T4 - La Prefazione e il Preambolo

T4

La Prefazione e il Preambolo

Capp. 1-2

Presentiamo le pagine iniziali del romanzo costituite da una Prefazione e da un Preambolo:nella prima a parlare è il dottor S., il medico-psicanalista che ha convinto Zeno ascrivere su un quaderno i suoi ricordi, mentre nel secondo prende la parola lo stessoZeno, il quale, su incarico del dottore, si accinge a ripercorrere la propria vita.

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Audiolettura

1. Prefazione

Io sono il dottore di cui in questa novella1 si parla talvolta con parole poco lusinghiere.

Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi

dedica.2

5      Di psico-analisi non parlerò perché qui entro3 se ne parla già a sufficienza.

Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli

studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed

io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia

fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona

10    perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato

sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto4 della mia lunga

paziente analisi di queste memorie.

Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto

di dividere con lui i lauti onorarii5 che ricaverò da questa pubblicazione a patto

15    egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese

potrebbero risultargli dal commento6 delle tante verità e bugie ch’egli ha qui

accumulate!…


Dottor S.

2. Preambolo

20    Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri7 me ne separano e i miei occhi presbiti

forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da

ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.

Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le

cose recenti sono preziose per essi8 e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della

25    notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab

ovo,9 appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia

Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi.

Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.10

Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club,11 ho la matita e

30    un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai

ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa…

ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito

di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola

è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.

35    Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più

profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione

di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata,

perduta per sempre.

Mercé la matita12 che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle

40    immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una

locomotiva13 che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà

donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!

Nel dormiveglia ricordo che il mio testo14 asserisce che con questo sistema si

può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo15 un bambino

45    in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia

invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere

quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero

bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare

te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza

50    e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi

mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto,

inconscio,16 vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere

e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto

anche da coloro che non lo vorrebbero.17 Come fare? È impossibile tutelare la tua

55    culla. Nel tuo seno – fantolino!18 – si va facendo una combinazione misteriosa.19

Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono

per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei

consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche

essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.20

60    Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno.21 Ritenterò 

domani.

 >> pagina 604 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Nella Prefazione il dottor S. si presenta ai lettori definendo il manoscritto di Zeno una novella (r. 2). Con questo termine intende, all’inglese, “romanzo”, ma forse in esso c’è una punta di polemica del medico nei confronti del paziente e della tendenza di quest’ultimo a non dire la verità, a fingere, a nascondersi: come a dire che il manoscritto non è una cosa seria. Di per sé, la presenza di questo narratore di primo grado che interviene nell’incipit del romanzo rende il vero protagonista, Zeno, privo di credibilità e di centralità all’interno dell’opera, ponendosi al tempo stesso quasi come un suo antagonista che agisce in modo vendicativo, mostrando irascibilità e supponenza. Ora, dopo la sua nota introduttiva, tutto ciò che il paziente racconterà nel corso del romanzo perderà, agli occhi del lettore, ogni carattere di oggettività, acquistando al contrario un costante valore di finzione e ambiguità.

La cura psicanalitica si basa sul colloquio medico-paziente: soltanto attraverso questo metodo il paziente è portato a razionalizzare i propri traumi, giungendo così a comprenderne l’origine remota. Invece il dottor S. ha spinto Zeno a una sorta di autoanalisi, abbandonandolo a sé stesso e alla stesura del manoscritto. Ciò va contro qualsiasi metodo di cura. E a poco serve che il dottore si giustifichi sostenendo che la scrittura delle memorie da parte di Zeno era soltanto il preludio (r. 9) alla terapia vera e propria: la sua scelta appare comunque decisamente poco professionale. D’altra parte, anche il fatto che egli abbia deciso di pubblicare il testo di Zeno per vendetta (r. 13) stride fortemente con l’etica professionale del medico, che deve preservare, prima di tutto, la riservatezza dei dati relativi al paziente.
Da parte sua, Zeno manifesta subito una certa diffidenza nei confronti della terapia che si accinge a intraprendere e in generale verso le presunte sicurezze della scienza (l’interrogativa iniziale Vedere la mia infanzia?, r. 20, suona come un amaro sberleffo). Alla richiesta del dottor S. di ricostruire la sua vita a partire dai primi ricordi, egli sottolinea la propria perplessità in merito alla possibilità di riuscirci: sono passati tanti anni e la sua memoria non è così pronta. I suoi occhi sono presbiti (r. 20), quindi dovrebbero vedere meglio le cose lontane che quelle vicine, ma tra il passato e il presente si frappongono come vere alte montagne (r. 22) le esperienze pregresse, fatti ed emozioni della durata di anni o anche solo di qualche ora. In quest’ultima notazione troviamo, implicitamente, un concetto importante su cui si basa la narrativa novecentesca, cioè l’idea per la quale a contare non è tanto l’estensione cronologica oggettivamente misurabile delle esperienze vissute, bensì il rilievo soggettivo che esse hanno assunto nella psiche individuale: per questa ragione eventi che hanno avuto la durata di anni possono essere meno significativi di altri accaduti in poche ore.

Zeno cerca di ricordare la propria infanzia, ma con scarso successo: all’immagine di sé stesso bambino si sovrappone quella di un nipotino nato da poco. Da qui si sviluppano alcuni pensieri sull’infanzia, la cui immagine tradizionale e idealizzante è stata demitizzata dalla teoria freudiana. Quest’ultima ha infatti svelato i meccanismi legati alla vita sessuale inconscia dei più piccoli: concetti ripresi in questa pagina sveviana.

Va detto che il protagonista non si sofferma molto sugli eventi dell’infanzia, e ciò mostra, da parte di Svevo, un’adesione parziale ai princìpi della psicanalisi; anzi, il suo atteggiamento sembra piuttosto polemico. L’idea che l’uomo adulto “derivi” totalmente dalle esperienze infantili è investita dalla tipica ironia del narratore, come possiamo dedurre dall’apostrofe* di Zeno al proprio nipotino: Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute (rr. 47-50).

 >> pagina 605 

Le scelte stilistiche

Nel presentare il manoscritto di Zeno come un insieme di tante verità e bugie (r. 16), il narratore di primo grado, cioè il dottor S., mette in discussione la verità di tutto ciò che da qui in poi il lettore troverà scritto nel romanzo: in tal modo la voce di Zeno viene presentata come quella di un “narratore inattendibile”. Si tratta di un modo di tradurre sul piano delle strutture narrative la sfiducia nella possibilità di una rappresentazione obiettiva del reale tipica delle poetiche postnaturaliste.

Il Preambolo è scandito su due distinti piani temporali: quello del presente, in cui si colloca l’atto della scrittura, e quello del passato, ai cui accadimenti le memorie faranno riferimento. Il tempo della scrittura e il tempo del ricordo continueranno a intrecciarsi e a contrapporsi in tutto il romanzo.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Per quale motivo Zeno ha cominciato a scrivere la propria autobiografia?


2 Perché il dottor S. afferma di essere disposto a dividere i guadagni con Zeno per aver diffuso il testo senza il suo permesso?

Analizzare

3 Qual è l’operazione che nel Preambolo Zeno racconta di aver cercato di fare per ottemperare alle richieste del dottor S.? Tale operazione gli risulta facile oppure difficile? Perché?


4 Che cosa accade quando Zeno cerca di abbandonarsi al ricordo? Con che tono è narrato l’episodio?


5 Individua nel testo i riferimenti alla teoria freudiana del piacere.


6 Quale idea ha Zeno dell’infanzia?

Interpretare

7 Ti sembra che Zeno prenda seriamente la psicanalisi? perché?


8 Date queste premesse, pensi che Zeno – nel seguito del romanzo, – potrà essere un narratore attendibile delle proprie vicende?

T5

Il vizio del fumo e le «ultime sigarette»

Cap. 3

Il fumo è una specie di sintomo “riassuntivo” della malattia di Zeno, che invano tenta dirinunciare a questo vizio. Esso rappresenta la sua tendenza a restare sempre al di quadelle decisioni, ad appagarsi del piacere derivante dai buoni propositi senza mai passarealla fase concreta del dovere. Il vero male che lo attanaglia non è dunque tanto lasigaretta in sé, ma la nevrosi causata dal proposito di smettere e dall’incapacità di farlo.

Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica

della mia propensione al fumo:

«Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero».

Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz’andar a sognare su

5      quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l’assistenza delle sigarette tutte

tanto somiglianti a quella che ho in mano.

Oggi scopro subito qualche cosa che più non ricordavo. Le prime sigarette ch’io

fumai non esistono più in commercio. Intorno al ’70 se ne avevano in Austria di

quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell’aquila

10    bicipite.1 Ecco: attorno a una di quelle scatole s’aggruppano2 subito varie persone

con qualche loro tratto,3 sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però

a commovermi per l’impensato incontro.4 Tento di ottenere di più e vado alla

poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi

deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.

15    Una delle figure, dalla voce un po’ roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa

mia età, e l’altra, mio fratello, di un anno di me più giovine e morto tanti anni

or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di

quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di più a mio fratello che a me. Donde

la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Così avvenne che

20    rubai. D’estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto

nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti

per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l’altra le dieci sigarette

che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto.

Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché

25    non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine

della sozza5 abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare,

accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.

Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano.

Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà

30    che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che

m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni

alla matematica o alla sartoria e non s’avvide che avevo le dita nel taschino

del suo panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza

quand’essa non esisteva più, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè…

35    rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia6

fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli

via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca,7 Catina, li buttasse

via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all’atto d’impadronirmene venivo pervaso

da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m’avrebbero procurato. Poi li

40    fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco

si contorcesse. Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.

So perfettamente come mio padre mi guarì anche di quest’abitudine. Un giorno

d’estate ero ritornato a casa da un’escursione scolastica, stanco e bagnato di

sudore. Mia madre m’aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio,

45    m’aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa sedette occupata a certo

lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia8 pieni di sole

e tardavo a perdere i sensi.9 La dolcezza che in quell’età s’accompagna al riposo

dopo una grande stanchezza, m’è evidente come un’immagine a sé, tanto evidente

come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che più non esiste.10

50    Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che ora, in

questi tempi avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena mio fratello

non appare, ciò che mi sorprende perché penso ch’egli pur deve aver preso parte

a quell’escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia dormito

anche lui all’altro capo del grande sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto.

55    Non vedo che me, la dolcezza del riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui

sento echeggiare le parole. Egli era entrato e non m’aveva subito visto perché ad

alta voce chiamò:

«Maria!».

La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale11 accennò a

60    me, ch’essa credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi

piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi mossi.

Mio padre con voce bassa si lamentò:

«Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz’ora fa su

quell’armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo più. Sto peggio del solito. Le

65    cose mi sfuggono».

Pure a voce bassa, ma che tradiva un’ilarità12 trattenuta solo dalla paura di destarmi,

mia madre rispose:

«Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza».

Mio padre mormorò:

70    «È perché lo so anch’io, che mi pare di diventar matto!».

Si volse ed uscì.

Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s’era rimessa al suo lavoro,

ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse per ammattire

per sorridere così delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo

75    ricordai subito13 ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie.

Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio

vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo.

Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito

da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz’ora in

80    una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria

altro che la puerilità14 del vestito: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché

dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo

vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente

celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all’aria.

85    Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della

vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:

«A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m’occorre».

Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch’essa che a me

doveva essere rivolta in quel momento.

90    Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato

in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi

a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato

da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fumo.

Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì. Un vuoto grande e niente

95    per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.

Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni)

con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia.

Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante,

mi disse:

100 «Non fumare, veh!».

Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò

mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta». Accesi una sigaretta e mi sentii

subito liberato dall’inquietudine ad onta che15 la febbre forse aumentasse e che ad

ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone

105 ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto.16

E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio

padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:

«Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!».

Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto,

110 per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo

ad allontanarsi prima.

Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi

dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di

non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda17

115 delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia.18 Meno violento

è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza.

Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche

tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime.

Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella

120 scrittura e qualche ornato:

«Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima

sigaretta!!».

Era un’ultima sigaretta19 molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono.

M’ero arrabbiato col diritto canonico20 che mi pareva tanto lontano

125 dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio.21

Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche

manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.22

Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio23 cui non credevo ritornai

alla legge.24 Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima

130 sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e

mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo25 coi

migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato

poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come

avrei potuto averla quando26 continuavo a fumare come un turco?

135 Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse

abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia

incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte

che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo

comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.27 Io avanzo

140 tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione.

Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo

tuttavia28 da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano

oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni,29 vorrei

morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?

145 Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a

mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente

lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni

propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.

Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre

150 hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore

dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di

forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta

la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano.

Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche

155 ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata

espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al

proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle

cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre

la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del 1899».

160 Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali:

«Primo giorno del primo mese del 1901». Ancor oggi mi pare che se quella data

potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.

Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna

di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve

165 contenesse un imperativo supremamente categorico,30 la seguente: «Terzo giorno

del sesto mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.31

L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese

per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data

per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate su libri o quadri

170 preferiti, spiccano per la loro deformità.32 Per esempio il terzo giorno del secondo

mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola

cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX33 alla

nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito.

Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e

175 tristi nostri e mi credono tanto buono!

Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla

malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!».

Ma dove va l’atteggiamento se si tiene34 la promessa? L’atteggiamento non è possibile

di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me,

180 non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.

 >> pagina 610 

Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

Un tratto che connota il carattere di Zeno è senza dubbio la sua debolezza psicologica, che si esprime nella mancanza di volontà. È sintomatica in tal senso la sua incapacità di smettere di fumare. Paradossalmente il vizio si radica ancora di più in lui nel momento in cui il fumo gli viene espressamente vietato dal medico, in concomitanza con una seria infiammazione delle vie respiratorie. Come accadeva già al protagonista in età infantile, la proibizione eccita il gusto della trasgressione, in base a una dinamica psicologica piuttosto facile da decodificare: il desiderio di smettere di fumare accresce il piacere mediante l’emozione suscitata dall’infrazione del divieto, sempre disatteso e continuamente riproposto, come in un circolo vizioso di false promesse puntualmente non mantenute.

Il fumo, inoltre, diventa quasi un alibi per non impegnarsi seriamente in un concreto programma di vita (un preciso percorso di studi e una professione determinata). Soltanto ora, al momento della scrittura del diario, Zeno ne prende finalmente coscienza: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? (rr. 135-137). Non a caso, al vizio sono associati vocaboli negativi quali disgusto (rr. 30 e 79), sozza abitudine (r. 26), colpa (r. 136): eppure ciò non spinge il protagonista a un cambiamento delle proprie abitudini, bensì soltanto a una autoironica indulgenza verso sé stesso e i suoi limiti irrimediabili. Il senso di colpa provato per le proprie inadeguatezze non sfocia insomma in atti concreti capaci di sfidare le pulsioni dell’inconscio: l’unica risorsa a disposizione di Zeno – e ciò che lo distingue dagli altri personaggi sveviani – è la consapevolezza della propria inettitudine e dell’impossibilità di vincerla.


1 Quali trasgressioni compie il giovane Zeno per riuscire a fumare?


2 Perché l’“ultima sigaretta” è così speciale?


3 Perché le date sono tanto importanti per Zeno?

Soffermiamoci sulla scena di raccolta intimità domestica in cui si colloca il ricordo di Zeno bambino. Il padre crede di ammattire, non sapendo raccapezzarsi di fronte alla continua sparizione dei suoi sigari. La moglie sorride dinanzi alle sue paure e questo sorriso della madre rimane impresso in Zeno, che se ne ricorderà da adulto. Il protagonista scrive infatti a un certo punto, in una breve prolessi: Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie (rr. 74-75).

Si può dire che in tutto il romanzo le figure femminili – qui la madre e la moglie di Zeno – rappresentano un costante richiamo alla concretezza della vita, verso la quale esprimono un atteggiamento diverso rispetto a quello, spesso nevrotico, delle loro controparti maschili: la donna ha la capacità di rasserenare l’uomo, di ricondurlo alla tranquillità interiore, di farlo uscire dal gorgo dei pensieri fissi e ossessivi.


4 In che modo la madre di Zeno si era occupata di lui al rientro da un’escursione scolastica?


5 Quale termine ricorrente descrive lo stato d’animo con cui il protagonista rievoca l’episodio?

 >> pagina 611 

Le scelte stilistiche

Il romanzo del Novecento si caratterizza per una nuova concezione del tempo, che qui troviamo bene espressa nelle ultime due frasi del brano. Scrive Zeno nel suo diario: il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna (rr. 179-180). Il tempo, in altre parole, non ha un andamento lineare e univoco, e non è vero che il suo flusso non possa arrestarsi. Esso, al contrario, può essere fissato nella memoria attraverso i ricordi personali e in tal modo “ritornare” al soggetto. C’è infatti un tempo “esterno”, misurabile in anni, mesi e giorni, e un tempo “interno”, la cui estensione si valuta in base alla maggiore o minore intensità con cui gli eventi sono percepiti dal soggetto.

Zeno afferma che questa possibilità di un “ritorno” del tempo è un suo speciale privilegio (solo da me), ma va detto che in realtà essa è condivisa da molti personaggi dei romanzi contemporanei, per i quali il passato e il presente convivono in quello che viene chiamato “tempo misto”. Nella Coscienza di Zeno tale tempo misto si esprime nel continuo intersecarsi tra i diversi piani temporali della narrazione mediante le libere associazioni che si sviluppano senza seguire un filologico e in modo oscuro nella mente e nella “coscienza” del protagonista (che infatti sceglie un particolare qualsiasi per iniziare la stesura del memoriale: Non so come cominciare, r. 5). Attraverso questo rinnovamento del tempo narrativo, sembra disgregarsi la trama tradizionale con il suo ordine cronologico. Il tempo non viene più inteso, come avveniva nel romanzo realista e naturalista, come un fenomeno oggettivo, ma è filtrato dalla percezione che ne hanno i personaggi.


6 Quando Zeno rievoca l’episodio della gara di sigarette, descrivendo i suoi compagni scrive: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò (rr. 81-82). Che cosa significa questa frase? Come spieghi l’alternanza di tempi verbali?


7 Che differenza c’è tra i propositi del giovane Zeno e quelli di Zeno anziano?


8 Scrivere per esporre. La malattia di Zeno rimanda a un insieme di acquisizioni scientifiche e filosofiche proprie della sua epoca. Svolgi una ricerca sullo stato della medicina agli inizi del XX secolo e raccogli i risultati in un testo espositivo di circa 30 righe.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Volti e luoghi della letteratura - volume 3A
Dal secondo Ottocento al primo Novecento