Il piacere o la necessità di fingere
Tuttavia, anche in secoli successivi accade spesso che l’autore si diverta a eclissarsi, riservandosi lo spazio solo «per indicare i limiti della propria responsabilità e precisare le proprie competenze: raccontando in quali circostanze abbia ritrovato quell’opera (tradizionalmente manoscritta) e come, ritenutala meritevole di pubblicazione, l’abbia approntata per le stampe» (Farnetti). Per non sembrare falso, attribuisce così a un altro la paternità della propria scrittura, raccontando però una menzogna più grande, che rinnova quel sottile sentimento di inimicizia che di frequente separa la letteratura e la realtà.
Così troviamo tutta una serie infinita di alter ego, di testi fittizi e improbabili riscritture, come, all’inizio del Seicento, il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes o come, nella seconda metà del Settecento, il cosiddetto «ciclo di Ossian», il leggendario bardo scozzese, eroe di antichi manoscritti, che James Macpherson (1736-1796), facendo finta di tradurre, inventa di sana pianta.
Proprio nel XVIII secolo la mistificazione è spesso necessaria: vi ricorrono polemisti che per difendersi da censure e inquisizioni politiche mettono in campo il loro ingegnoso inventario di anagrammi, nomi d’arte e semplici iniziali. Né gli scrittori romantici sono da meno, a partire dal loro “padre spirituale”: la pubblicazione delle epistole di un suicida idealista è infatti lo stratagemma adottato da Ugo Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1796-1817), pur sempre un modo di parlare di sé stessi fingendo di essere altri.