antropologa norvegese Unni Wikan | ▶ L’AUTrice, p. 68 |, il cui lavoro si colloca all’interno della prospettiva interpretativa di Geertz, ha dato un rilevante contributo al tema della partecipazione nella ricerca sul campo. Proprio durante una sua ricerca nell’isola indonesiana di Bali, nel Sud-Est asiatico, ha cominciato a riflettere sull’importanza del termine balinese keneh. Come lei stessa ha raccontato in vari articoli, un giorno, vivendo a Bali, si sentì dire dai suoi interlocutori che per descrivere i Balinesi avrebbe dovuto stabilire una relazione di keneh, da lei tradotto con “risonanza”, con la gente e con i loro problemi, per poi riuscire a trasmettere la risonanza fra il testo finale e i suoi lettori. Il termine keneh non può essere tradotto senza ricorrerre alla creazione di un nuovo verbo che suona quasi contraddittorio per la cultura occidentale, ovvero feeling-thinking (“sentire-pensare”), ed è quel moto dell’animo senza il quale «non può esserci nessuna comprensione, nessun apprezzamento». Per gli interlocutori balinesi della Wikan, gli occidentali non capiscono certi concetti locali «perché usano solo i pensieri e le loro comprensioni non nascono vive». Con il termine “risonanza” Wikan intende «una volontà di impegnarsi con un mondo diverso, con una vita diversa, con un’idea diversa; una capacità di utilizzare la propria esperienza per cercare di cogliere, o veicolare i significati che non risiedono né nelle parole, “fatti”, né nel testo ma che sono evocate nell’esperienza dell’incontro di un soggetto con un altro». Si tratta della volontà e della capacità di cogliere l’esperienza di altri e assumerla come coinvolgimento. La risonanza allora sarebbe quel sentire-pensare che permette di cogliere non i discorsi, ma ciò che la gente realmente dice, quegli aspetti dell’essere nel mondo e dell’agire nel mondo, solamente attraverso i quali “i concetti nascono vivi”.

L’osservazione partecipante è dunque la tecnica principale per creare risonanza. Riassumendo, possiamo definirla come una strategia di ricerca nella quale il ricercatore si inserisce in un determinato gruppo sociale:

  • in maniera diretta, cioè in prima persona;
  • per un periodo di tempo relativamente lungo (in genere da alcuni mesi a oltre un anno);
  • nell’ambiente quotidiano, nell’habitat naturale del gruppo studiato;
  • instaurando un rapporto di interazione personale con i membri del gruppo;
  • parlando con loro ma anche facendo delle cose con loro, partecipando cioè alle più comuni attività quotidiane;
  • allo scopo di comprendere motivazioni, percezioni e idee mediante un processo di immedesimazione.

In questa prospettiva l’antropologo non deve temere di contaminare i dati con un processo di interpretazione soggettiva e personale, in quanto la soggettività dell’interazione e quindi dell’interpretazione è proprio una delle caratteristiche della tecnica; coinvolgimento e immedesimazione non sono quindi da evitare ma sono addirittura cercati, mentre oggettività e distanza, che erano i presupposti degli approcci di derivazione neopositivista, non sono importanti.

Nell’osservazione partecipante non si può osservare tutto.

Esempio: se stiamo conducendo l’osservazione partecipante di una messa cattolica, durante la cerimonia possiamo decidere di osservare attentamente cosa fa il celebrante, i suoi gesti, le sue parole, i suoi movimenti, i suoi vestiti, ma inevitabilmente perdiamo di vista l’atteggiamento dei membri dell’assemblea. Possiamo invece focalizzare la nostra attenzione su un gruppo di fedeli seduti nelle prime file e osservare come interagiscono con il sacerdote per tutta la durata della messa. In questo caso però perdiamo di vista le posizioni complessive e le azioni di tutti gli altri, compresi i concelebranti, il sagrestano, l’organista e così via.

Dunque l’osservazione non può che essere selettiva. Che cosa osservare viene stabilito dal tema di ricerca. Tuttavia, rispetto a qualunque tema di ricerca è sempre necessario osservare:

  • il contesto fisico: la conformazione dei luoghi, la disposizione degli arredi, gli oggetti;
  • il contesto sociale: quali tipi di persone stiamo osservando, che tipo di fenomeno (un rito, una cerimonia, una performance artistica o musicale, un comizio politico);
  • le interazioni formali: come le persone interagiscono in modo ufficiale fra loro (per esempio quando un sacerdote impartisce una benedizione o un docente svolge una lezione a scuola);
  • le interazioni informali: come le persone interagiscono fra loro in modo non ufficiale e spontaneo.

l’autore  Unni Wikan

Unni Wikan (n. 1944) nasce a Harstad, Norvegia. Studia sociologia all’università di Oslo, antropologia sociale all’università di Bergen e poi arabo all’università americana del Cairo, dove svolge la sua ricerca di campo per la laurea magistrale. Al momento di consegnare la tesi, decide di ritirarsi in quanto sente che ciò che ha scritto non è fedele né linguisticamente né in termini di contenuto alle storie di coloro con cui aveva svolto la ricerca. Questo materiale viene poi pubblicato nel 1996, a distanza di vent’anni, nella monografia Tomorrow, God Willing: Self-Made Destinies in Cairo (“Domani, a Dio piacendo: destini self-made al Cairo”). Nonostante la mancanza di un titolo magistrale, nel 1980 ottiene il dottorato con una ricerca in Oman. Svolge ricerche nello Yemen, in Indonesia, Buthan e nei paesi nordici. Prima di ottenere la cattedra di antropologia all’università di Oslo nel 1985, insegna in molte università prestigiose, tra cui Harvard, London School of Economics, Lʼécole des hautes études en sciences sociales. Tra le sue pubblicazioni: Behind the veil in Arabia: Women in Oman (“Dietro il velo in Arabia: donne in Oman”) (1982); Resonance: beyond the words (“Risonanza: oltre le parole”) (1992).

  esperienze attive

Provare a osservare Dividetevi in gruppi di due o tre persone. Ogni gruppo si rechi in un posto diverso, per esempio dove avvengono concerti, letture all’aperto, giochi di magia, oppure in un luogo di culto, una festa, una cerimonia. Sedetevi o mettetevi in disparte e osservate quello che succede attorno a voi. Su un taccuino, descrivete il più minuziosamente possibile quello che vi circonda, il luogo fisico, il contesto sociale in cui vi trovate, le interazioni tra le persone che partecipano all’evento. Descrivete anche le sensazioni che provate mentre siete in quel contesto e poi leggete a vicenda i vostri scritti. Che cosa notate di simile o di diverso?

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Il diario di campo
Durante la ricerca sul campo, e in particolare mentre svolge l’osservazione partecipante, l’antropologo utilizza il diario di campo, che può essere costituito da uno o più quaderni, da un taccuino, o da un dispositivo elettronico per registrare le audioannotazioni. Si tratta di uno strumento di ricerca molto importante perché costituisce il primo momento di confronto fra l’esperienza vissuta e la scrittura. L’antropologo prende appunti, fa annotazioni su ciò che vede e sente, sulle domande che vorrebbe porre, sulle risposte che riceve, sulle sensazioni che prova, sugli elementi dell’ambiente che lo colpiscono di più. Già negli anni Venti del Novecento, Malinowski sosteneva che il diario di campo non solo conserva l’esperienza, ma contribuisce a crearla: la sua importanza non consiste solo nel tenere memoria di un’esperienza vissuta, ma rileggendo quotidianamente le annotazioni su giorni o periodi passati, l’antropologo si può preparare a organizzare meglio l’esperienza che sta per vivere.

L’antropologo osserva, partecipa e pone domande: la domanda incorporata nella conversazione informale, volta a chiedere informazioni, a capire le motivazioni e il punto di vista delle persone è parte costitutiva dell’osservazione partecipante. L’intervista quindi si affianca all’osservazione come strumento essenziale di rilevamento.

  INVITO ALL‘ASCOLTO 
Steven Feld e la comunità kaluli, MUSIC OF THE KALULI PAPUA NEW GUINEA, 1982

Questo CD è una raccolta di brani che l’antropologo del suono ed etnomusicologo Steven Feld ha registrato assieme alla comunità Kaluli della Papua Nuova Guinea. L’innovazione di Feld è quella di aver posto il suono e le registrazioni al centro della sua esplorazione intellettuale e interpretazione creativa del campo. Veniamo a conoscenza della comunità kaluli attraverso le musiche di cerimonie notturne, di matrimoni, funerali, feste, ma anche note nostalgiche, narrazioni di emozioni e sentimenti, dove la complessità della comunità emerge con le sue melodie.

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2.5 L’intervista qualitativa

L’intervista qualitativa è un tipo di intervista che consiste nell’entrare nell’individualità della persona intervistata al fine di vedere il mondo con i suoi occhi. Come ha affermato lo scrittore francese Marcel Proust (1871-1922): «l’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è».

L’intervista qualitativa è complementare all’osservazione partecipante: le due tecniche si applicano sempre in modo integrato. Talvolta è importante cogliere anche ciò che le persone non dicono: i comportamenti (anche in modo inconsapevole) hanno spesso un valore espressivo maggiore delle parole. L’antropologo può infatti riscontrare una qualche difformità fra ciò che le persone dicono e ciò che fanno.

L’obiettivo dell’intervista qualitativa è dunque accedere alla prospettiva emica del soggetto studiato, cogliere le sue categorie mentali, le sue interpretazioni e le sue percezioni, i suoi sentimenti e i motivi delle sue azioni.

Possiamo definire l’intervista qualitativa come una conversazione:

  • provocata dall’intervistatore;
  • rivolta a soggetti scelti sulla base di un piano di rilevazione delineato nel progetto di ricerca;
  • comprendente un numero non elevato di persone;
  • avente finalità di tipo conoscitivo;
  • guidata dall’intervistatore;
  • svolta sulla base di uno schema flessibile e non standardizzato di domande.

Abbiamo detto che la ricerca quantitativa, basata sui questionari, costringe l’intervistato a limitare le proprie risposte. Egli può esprimerle solo facendole rientrare in una griglia di risposte multiple già previste e formulate a priori da chi ha redatto il questionario. In questo caso, come osserva Piergiorgio Corbetta, la voce dell’intervistatore prevale su quella dell’intervistato. Nell’intervista qualitativa, invece, fermo restando il compito dell’intervistatore di impostare i temi della conversazione, la voce prevalente è quella dell’intervistato, che è molto libero di esprimere la proprie opinioni e convinzioni, formulando la risposta come meglio crede.

Vengono normalmente denominati “informatori” quegli individui appartenenti alla comunità a cui l’antropologo si rivolge per acquisire informazioni e interpretazioni dall’interno della cultura studiata, con i quali instaura un rapporto personale intenso e talvolta di vera amicizia. Possono essere chiamati anche “interlocutori”. Come spesso accade durante la ricerca sul campo, l’antropologo stabilisce una relazione dialogica maggiore e più duratura con alcuni informatori, che in genere si definiscono “interlocutori privilegiati”.

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Le storie di vita

La situazione di massima apertura dell’intervista è data dalle  storie di vita, cioè racconti biografici orali in cui l’interlocutore narra la propria vita seguendo il percorso che crede, in varie sedute, attraverso molte ore di colloquio. Nelle storie di vita l’antropologo parla pochissimo, si limita a stimolare e a incoraggiare l’intervistato, il quale fornisce un parlato libero, un flusso narrativo in cui esprime fatti, circostanze, eventi, valutazioni, giudizi, esperienze, da cui emergono gradualmente il suo modo di vedere le cose e le sue motivazioni.

L’antropologa americana Marjorie Shostak ▶ L’AUTrice | è autrice della biografia probabilmente più letta nella storia dell’antropologia. Il suo corposo volume dal titolo Nisa. La vita e le parole di una donna !kung (1981), è dedicato alla storia di una donna, Ju’hoansi, chiamata con il nome Nisa, di circa quarant’anni, che vive nel deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale. Si tratta del racconto lungo e dettagliato, attraverso le parole della stessa Nisa, dell’infanzia della donna e dei suoi numerosi matrimoni. Ha avuto quattro mariti, molti amanti e quattro figli, nessuno dei quali è però sopravvissuto. La sua comunità, i !Kung San (noti anche come Boscimani), ha abbandonato solo di recente la caccia e la raccolta di piante selvatiche con metodi di sussistenza tradizionali nell’ambiente semiarido della savana. Il valore antropologico di questa narrazione non dipende dal fatto che se ne possa stabilire l’effettiva “veridicità”. Ha un grande valore perché ci mette a conoscenza di ciò che Nisa stessa ha voluto che sapessimo e del modo in cui la donna ha valutato le proprie esperienze. Gli antropologi considerano questa narrazione come un “dato” perché riflette veramente ciò che Nisa ha voluto raccontare alla Shostak.

l’autRICE  Marjorie Shostak

Marjorie Shostak (1945-1996) nasce a Brooklyn, New York. Studia letteratura al Brooklyn College dove incontra l’antropologo biologo Melvin Joel Konner, che diventerà suo marito e con il quale avrà tre figli. Sebbene non antropologa di formazione, il suo lavoro di ricerca tra le donne !kung san, nell’area Dobe, al confine tra Botswana e Sudafrica, concretizzato nella sua monografia Nisa, la vita e le parole di una donna !kung (1981), è diventato un classico dell’antropologia. Partita nel 1969 con il marito, trascorre due anni tra i !Kung, studiandone la lingua e facendo ricerca sul campo. Mentre il marito si occupa di questioni mediche, lei svolge un’estesa ricerca etnografica sul ruolo della donna tra la comunità !kung, facendo amicizia in particolar modo con una donna che nella sua monografia viene chiamata con lo pseudonimo “Nisa”. Nel 1983, lei e il marito si trasferiscono ad Atlanta, Georgia, dove insegna antropologia e storia orale all’università Emory fino alla sua prematura scomparsa.

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Modalità e finalità dell’intervista qualitativa

Concludiamo con alcune osservazioni relative alla modalità di conduzione di un’intervista qualitativa:

  • dovrebbe essere sempre registrata, per poi procedere alla sbobinatura con specifiche tecniche di trascrizione;
  • la registrazione deve avvenire sempre in modo palese, cioè non di nascosto, ma acquisendo esplicitamente il  consenso informato da parte dell’interlocutore;
  • si possono utilizzare materiali durante l’intervista, come fotografie, articoli di giornale, oggetti, per dare slancio alla conversazione e fare affiorare meglio temi culturali importanti: in questo caso si chiama intervista a elicitazione (dal verbo elicitare, cioè “tirare fuori”, “stimolare”);
  • si può svolgere facendo altre cose contemporaneamente: passeggiando, preparando da mangiare, svolgendo una qualunque semplice occupazione quotidiana;
  • può essere svolta in gruppo.

Come abbiamo detto per la ricerca qualitativa, anche questo tipo di intervista non aspira a un campione rappresentativo. Anche quando c’è sistematicità nell’individuare le persone da intervistare, ciò nasce più dall’esigenza di coprire la varietà delle situazioni sociali che da quella di riprodurre su scala ridotta le caratteristiche della popolazione. Nell’analisi dei temi culturali che emergono nelle interviste qualitative non si frammentano gli individui in variabili, non si producono frequenze e correlazioni, si raccontano storie. La ricerca quantitativa applica modelli statistici per dedurre relazioni di causa ed effetto fra i comportamenti sociali. Con l’osservazione partecipante e l’intervista qualitativa alla categoria del nesso causale si è sostituita quella dell’esperienza vissuta.

  INVITO ALLA LETTURA 
Art Spiegelman, MAUS, Einaudi, 2000

Quest’opera è frutto di un lavoro di quasi dieci anni in cui l’autore, a più riprese, intervista suo padre con il metodo della storia orale. L’autore riflette sulla storia della sua famiglia, i cui genitori, ebrei di origine polacca, sono sopravvissuti ai campi di concentramento di Majdanek e Auschwitz. Alternando i momenti di difficoltà durante le interviste, in cui l’autore fatica a entrare in contatto con il modo di fare del padre, veniamo a conoscenza del dramma dell’Olocausto, della tragedia familiare, ma anche del dramma personale dell’autore in quanto figlio di sopravvissuti. Questo romanzo a fumetti è preso come modello anche dagli antropologi visivi, i quali usano i disegni come un modo per rappresentare la realtà etnografica.

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per immagini

Il consenso informato in antropologia

Nell’immagine la ricercatrice mostra alla sua interlocutrice una liberatoria per il rilascio del consenso all’intervista. Questa dicitura, nata in ambito medico per autorizzare le operazioni chirurgiche, è stata estesa a discipline come l’antropologia per informare i soggetti intervistati/filmati/fotografati sulle finalità della ricerca e tutelarne la privacy. Nell’ultimo ventennio, la comunità antropologica ha dato sempre maggiore importanza agli aspetti etici dell’etnografia; a partire dagli anni Duemila, infatti, molte associazioni degli studi antropologici si sono dotate di codici etici formati da una serie di regole a cui i ricercatori devono attenersi. Tuttavia, data l’unicità di ciascuna ricerca, nata sempre da relazioni intersoggettive, questi codici vanno adattati al proprio specifico lavoro e non esiste un’unica ricetta metodologica, valida per tutti.

per lo studio

1. Quali sono le caratteristiche della ricerca qualitativa?

2. Che differenza c’è fra lo spoglio e il rilevamento?

3. Che cos’è l’intervista qualitativa?


  Per discutere INSIEME 

Perché l’osservazione partecipante e la ricerca qualitativa sono fondamentali per la pratica etnografica? Prova a spiegare con parole tue che cos’è quella che Unni Wikan chiama “risonanza”. Ti è mai capitato di incontrare una persona con cui hai provato una particolare empatia, dove le sue parole ti hanno toccato così nel profondo da aver “sentito-pensato”? Discutine in classe con i tuoi compagni.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane