1. Città e antropologia

1. Città e antropologia

1.1 L’antropologia di fronte alla complessità

In questa unità ci occuperemo di alcuni sviluppi recenti dell’antropologia, emersi nella seconda metà del Novecento, un’epoca segnata da profondi cambiamenti storici e politici:

  • il processo di decolonizzazione, iniziato con la Seconda guerra mondiale e proseguito negli anni Settanta, che ha visto la graduale indipendenza politica, economica e tecnologica dei paesi dell’Africa, dell’Asia, dei territori dell’Oceania e dell’America centrale e meridionale dai paesi colonizzatori;
  • la fine della Guerra Fredda, un conflitto politico ed economico durato dal 1947 al 1975 che ha diviso il mondo in due blocchi principali, quello comunista dell’Unione Sovietica e quello capitalista degli Stati Uniti;
  • il crollo del muro di Berlino nel 1989, costruito nel 1961 in piena Guerra Fredda per dividere la Berlino Est (capitale della Germania comunista) dalla Berlino Ovest;
  • il crollo dell’Unione Sovietica, e del comunismo, nel 1991;
  • la diffusione come modello economico dominante del ▶ capitalismo neoliberista, affermatosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta, basato sull’apertura dei mercati e la libera circolazione di merci e capitale.

Questi processi sono alla base delle trasformazioni sociali, culturali, economiche e ambientali che caratterizzano il mondo contemporaneo, tra cui:

  • la globalizzazione;
  • il diffondersi di nuove tecnologie;
  • l’urbanizzazione su scala planetaria;
  • lo spostamento di massa di milioni di persone sia all’interno del proprio paese sia, soprattutto, oltre i confini nazionali;
  • l’aumento dei conflitti e delle diseguaglianze, e il loro inasprirsi a causa di catastrofi ambientali ed epidemie, quali per esempio la pandemia di SARS-CoV-2.

Questi fenomeni hanno messo in luce alcuni dei limiti degli approcci antropologici affermatisi durante la prima metà del Novecento, in particolare l’idea che fosse possibile studiare ogni cultura come un’entità ben delimitata, coerente al proprio interno, e associabile a “un” popolo e a “un” territorio specifici (come per esempio i Nuer del Sudan). Dagli anni Settanta in poi, un numero sempre maggiore di antropologi ha criticato questo approccio, mostrando come le culture siano sempre il frutto di incontri, scambi e rapporti provenienti da altri contesti culturali e come specifiche relazioni di potere permettano ad alcune culture dominanti – per dirla con le parole di Jean-Loup Amselle – di definire e «nominare» altre culture, le quali invece «hanno solo la capacità di essere nominate».

Questi processi di ▶ ibridazione culturale sono assai più frequenti al giorno d’oggi, con il fenomeno della globalizzazione.

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1.2 La globalizzazione

Spiegare che cos’è la globalizzazione è un compito molto difficile in quanto esistono varie definizioni a seconda della prospettiva adottata. Il termine si riferisce infatti a diversi fenomeni, tra cui:

  • l’interconnessione e l’interdipendenza tra persone, culture e luoghi a sempre maggiore distanza;
  • l’integrazione economica e finanziaria tra diversi paesi promossa dal capitalismo neoliberista;
  • il diffondersi di nuove tecnologie di trasporto e comunicazione;
  • la riorganizzazione e “compressione” del tempo e dello spazio per cui sia le persone sia le idee “viaggiano” in maniera più semplice e veloce.

Vi sono varie interpretazioni della globalizzazione. Se da un lato essa viene definita come il funzionamento crescente e accelerato delle reti economiche e culturali a livello globale, e quindi come una possibilità per i paesi di svilupparsi, dall’altro viene vista con scetticismo poiché non tutti beneficiano di tali flussi e crescite.

Gli antropologi guardano con interesse a queste interpretazioni della globalizzazione e, grazie ai loro metodi etnografici di immersione nella realtà quotidiana, dispongono di una prospettiva adatta a studiare quello che Arjun Appadurai ha definito il processo di costruzione della località, ovvero come le persone si sforzino di costruire, mantenere e (ri)definire la propria dimensione locale in un mondo sempre più globalizzato. Così facendo, la ricerca antropologica rimane focalizzata sull’impatto dei processi globali su individui e culture.

Esempio: consideriamo il film autobiografico Bangla (2019), del regista italiano Phaim Bhuiyan. Il protagonista è un giovane figlio di immigrati bengalesi nato e cresciuto a Roma, nel quartiere multietnico di Tor Pignattara. Phaim parla con accento romano, è un musulmano praticante, e si innamora di una ragazza bianca italiana: una scena del film lo ritrae a tavola con la sorella e i genitori che, a un certo punto, in un misto di italiano e bengalese, pronunciano queste parole: «Non dimenticarti mai da dove vieni, la tua cultura, la tua storia». Phaim, per tutta risposta, spiega come la sua vita non sia mai uscita dai confini del quartiere di “Torpigna”, che egli riconosce come il primo e più importante riferimento della sua identità.

Questo ironico scambio di battute dimostra come, anche in un mondo caratterizzato da migrazioni e interconnessioni su scala globale, i luoghi e le esperienze del quotidiano rimangano fondamentali per la costruzione di un senso di sé e di appartenenza a una o più comunità. Al tempo stesso, questi luoghi ed esperienze – la vita di Phaim, il quartiere di Tor Pignattara – sono intessuti da relazioni, fisiche, immaginate o virtuali, con luoghi e modelli culturali anche molto distanti.

Come suggerisce questo esempio, le città sono un terreno fondamentale per la messa a punto di nuovi metodi e approcci antropologici allo studio della ▶ complessità che caratterizza il mondo contemporaneo.

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1.3 La nascita dell’antropologia urbana

La città contemporanea ha rappresentato un terreno fondamentale per la messa a punto di nuovi metodi e approcci antropologici allo studio della complessità. A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, emerge dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa un nuovo filone di ricerca, noto come antropologia delle società complesse o antropologia urbana, volto ad analizzare nuovi ordini di problemi, quali:

  • la nascita e la rapida crescita delle città statunitensi;
  • le transizioni in atto nelle colonie ed ex colonie;
  • la radicale trasformazione dei rapporti tra città e campagna a seguito della migrazione massiccia di milioni di persone, soprattutto operai, verso i nuovi centri industriali europei;
  • le nuove dinamiche sociali e culturali della classe operaia residente nelle periferie disagiate e nelle ▶ città fabbrica in Francia e in Italia.

Ad accomunare queste ricerche è un nuovo oggetto di studio: la città, le cui caratteristiche sfidano i tradizionali metodi di osservazione e di rappresentazione dell’antropologia, basati sul contatto prolungato con piccole comunità culturalmente e geograficamente distanti.

Ma come si fa a entrare in empatia con una città di qualche milione di abitanti? Quali sono le unità minime di indagine? Dove comincia e dove finisce la descrizione etnografica? Queste e altre domande, qui sintetizzate dall’antropologo italiano Alberto Sobrero (n. 1949), hanno animato lo sviluppo dell’antropologia urbana fin dai suoi primi passi, all’epoca della nascita delle città industriali statunitensi.

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La città industriale

Tra i precursori di questo filone di studi vi sono gli studiosi della Scuola di Chicago, un gruppo di sociologi e antropologi guidati da Robert Park (1864-1944), direttore del Dipartimento di Sociologia dell’università di Chicago che, già negli anni Venti e Trenta del Novecento, avevano messo la città al centro di un nuovo e ambizioso programma di ricerca. Nel volume La città (1925), Park e colleghi scrivono che «gli stessi metodi di osservazione» che gli antropologi adottano «per lo studio della vita e dei costumi degli Indiani dell’America Settentrionale» possono essere adoperati per studiare «la vita e la cultura urbana» nelle sue «forme più varie», «ingegnose» e «complicate».

A quell’epoca, la città di Chicago stava attraversando una fase di vertiginosa crescita economica e demografica, sostenuta dall’arrivo di migliaia di immigrati che trovavano impiego nelle sue fabbriche e nei suoi macelli. Davanti agli occhi di Park e dei suoi colleghi si dispiegava la prima metropoli industriale americana, un crocevia di genti che si espandeva a macchia d’olio verso le campagne circostanti tramite la costruzione di nuovi quartieri prettamente residenziali. Per comprendere l’apparente complessità di questa città in rapida trasformazione, gli studiosi della Scuola di Chicago elaborano una prospettiva di ecologia urbana. Essi ipotizzano che, come in un ecosistema, all’interno delle città vengano a crearsi una serie di “aree naturaliconcentriche occupate da individui con interessi, occupazioni, valori e status sociali simili. Ciascun gruppo, a mano a mano che migliorano le sue condizioni economiche, tende a spostarsi dalle zone centrali, più disagiate, verso quelle più esterne, mentre la sua nicchia viene occupata dai nuovi arrivati.

Questo approccio, però, pecca di un eccessivo determinismo, poiché stabilisce una correlazione troppo rigida tra gli spazi e i comportamenti sociali e culturali di coloro che li abitano. Nonostante questi limiti, gli studiosi della Scuola di Chicago hanno saputo catturare, attraverso i metodi dell’osservazione partecipante e della descrizione etnografica, nuove realtà urbane e nuovi soggetti di studio, molti dei quali marginali, come i ghetti, i locali a luci rosse e i senzatetto. A questi studiosi va soprattutto riconosciuto il merito di aver delineato per la prima volta i contorni di un’antropologia “della città”, ovvero di un campo di studi che, come ha affermato Amalia Signorelli, non si limita a trattare la città come sfondo per la propria ricerca (la cosiddetta antropologia “nella città”), ma, al contrario, si interroga «sulla sua specificità come ambiente fisico: totalmente costruito e dunque totalmente umano».

Questa analisi è ancora più importante in un mondo altamente urbanizzato come quello contemporaneo.

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Le città coloniali

Le circostanze che hanno contribuito alla nascita dell’antropologia urbana nel contesto britannico sono assai diverse da quelle americane e legate a doppio filo con la situazione coloniale. Nel 1937, il Ministero britannico delle colonie fonda a Lusaka, nello Zambia, il Rhodes-Livingstone Institute, di cui entrano a far parte molti antropologi britannici. Anziché concentrarsi sulla vita rurale africana tradizionale, questi studiosi decidono di analizzare le trasformazioni in corso nei nuovi centri urbani che stavano sorgendo in Africa centrale e meridionale sotto la spinta dell’espansione coloniale. Queste città erano abitate, oltre che da coloni bianchi, da giovani appartenenti a diversi gruppi etnici e provenienti da villaggi anche molto lontani: pertanto, rappresentavano un elemento di rottura rispetto all’economia e ai modi di vita delle campagne circostanti.

Nel 1945, il secondo e più importante direttore dell’istituto, l’antropologo britannico-sudafricano Max Gluckman (1911-1975), elabora un programma di ricerca pluriennale, volto a documentare le trasformazioni in atto nella regione mineraria della Copperbelt tramite la raccolta di dati comparativi. Questi studi, pubblicati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, si contraddistinguono per l’esplorazione di nuovi metodi di ricerca e analisi nonché per l’attenzione a fenomeni come il conflitto e il mutamento (in inglese social change). Sotto questo aspetto, gli studiosi della Scuola di Manchester (chiamata così perché Gluckman si trasferisce all’università di Manchester e da lì continua a influenzare le attività dell’istituto) si distaccano dagli approcci funzionalisti e strutturalisti dominanti a quell’epoca, che mirano a studiare le società nel loro stato di “equilibrio”. Proprio in quegli anni, infatti, Claude Lévi-Strauss scrive che gli antropologi devono dedicarsi allo studio delle società fredde, caratterizzate da un maggior grado di equilibro e staticità; i loro metodi infatti non si adattano all’analisi delle società moderne o calde, tendenti al mutamento e maggiormente influenzate dal flusso degli eventi e della storia.

In un libro del 1964, Gluckman propone di oltrepassare l’idea (implicita nella distinzione operata da Lévi-Strauss e in altre teorie dell’epoca) per cui esisterebbero nella realtà società semplici e società complesse e che solo le prime si presterebbero a uno studio antropologico. Tutte le società appaiono complesse, fino a quando non si riesca a elaborare un modello conoscitivo che permetta di comprenderne i meccanismi principali. Quando si ha a che fare con contesti urbani di dimensioni estese, caratterizzati da un’alta densità ed eterogeneità, è importante dunque mettere in atto un processo di semplificazione, isolando una serie di aspetti o eventi interrelati che si prestino a essere studiati attraverso metodi etnografici. L’operazione più delicata è quella di circoscrivere il campo: a tal fine, gli studiosi della Scuola di Manchester utilizzano il metodo degli studi di caso (case studies), selezionando un singolo evento o una serie di eventi simili, ben delimitati nello spazio e nel tempo, la cui analisi serve poi a illuminare gli altri elementi del contesto sociale e urbano in questione.

Esempio: abbiamo già visto che Clyde Mitchell utilizzò il caso della danza kalela per comprendere come il tribalismo, un tipo di organizzazione sociale associato a un forte senso di appartenenza, che gli antropologi avevano osservato in ambiti rurali, continuasse a esistere anche nelle città, ma in una forma del tutto nuova e ricontestualizzata ▶ unità 9, p. 358 |.

A oggi, il metodo degli studi di caso rimane ampiamente utilizzato da molte scienze sociali, inclusa l’antropologia urbana, che spesso si serve di dati raccolti da altre discipline (come per esempio gli studi statistici sulla composizione demografica dei vari quartieri, o quelli storici ed economici) per decidere su quale contesto concentrare la propria ricerca etnografica e comprendere le relazioni che lo legano ad altri ambiti della città. Inoltre, si deve alla Scuola di Manchester l’elaborazione di una nuova prospettiva di analisi dell’organizzazione sociale. Essa è incentrata, anziché sui sistemi di parentela, come era tipico per l’antropologia britannica dell’epoca, sulle reti sociali (social networks), ovvero sui legami tra diversi individui all’interno di uno o più contesti specifici (per esempio città-campagna). Vedremo nel capitolo 3 come questo approccio analitico sia fondamentale negli studi antropologici della migrazione.

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1.4 Gli spazi urbani

Oltre alla migrazione nelle città, un altro dei temi centrali dell’antropologia urbana contemporanea è quello dei conflitti relativi agli usi e ai significati degli spazi urbani. Secondo una delle maggiori antropologhe urbane statunitensi, Setha M. Low ▶ L’AUtrice |, per comprenderne le dinamiche, è necessario studiare lo spazio urbano attraverso due prospettive complementari:

  • come produzione sociale (social production), cioè prodotto dagli attori e dalle forze sociali che contribuiscono a crearlo nel suo aspetto fisico tramite le politiche e i progetti intrapresi da amministratori, imprenditori, architetti ed enti di pianificazione;
  • come costruzione sociale (social construction), cioè costruito attraverso memorie, narrazioni condivise, incontri, scambi e usi quotidiani che contribuiscono a dargli un significato | ▶ APPROFONDIAMO |.

Spesso vi sono tensioni tra queste due forze, che si manifestano in conflitti e contestazioni circa gli usi e le rappresentazioni simboliche di un determinato spazio.

Esempio: Low offre l’esempio di Plaza de la Cultura, una piazza costruita nel 1973 a San José, nello Stato centroamericano del Costa Rica. Secondo la visione del governo, la piazza (uno spazio aperto progettato secondo criteri architettonici europei) doveva incarnare la nuova anima moderna e internazionale del paese e, al contempo, celebrarne la cultura indigena ospitando un museo di arte precolombiana. Low svolge la sua ricerca pochi anni dopo la costruzione della piazza, intervistando e osservando gruppi di frequentatori diversi per età, genere, provenienza ed estrazione sociale. Scopre così che sono soprattutto i turisti e i giovani a trovarsi più a loro agio in questo nuovo spazio urbano: i primi si affollano intorno alle bancarelle di souvenir e, a volte, vi ritornano la notte in cerca di incontri sessuali; i secondi lo vivono come uno spazio di aggregazione dove possono finalmente ascoltare musica importata dagli Usa e praticare la break dance. Altri residenti invece non frequentano volentieri la piazza, la trovano scomoda o addirittura pericolosa. Queste percezioni sono rafforzate dalle notizie che circolano sui media locali e dalla presenza costante di guardie in uniforme pronte a fermare chiunque possa causare disturbo, come i poveri che chiedono l’elemosina o i venditori sprovvisti di permesso regolare. Low ne conclude che, rispetto ad altre piazze storiche della città, Plaza de la Cultura è uno spazio prodotto per ospitare attività di consumo e intrattenimento e per servire gli interessi economici e culturali di un’élite internazionale. Ciò è confermato dal fatto che molti Josefinos preferiscono frequentare altre piazze della città e dalle narrazioni locali circa la presunta insicurezza e pericolosità di Plaza de la Cultura.

l’autRICe  Setha M. Low

Setha M. Low (n. 1948) è un’antropologa statunitense originaria di Los Angeles, California. Dopo essersi laureata in psicologia al Pitzer College, nel 1976 ottiene un dottorato in antropologia presso l’università della California, Berkeley, con una ricerca sulla città di San Josè, Costa Rica. Nei decenni successivi insegna antropologia e pianificazione urbana presso l’University of Pennsylvania, e si dedica a indagare le trasformazioni degli spazi metropolitani pubblici e privati svolgendo ricerche sulle piazze, i parchi pubblici e i quartieri fortificati soprattutto negli Stati Uniti. Al tempo stesso, acquisisce fama internazionale grazie alla pubblicazione di volumi che raccolgono i contributi di diverse discipline allo studio delle città e degli spazi urbani. Dal 1988 insegna psicologia ambientale e antropologia culturale alla City University di New York, dove dirige un gruppo di ricerca sugli spazi pubblici. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Theorizing the City (“Teorizzando la città”) del 1999, un testo chiave dell’antropologia urbana.

approfondiamo  Città e memoria

Quando attraversiamo uno spazio urbano siamo circondati visivamente da una serie di strutture fisiche alle quali ci relazioniamo in base alle nostre esperienze passate: le memorie si saldano ai luoghi creando delle geografie personali che plasmano il nostro senso di identità e di appartenenza. Ai luoghi però si legano anche dei ricordi che uniscono una collettività. Il filosofo e sociologo francese Maurice Halbwachs (1877-1945) sostiene che la memoria collettiva sia una rielaborazione continua delle memorie individuali, dove il passato viene ripescato e ricostruito in base alle esigenze della società del presente.

La memoria urbana è un modo di intendere la città come un insieme di oggetti e pratiche che incarnano il passato, lasciando una serie di tracce di epoche storiche differenti che rendono la specificità del luogo. Una città “ricorda” attraverso gli edifici, le statue, gli obelischi e i monumenti, un patrimonio culturale talvolta silente di cui i singoli si riappropriano in base alle contingenze del presente. Le pietre che calpestiamo, i nomi delle strade e delle piazze, le statue e i monumenti che ogni giorno vediamo (o ignoriamo) sono presenze di un passato che spesso nasconde storie tragiche di violenza e di colonialismo. I monumenti, i memoriali, le statue sono infatti messaggi celebrativi, esistono perché qualcuno ha voluto che certi personaggi venissero celebrati. L’abbattimento o l’imbrattamento delle statue, il cambio dei nomi delle strade sono dunque una forma di rifiuto di una rappresentazione storica che narra una visione del passato dal punto di vista del vincitore, del colonizzatore, legittimandolo.

Il 2020 ha visto una serie di proteste sulla scia del movimento Black Lives Matter, che hanno messo in discussione proprio questo passato coloniale, generando una serie di risposte locali in varie parti del mondo. In Italia, per esempio, l’imbrattamento della statua del giornalista Indro Montanelli (1909-2001) ha riacceso un dibattito sul passato coloniale italiano e sulla questione della rimozione della statua che celebra una figura ambigua della storia del Novecento italiano. Queste trasformazioni storico-politiche mostrano come la memoria sia una forza attiva nel presente, che viene usata dai singoli e dai gruppi per contestare, rivendicare e rivelare un passato che sembrava essere stato collettivamente rimosso.

  esperienze attive

Osservare un quartiere Scegli uno spazio o un quartiere della tua città che, nell’immaginario locale, è associato a forme di esclusione o differenza culturale, e vai a visitarlo. Osserva attentamente e annota su un taccuino vari dettagli dell’ambiente fisico e sociale: gli edifici, le strade, gli spazi e le persone che li occupano. Che cosa ti colpisce? Ci sono delle differenze tra il modo in cui quel luogo viene raccontato e come appare?

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1.5 Città fortezza e città informali

Negli ultimi decenni, gli antropologi hanno dedicato sempre più attenzione al tema della sicurezza in relazione agli spazi pubblici e privati delle metropoli contemporanee. Uno dei fenomeni più evidenti è quello delle città fortezza, ovvero la progressiva segregazione, privatizzazione e fortificazione (in senso moderno) dello spazio urbano prevalente di molte metropoli sia occidentali sia extraoccidentali. Tra i meccanismi responsabili di questo fenomeno vi sono:

  • la costruzione di condomini e quartieri fortificati (gated communities) circondati da sbarre, muri e cancelli, allo scopo di proteggere dai pericoli (reali o percepiti) della città;
  • il proliferare di sistemi di sorveglianza (telecamere, guardie private, forze dell’ordine e così via), allo scopo di monitorare usi e movimenti all’interno di un determinato spazio, spesso restringendo l’accesso a gruppi sociali indesiderati;
  • la secessione delle classi agiate, che abbandonano il centro città e i suoi spazi pubblici in favore di sobborghi, quartieri e spazi ricreativi privati.

Il modello per eccellenza della città fortezza è la metropoli californiana di Los Angeles, la cui natura postmoderna ha attirato l’attenzione di scrittori, studiosi e cineasti: basti pensare al film del 1989 Blade Runner. A differenza delle città industriali di epoca otto-novecentesca, Los Angeles non si caratterizza per un’alta densità abitativa: al contrario, è una città diffusa sul territorio e costituita da più centri. La maggior parte della vita pubblica degli abitanti di classe media e medio-alta si svolge in ambienti chiusi e raggiungibili solo in automobile come i centri commerciali, le ▶ città dormitorio, i quartieri fortificati e i parchi a tema, mentre le vie cittadine, i parchi e i trasporti pubblici sono occupati prevalentemente da poveri e minoranze etniche. Ciò aumenta il livello di effettiva segregazione sociale e spaziale tra gruppi diversi e rende ancora più pervasive e naturalizzate forme di discriminazioni quali il razzismo.

L’antropologa brasiliana Teresa Caldeira (n. 1954) ha ripreso queste riflessioni nel libro City of walls (“Città di muri”), pubblicato nel 2000, mostrando come anche la metropoli brasiliana di San Paolo stesse diventando una città di muri, dove barriere fisiche racchiudono spazi pubblici e privati (case, parchi, scuole, complessi residenziali e così via) e dove domina una logica della sicurezza e della sorveglianza.

Per gli scrittori e gli scienziati sociali di Ottocento e Novecento, l’atto di camminare in un luogo pubblico circondati da una folla di estranei rappresentava l’esperienza distintiva della vita urbana moderna. In città postmoderne come Los Angeles e San Paolo, strade, piazze e marciapiedi appaiono invece sempre più vuoti e inospitali. Secondo Caldeira, gli incontri che avvengono in questi «spazi pubblici [sono] sempre più tesi, perfino violenti, in quanto definiti dalle paure e dagli stereotipi della gente». Coloro che si spostano a piedi nei quartieri residenziali di San Paolo, ma anche delle città del Sud e Sud-Ovest degli Stati Uniti (specie se non bianchi) sono stigmatizzati: «separazione, discriminazione e sospetto sono i nuovi tratti caratteristici della vita pubblica».

Se il desiderio di sicurezza e di separazione da gruppi indesiderati è una delle forze che ha plasmato la forma delle città contemporanee, l’altra forza, per certi versi opposta e complementare, è quella dell’urbanizzazione periferica, da cui ha origine il fenomeno della città auto-costruita o città informale. Con questi termini, ci si riferisce a un modo di costruire la città prevalente soprattutto nelle metropoli del Sud del mondo (per esempio San Paolo, Delhi, Città del Messico, Jakarta), per cui sono i residenti stessi a costruire le proprie abitazioni e spesso anche i propri quartieri in modi che sfuggono a logiche istituzionalizzate di pianificazione urbana. Questo processo tende a essere associato a luoghi di estrema povertà e marginalizzazione sociale, come le cosiddette baraccopoli o le favelas brasiliane; in realtà vi sono molti tipi diversi di urbanizzazione informale, alcuni dei quali osservabili anche nelle città occidentali, come i quartieri di villette ed edilizia abusiva, o gli insediamenti dei migranti.

Gli antropologi hanno mostrato come gli spazi urbani auto-costruiti crescano a poco a poco, tramite una serie di modifiche, incrementi e improvvisazioni a partire dalle risorse e dai materiali disponibili (cartone, lamiere e così via); è per questo che appaiono sempre come incompleti. I loro abitanti non si limitano ad acquistare o consumare un prodotto finito (per esempio una casa): essi sono, anche da un punto di vista materiale, gli agenti del processo di urbanizzazione. Il fatto che questi insediamenti siano improvvisati o informali non significa però che non siano regolamentati: lo Stato è sempre presente nel permettere, anche tramite l’▶ inazione, la crescita di questi insediamenti, e spesso interviene a posteriori nel renderli legali e modificarli tramite l’aggiunta di servizi e infrastrutture.

  INVITO ALLA VISIONE 
Fritz Lang, METROPOLIS, 1927

Metropolis, film muto del regista austriaco Fritz Lang, è considerato il precursore dei moderni film di fantascienza. Il film è ambientato in una città del futuro (il 2026!), caratterizzata da un forte sviluppo tecnologico e da una netta contrapposizione tra la classe dei lavoratori, che vive nei sotterranei della città, e quella dei ricchi industriali, che abitano nei suoi moderni grattacieli. Il protagonista, figlio di un imprenditore-dittatore, scende per caso nel sottosuolo della città, dove scopre le condizioni disumane del lavoro nelle fabbriche, e si innamora di una giovane donna, Maria. Il film, con le sue scenografie futuristiche, offre una potente rappresentazione della modernità industriale e delle sue contraddizioni.

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per immagini

Il campo profughi di Zaatari

Questa è una foto del più grande campo profughi al mondo, il campo di Zaatari, in una zona semidesertica nel nord della Giordania. Nato nel 2012, ospita più di ottantamila persone in fuga dalla guerra in Siria. Doveva essere un luogo temporaneo, di passaggio, e invece, per densità di popolazione, è diventata la terza città della Giordania, con negozi, scuole, botteghe. Le abitazioni, da tende delle Nazioni Unite, sono diventate prefabbricati con interni rivestiti da lamine in legno. Il campo è diviso in dodici distretti, ognuno dei quali ha aree destinate a usi specifici, delimitate da barriere e filo spinato e controllate all’entrata. Osservate bene l’immagine: che cosa vi colpisce maggiormente? In che senso questa potrebbe essere definita una “città informale”?

per lo studio

1. Com’è nata l’antropologia urbana?

2. Che cos’è uno spazio urbano e come viene studiato?

3. In che cosa consistono le città fortezza e le città informali?


  Per discutere INSIEME 

I cambiamenti fisici e sociali delle città sono dovuti anche a un altro fenomeno, quello della gentrificazione, ovvero la trasformazione e rigenerazione di un quartiere popolare in una zona lussuosa, con la conseguenza di un cambiamento dei prezzi e della composizione demografica del quartiere. Cerca su Internet degli esempi di gentrificazione in Italia o nel mondo e osserva le foto del quartiere prima e dopo. Com’è cambiato il quartiere? Chi ci abita? Che problemi ha causato la gentrificazione? Discutine in classe con i tuoi compagni.

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane