3 - Il rapporto con Trieste

3 Il rapporto con Trieste

Una città mitteleuropea Come si è visto a proposito di Italo Svevo, Trieste tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è una città importante dal punto di vista sia commerciale sia culturale: luogo di incontro e di confronto tra popoli e mentalità diverse, centro di confine e dalle molte anime, ai margini delle tendenze intellettuali italiane ma caratterizzato da una notevole apertura internazionale. Qui vivono e scrivono autori come lo stesso Svevo (che appartiene alla generazione precedente a quella di Saba, avendo vent’anni più di lui) e, per un certo periodo, James Joyce.

Quella che si suole indicare come la dimensione “mitteleuropea” della città è un vivace clima culturale, a cavallo tra i due secoli, al quale portano il loro contributo scrittori e artisti austriaci, slovacchi, cechi, ungheresi, sloveni, di popoli cioè tra loro legati all'interno dell’Impero asburgico.

Il rapporto tra il poeta e la città Di tale temperie si alimenta, seppure indirettamente (per una sorta di resistenza psicologica il poeta non imparerà mai il tedesco), Umberto Saba. Trieste resta sempre per lui un punto di riferimento essenziale: i legami che lo avvincono a questa città sono talmente forti che può essere definita la “culla” della sua poesia; i luoghi – il porto, il molo, le viuzze della città vecchia, la zona collinare –, ma anche l’umanità – gli uomini, le ragazze, i ragazzi, la vita urbana – sono presenze fondamentali nei suoi versi. Una simbiosi così stretta tra autore e città appare un caso unico nella letteratura italiana del Novecento e si può semmai paragonare alle identificazioni ottocentesche di Porta con Milano o di Belli con Roma.

L’attaccamento a Trieste è motivato dalla vicenda biografica dell’autore, che vede la propria città natale come una sorta di “origine prima”, di mondo delle sicurezze, e quasi come una personificazione della madre. Radicata nella città, la sua poesia, anche quando ne esca (come, per esempio negli anni fiorentini), è sempre “autobiografia”.

Il luogo del “qui e ora” Trieste è, insieme, «inferno e paradiso», come dice il titolo di una prosa dello scrittore, nella quale leggiamo: «Trieste era, ai tempi della mia giovinezza, molte cose. Trieste è sempre stata un crogiuolo di razze. La città fu popolata da genti diverse. [...] Su questo trafficante amalgama di persone cose etnicamente diverse (vi sono, oggi ancora, triestini che hanno nel sangue dieci dodici sangui diversi; ed è questa una delle ragioni della “nevrosi” particolare dei suoi abitanti) la lingua e la cultura italiana fecero da cemento; s’imposero per un processo affatto spontaneo. Nessuno poteva, né può oggi, vivere e commerciare a Trieste senza conoscere l’italiano. Ma lingua e cultura a parte, Trieste fu sempre, per ragioni di “storia naturale” dalle quali le città come gli individui non possono evadere, una città cosmopolita. Era questo il suo pericolo, ma anche il suo fascino».

Tuttavia, anche se – come abbiamo visto in queste sue parole – Saba è in grado di cogliere e analizzare acutamente gli aspetti storico-culturali di Trieste, all’interno delle sue poesie (soprattutto nella sezione del Canzoniere intitolata Trieste e una donna, comprendente componimenti scritti tra il 1910 e il 1912, ma anche in molte altre parti dell'opera), la città viene vista soprattutto nei termini di «un universo autonomo di vita pulsante “qui e ora”» (Castellani), cioè come luogo tanto vicino all’istintualità vitale quanto lontano dalle vicende della grande Storia collettiva: come l’autore scrive in Storia e cronistoria del Canzoniere, «una città di traffici e non di vecchia cultura, varia di razze e di costumi».

Non a caso, nei suoi vagabondaggi per le vie di Trieste, il poeta sembra a volte dimenticare la propria sofferenza privata e immedesimarsi con le figure più reiette della città, con le quali stabilisce un rapporto di fraterna comunione: «Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede alla bottega / del friggitore, / [...] sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore» (Città vecchia).

 >> pagina 135 

T3

Trieste come la vide, un tempo, Saba

Nel 1957 la figlia di Saba, Linuccia, gli chiede un articolo (per la rivista romana “Rotosei”) in cui il poeta parli del suo rapporto con Trieste. L’autore risponde alla richiesta in un testo che illustra la propria particolare relazione con la città: una relazione complessa e niente affatto idilliaca.

Tra gli innumerevoli equivoci che mi hanno, in sede giornalistica, perseguitato per

tutta la vita, c’è stato anche quello di fare di me “il poeta di Trieste”; e tu1 sai benissimo 

che sono stato altra cosa [...]

In un breve discorso che ho tenuto, quattro anni fa, a Trieste, ho detto, fra

5      altro: «Prima di leggervi poche poesie su Trieste (poche per paura di stancarvi e di

stancarmi) devo premettere che io non sono stato un poeta triestino, ma un poeta

e uno scrittore italiano, nato, nel 1883, in quella grande città italiana che è Trieste.

Non so nemmeno se – dal punto di vista dell’igiene dell’anima – sia stato, per me,

un bene nascere, con un temperamento classico, in una città romantica; e con un

10    carattere (come quello di tutti i deboli) idillico, in una città drammatica. Fu un

bene (credo) per la mia poesia, che si alimentò anche di quel contrasto, e un male

per la mia – diciamo così – felicità di vivere... Comunque, il mondo io l’ho guardato 

da Trieste. Il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie

e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro,

15    e di Trieste non fanno nemmeno il nome. [...]

Pensiamo un momento Recanati e Leopardi. A parte il fatto che il Leopardi non

amava – almeno a parole – Recanati, e che io Trieste l’ho amata; tutto il paesaggio

e, probabilmente, tutto il modo di essere del Leopardi era senza alcun pregiudizio

della sua universalità, recanatese. Del resto, io non credo né alle parole né alle opere

20    degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra:

sono sempre opere e parole campate in aria».

Ma quella Trieste della quale ho parlato e cantato, non era la Trieste di oggi,

e nemmeno di ieri. La vita è – lo so troppo bene – movimento: ma, più ancora

delle guerre, delle rivoluzioni, delle persecuzioni, e di altri indicibili orrori (cose

25    che accaddero in tutti i tempi e in tutti i paesi) il nostro secolo aggiunse, di suo, la

velocità, una velocità spaventosa; alla quale l’uomo non era, in nessun modo, preparato.

Questa è stata, forse, la sventura più grande della quale ci abbia deliziato.

Hai appena superata un’ondata di mali, che un’altra ne sopraggiunge, più alta, più

minacciosa delle precedenti. Tanto, che ho sempre invidiato i poeti, gli scrittori,

30    gli artisti (gli uomini in generale) che hanno potuto chiudere gli occhi in una città

mutata sì, ma di poco, da quella che era stata al tempo della loro fanciullezza. Da

quando nacqui fino allo scoppio della prima guerra mondiale (ed anche più tardi)

Trieste era sempre quella veduta, conosciuta nell’infanzia, scoperta poi: una città


bella tra i monti

35    rocciosi e il mare luminoso. Mia

perché vi nacqui, più che d’altri mia,

che la scoprivo fanciullo, ed adulto

per sempre a Italia la sposai col canto.

I monti rocciosi, il mare luminoso sono rimasti; il resto... Forse il disastro incominciò 

40    con l’abbattimento (senza necessità assoluta) di città vecchia, che era,

fra altre venerabili2 cose (ivi inclusi i poveri ubbriachi che vedevi, il Sabato sera

– giornata per gli operai di paga – sbandare, col loro “libero arbitrio”, da un canto3 

all’altro delle sue viuzze ed androni: spettacolo che ti divertiva bambina, del

quale serbi ancora – a quanto mi hai detto – una specie di nostalgia) la parte più

45    incontestabilmente italiana della città. Quando tua madre ed io ci siamo sposati,

Trieste era, circa, quella che, per me, era sempre stata; e lo è ancora, ma solo in

sogni sognati ad occhi aperti, che cerco, per quanto possibile, di evitare, per la

paura che mi si trasformino (come quasi sempre avviene) in incubi. Ricordo le

passeggiate quotidiane che facevo con la tua – mia grande Lina. Si scendeva dalla

50    collina di Montebello, dove si abitava (tu non eri ancora nata) e si percorreva quasi

tutta Trieste. Il suo incanto maggiore stava nella sua varietà. Svoltare un angolo di

strada voleva dire cambiare continente. C’era l’Italia e il desiderio dell’Italia, c’era

l’Austria (mica poi tanto cattiva come si pensava), c’era l’Oriente, c’era il Levante

cui suoi mercanti in fez4 rosso, e molte altre cose ancora. Si finiva quasi sempre,

55    prima di rincasare, in una piccola pasticceria ebraica di città vecchia, una pasticceria 

più antica che vecchia e nella quale si confezionavano i dolci migliori che abbia

mai assaggiati, ed ai quali aveva sospirato invano la mia, già remota infanzia. (Mi

rifeci – non dubitare – più tardi.) E c’erano lì accanto, la casa dove abitava mia

madre; c’erano i negozietti di vestiti fatti, di mobili nuovi ed usati, che esponevano

60    (parlo dei primi) la loro merce appesa all’esterno delle botteghe, così che padroni,

padrone e commessi, dovevano continuamente vigilare, più che contro i ladri, contro 

i cani che, inconsci del pericolo, avevano malgrado il “libero arbitrio” la malaugurata 

tendenza di fiutare prima, poi di alzare trionfalmente la coscia sui lembi

pendenti delle stoffe esibite al passante. E, al tempo stesso, sia per compensare i

65    sullodati cani dei calci che ricevevano senza che potessero comprenderne il motivo

(ma il mondo e le leggi che lo governano appaiono ugualmente incomprensibili a

tutti, vuoi uomini, vuoi cani), sia perché allora si credeva che questi ultimi ammalassero 

d’idrofobia5 per sete, tenevano, fuori dell’uscio, una ciotola piena d’acqua,

rinnovata, l’estate, due volte al giorno. Automobili non ce n’erano (o assai rare); la

70    gente comune andava a piedi; i ricchi (ma non sempre) in carrozza, ad uno o a due

cavalli, alcune stemmate6 allo sportello e col servo in livrea7 a cassetta.8 Dio mio,

Linuccia, com’era bella allora tua madre! E come era bella, allora, la nostra città.

 >> pagina 137 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Inizialmente Saba nega di essere “il poeta di Trieste”(r. 2), come voleva un luogo comune critico e giornalistico che egli intende evidentemente smentire. Perciò afferma recisamente: io non sono stato un poeta triestino, ma un poeta e uno scrittore italiano, nato, nel 1883, in quella grande città italiana che è Trieste (rr. 6-7). In base a quanto spiega l’autore stesso, infatti, questa città possiede caratteristiche molto diverse da quelle della sua psicologia: Trieste è romantica (r. 9) e drammatica (r. 10), mentre il temperamento del poeta è classico (r. 9) e idillico (r. 10). E se tale disaccordo intimo con il luogo in cui si è trovato a nascere e a vivere gran parte dell’esistenza è stato fecondo per la poesia, si è rivelato un dato negativo per la sua felicità personale.

Eppure poco più avanti assistiamo a un ribaltamento della prospettiva: il testo prosegue infatti con un’esplicita dichiarazione d’amore nei confronti della città (io Trieste l’ho amata, r. 17) e con l’affermazione della necessità, per ogni scrittore, di un profondo radicamento nella propria terra (io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria, rr. 19-21).

Di fronte alle trasformazioni storiche della città (come l’abbattimento della sua parte vecchia), l’amore di Saba si trasforma in nostalgia: la Trieste di un tempo può essere soltanto rimpianta in sogni sognati ad occhi aperti (r. 46-47). Tuttavia sono sogni molto vividi, che restituiscono al lettore l’immagine fascinosa di una città ricca di Storia e di culture diverse (C’era l’Italia [...], c’era l’Austria [...], c’era l’Oriente, c’era il Levante, rr. 52-53), in cui il poeta si sentiva a proprio agio, nonché alcune istantanee della sua vita, come il racconto delle passeggiate quotidiane (r. 49) con la moglie Lina e la descrizione delle antiche botteghe che si potevano vedere lungo le vie. Finché, nell’ultima frase del brano, il profilo della città si confonde con quello di Lina, che era morta l’anno prima, dando luogo a un’unica immagine, forse quella della giovinezza ormai perduta per sempre: Dio mio, Linuccia, com'era bella allora tua madre! E come era bella, allora, la nostra città! (rr. 71-72).

Le scelte stilistiche

Il testo è un articolo giornalistico approntato su richiesta per una rivista, ma la sua tessitura è ordita su più livelli. Innanzitutto la forma è quella di una lettera indirizzata alla figlia Linuccia (l’incipit, che non abbiamo riportato nel brano, recita canonicamente Mia cara Linuccia ecc.), al quale il poeta si rivolge con la seconda persona (tu sai benissimo ecc. rr.2-3). C’è poi la trattazione saggistica del tema assegnatogli (il proprio rapporto con Trieste), ma anche una lunga auto-citazione attraverso l’inserimento di parte di un documento cronologicamente precedente, un discorso tenuto alcuni anni prima al Circolo della cultura e delle arti di Trieste.

Tale stratificazione compositiva è forse il segnale di un’impossibilità di trattare l’argomento in maniera immediata, spontanea, diretta, e quindi di un profondo disagio che Saba prova nel ripercorrere una materia complessa come la sua personale relazione con la città d’origine, tanto che, nella lettera del 21 febbraio 1957 con cui invia il testo a Linuccia, confessa: «L’ho scritto [...] in forma di lettera a te: altrimenti non avrei saputo. E, per stenderlo, ho dovuto aiutarmi con – oltre il resto – una bottiglia di cognac». È il segno che approcciarsi a un luogo così denso di memorie e di ricordi brucianti rappresenta per Saba un’operazione tutt’altro che indolore.

 >> pagina 138 

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 In che cosa consiste il contrasto profondo tra Saba e Trieste? E perché, al tempo stesso, il poeta non può fare a meno di amare la sua città?


2 Che cosa unisce Saba a Leopardi?


3 Come valuta Saba la velocità spaventosa (r. 26) che caratterizza l’età contemporanea?

  • a Come un fatto inevitabile e tutto sommato positivo.
  • b Come una risorsa da sfruttare.
  • c Come un elemento che unisce tra loro i diversi Paesi del mondo
  • d Come un fenomeno negativo.

ANALIZZARE

4 Rintraccia nel testo i punti in cui l’autore si rivolge direttamente alla figlia Linuccia. Quale effetto ottiene tale scelta retorica?

INTERPRETARE

5 Per quale ragione, secondo te, l’autore scrive – al passato – io Trieste l’ho amata (r. 17)?


6 Perché i sogni sognati ad occhi aperti (r. 47) della Trieste del passato rischiano di trasformarsi per Saba in incubi (r. 48)?

Produrre

7 Scrivere per raccontare. Descrivi il rapporto con il luogo in cui vivi attraverso il racconto di un particolare aspetto o situazione (circa 40 righe).

I grandi temi di Saba

1 La concezione della poesia


 la «poesia onesta», intesa come impegno di sincerità e «chiarezza interiore»

 il recupero della tradizione lirica italiana: Dante, Petrarca, Leopardi

 l’aspirazione alla semplicità: adesione alla vita e rappresentazione realistica

 la predilezione per le parole comuni e le rime “facili”

 la distanza dalla “poesia pura” di derivazione simbolista e l’“antinovecentismo”

2 Autobiografismo e confessione


 letteratura come autocoscienza: la tensione verso la «chiarezza interiore»

 la psicanalisi come terapia e come strumento di conoscenza dell’animo umano

 l’esigenza di confessione “integrale” nel romanzo Ernesto

3 Il rapporto con Trieste

 simbiosi con Trieste, città di confine e di apertura culturale

 città come personificazione della madre

 luogo di vagabondaggi guidati dall'istinto

Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi