1. La ricerca sul campo

1. La ricerca sul campo

1.1 Malinowski e la nascita del metodo etnografico

Nella prima unità abbiamo esaminato diversi aspetti generali del concetto antropologico di cultura:

  • le importanti caratteristiche della sua prima formulazione, con la definizione tyloriana del 1871;
  • il tema della differenza culturale e del mutamento;
  • l’incompletezza biologica di base, caratteristica essenziale della nostra specie;
  • la concezione di cultura alla base dei principali paradigmi dell’antropologia contemporanea: il funzionalismo, lo strutturalismo e la teoria interpretativa.

Possiamo ora chiederci in modo più diretto: come si studiano le culture? Qual è il metodo di lavoro degli antropologi?

Il metodo fondamentale dell’antropologia culturale si chiama ricerca sul campo, o etnografia. Con questa espressione ci si riferisce al fatto che gli antropologi si immergono personalmente, per un periodo in genere piuttosto lungo, nel contesto sociale in cui si svolgono i fenomeni che desiderano studiare. L’espressione “ricerca sul campo” (fieldwork) e il metodo di indagine che essa comporta sono stati proposti per la prima volta da Bronisław Malinowski ▶ unità 1, p. 35 |, nella sua lunga ricerca alle isole Trobriand nel Pacifico occidentale, dal 1914 al 1918, in cui l’antropologo si è immerso nella vita quotidiana dei nativi imparandone la lingua e le tradizioni.

Rientrato a Londra, nel 1922, pubblica il celebre volume Argonauti del Pacifico occidentale, la prima  monografia etnografica della storia dell’antropologia.

Prima di lui, a partire da Tylor, a fine Ottocento, la maggior parte degli antropologi non si era mai mossa da casa e aveva evitato qualunque contatto diretto con i “primitivi”, basando i propri scritti su fonti missionarie, su relazioni o diari di mercanti ed esploratori. Franz Boas, prima di Malinowski, aveva compiuto ricerche a stretto contatto con gli Inuit della Baia di Baffin (tratto dell’Oceano Artico) nel 1883, e poi fra i Kwakiutl della costa nord-occidentale degli Stati Uniti nel 1886, ma a differenza di Malinowski non aveva elaborato una precisa formulazione riguardo al metodo da utilizzare.

Malinowski, invece, dedica il capitolo iniziale della sua monografia a esporre i principi metodologici di base della ricerca sul campo. Egli afferma che per l’analisi dei fenomeni culturali lo studio sui libri, in biblioteca o in archivio, è importante e preliminare, ma ancora più importante, addirittura indispensabile, è l’esperienza diretta, che permette una forma di comprensione imitativa, empatica, dei fenomeni e delle situazioni sociali, dunque più efficace; ed essa è realizzabile soltanto stando a stretto contatto quotidiano con le persone che condividono quel dato orizzonte culturale.

Esempio: si tratta dello stesso tipo di apprendimento indispensabile per le lingue: se voglio imparare l’inglese dovrò senz’altro passare molte ore a tavolino studiando la grammatica e facendo esercizi, ma a un certo punto dovrò lasciare la mia stanza o l’aula scolastica e andare in Inghilterra, vivere là per un certo periodo, immergendomi completamente nella realtà viva in cui si parla quella lingua.

Ciò che è fondamentale per le lingue, vale altrettanto per ogni altro aspetto culturale: una forma d’arte, una danza, una istituzione politica o religiosa, un conflitto sociale, un movimento di protesta e così via, perché, come scrive Malinowski: «tutte queste cose, sebbene cristallizzate e fisse, non sono mai formulate. Non vi è nessun codice di leggi scritte o espresse esplicitamente e l’intera  tradizione tribale degli indigeni, l’intera struttura della loro società è incorporata nel più fuggevole di tutti i materiali: l’essere umano».

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1.2 Tenda e lingua: l’esperienza sul campo

A partire da Malinowski, ciò che fa l’antropologo sul campo, il suo metodo di studio in senso complessivo, si definisce anche “osservazione partecipante”; una strategia di ricerca che approfondiremo nel secondo capitolo di questa unità. Egli oscilla sempre fra due poli opposti: osserva, è testimone dei fenomeni culturali a cui assiste e che desidera studiare, mantenendo dunque un certo distacco critico, ma contemporaneamente partecipa, cioè agisce tra e con i suoi ospiti, nel contesto sociale in cui vive, prende parte alle loro attività, ne impara abitudini, modi di fare e comportamenti. Anche l’espressione “tenda e lingua” è di Malinowski, ed esprime efficacemente il profondo livello in cui l’antropologo cerca di immergersi nel contesto che studia: apprendere le pratiche di vita quotidiana (tenda) e le forme comunicative locali, i gerghi, i dialetti (lingua).

Ma il campo deve essere vicino o lontano?

Per molti decenni della storia dell’antropologia, lo studio di popolazioni extraeuropee, non occidentali, portava gli antropologi molto lontano dalla propria casa, in piccole comunità di villaggio in Africa, in Amazzonia, in Oceania. Oggi, in un mondo sempre più urbanizzato, globalizzato e interconnesso, gli antropologi continuano ad andare lontano, ma compiono molte importanti ricerche sul campo anche in contesti socioculturali vicini a casa loro.

Come vedremo nel prossimo capitolo, da un punto di vista concreto, il metodo dell’osservazione partecipante si avvale di un apparato molto vasto di tecniche, fra cui varie tipologie di intervista, l’uso del registratore, della videocamera, la realizzazione di carte, mappe, disegni, la redazione di note e del diario di campo.

Per rimarcare l’importanza di questo metodo immersivo, Clifford Geertz ▶ unità 1, p. 39 | ha affermato che gli antropologi «incontrano l’umanità faccia a faccia», richiamando l’attenzione sul fatto che prima dello studio e dell’analisi deve compiersi un incontro, e che questo non avviene mai solo in senso astratto fra culture, ma sempre in modo concreto fra individui, con tutti i rischi, i problemi, le difficoltà che ciò comporta. Alle volte può anche capitare che certi individui si rifiutino di incontrare l’antropologo, o che l’incontro si possa trasformare in uno scontro.

1.3 Il problema del punto di vista

La questione più profonda che affiora dal metodo della ricerca sul campo, nella quale, come abbiamo detto, è indispensabile l’incontro etnografico, è il cosiddetto problema del punto di vista adottato per studiare un qualunque fenomeno culturale ▶ APPROFONDIAMO, p. 62 |. L’antropologo, come ogni altra persona, è membro di una data cultura, e pertanto ha idee, pregiudizi, categorie conoscitive, emozioni, valori; è cresciuto imparando a parlare e a scrivere in una determinata lingua, ha maturato delle convinzioni politiche e può avere una fede religiosa. Tutti questi elementi in relazione fra loro costituiscono la soggettività storico-culturale dell’antropologo. Essi funzionano come un paio di occhiali posti dietro gli occhi anziché davanti, e attraverso i quali si possono osservare e interpretare il mondo e gli altri.

In antropologia questa condizione si chiama “posizionamento”. Il posizionamento dell’antropologo, come per qualunque altro studioso, in particolare delle scienze sociali, si riferisce al fatto che egli comincia il proprio studio a partire da una certa posizione: guarda le cose secondo una certa prospettiva. È costretto a fare così perché le categorie culturali sono “categorie-pelle”, non “categorie-maglietta”. Non possiamo sfilarcele e poi tornare a indossarle a nostro piacimento, perché fanno parte di noi stessi. È cioè impossibile eliminare completamente la nostra soggettività storico-culturale.

Come mostra bene lo studio dell’antropologa palestinese Lila Abu-Lughod (n. 1952) sulla poesia femminile beduina, durante una ricerca le interazioni sociali con gli altri e le particolari esperienze di vita produrranno certamente nell’antropologo dei riposizionamenti, ovvero dei cambiamenti più o meno forti rispetto al punto di vista adottato all’inizio, ma egli non potrà mai essere completamente indipendente da un qualche punto di vista, distaccandosi del tutto dalla propria soggettività per osservare gli altri in modo perfettamente neutrale.

L’antropologo statunitense contemporaneo George Stocking (1928-2013) ha sottolineato che gli antropologi non sono dei semplici osservatori, ma sono degli “osservatori osservati”. Ciò vuol dire che mentre studiano gli altri, mentre li interrogano sulle loro abitudini, sul senso dei loro costumi, sono loro stessi, per primi, a essere studiati dai loro interlocutori: spesso, infatti, sono chiamati a rispondere a domande sulla loro cultura d’origine, sul motivo che li spinge a compiere le loro ricerche, sulle loro opinioni politiche o sulla loro fede religiosa.

L’antropologia culturale è dunque una disciplina intersoggettiva, ovvero non può prescindere dall’incontro fra due differenti soggettività storico-culturali, quella dell’antropologo e quella del suo interlocutore, che si parlano, si osservano e si interpretano reciprocamente.

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  esperienze attive

L’importanza della descrizione L’antropologo Clifford Geertz ha sottolineato l’importanza della descrizione in antropologia, ritenendola un’operazione non neutrale, ma influenzata sia dal soggetto descritto, sia dal punto di vista dell’osservatore. Partendo da questo presupposto, prova a raccontare in forma scritta una giornata di scuola (la stessa per tutta la classe), descrivendo i fatti accaduti, i gesti delle persone, l’ambiente, gli oggetti; oppure prova allo stesso modo a descrivere una celebrazione religiosa, per esempio una messa. Poi confronta le tue descrizioni con quelle dei tuoi compagni: sono simili o molto diverse? Perché?

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane