GEOOGGI - L’EUROSCETTICISMO E LA BREXIT

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L’EUROSCETTICISMO E LA BREXIT

Negli ultimi anni l’Unione Europea si è ritrovata ad affrontare situazioni complicate, come l’emergenza migranti, le conseguenze della crisi economica mondiale e i disaccordi tra i governi dei vari Stati membri in merito alla cessione della sovranità e al futuro assetto politico dell’UE. Queste difficoltà hanno fatto crescere tra la popolazione di alcuni Stati posizioni critiche e talvolta sentimenti ostili nei confronti del processo di integrazione europeo e delle istituzioni dell’UE, e alcuni movimenti e partiti politici, definiti “euroscettici”, li hanno fatti propri.

EUROSCETTICI E ANTIEUROPEISTI

In realtà sotto l’etichetta di “euroscetticismo” sono riuniti movimenti e gruppi che hanno posizioni e obiettivi diversi. Alcuni, gli euroscettici propriamente detti, non criticano il processo di integrazione europea di per sé, ma solo le attuali politiche delle istituzioni europee e la stessa forma che l’UE ha assunto nel corso del tempo.

Una delle obiezioni più frequenti mosse al ruolo assunto negli ultimi anni dall’UE è che le sue istituzioni si preoccuperebbero quasi esclusivamente di economia, facendosi assorbire dal controllo dei bilanci dei singoli Stati membri e trascurando invece argomenti più importanti e vicini ai cittadini, come la tutela delle identità e delle specificità dei singoli popoli.

Altri movimenti si possono invece definire più che “euroscettici” addirittura “antieuropeisti”, convinti cioè che l’UE sia un esperimento fallito e da dimenticare. Questi partiti si battono per l’organizzazione di referendum attraverso cui i cittadini dei vari Stati europei dovrebbero esprimersi per l’abbandono dell’euro da parte dei loro Paesi, o addirittura per l’uscita dall’UE.

IL REFERENDUM

Il 23 giugno 2016 in un referendum indetto dal Governo britannico, la maggioranza dei cittadini del Regno Unito si è espressa a favore dell’uscita del Paese dall’UE. Era però già da alcuni anni che nel Pae­se era cresciuto il sentimento euroscettico, e avevano guadagnato consensi i movimenti e i partiti politici antieuropeisti, primo tra tutti l’UKIP (United Kingdom Independence Party, Partito dell’Indipendenza del Regno Unito), che spingevano per un’uscita completa del Regno Unito dall’UE, detta anche Brexit, dalla fusione delle parole british ed exit, cioè “uscita britannica”.

Per i sostenitori della Brexit l’appartenenza all’UE rappresentava più un peso che un vantaggio per il Regno Unito. Secondo il loro punto di vista, le innumerevoli e complicate regole europee in campo economico avrebbero messo in crisi settori tradizionali dell’economia britannica come l’agricoltura, la pesca e l’industria. Inoltre, le norme che garantiscono ai cittadini europei la libertà di movimento e di lavoro in tutti i Paesi dell’UE avrebbero provocato un’“invasione” di lavoratori stranieri nel Regno Unito, i quali avrebbero sottratto lavoro ai cittadini britannici. In risposta alle pressioni di questa parte della popolazione, l’allora Primo Ministro inglese David Cameron, che era favorevole a restare nell’UE, aveva deciso nel 2015 di indire un referendum per chiedere direttamente ai cittadini britannici se lasciare l’UE o rimanervi.

UN RISULTATO INASPETTATO

Il risultato del referendum del giugno 2016 ha colto tutti di sorpresa: il 51,9% ha votato per lasciare l’UE (leave), e Cameron, che invece si era schierato apertamente per rimanere nell’UE (remain), si è dimesso poche settimane dopo.

Non era mai capitato prima di allora che un Paese membro decidesse di uscire dall’UE. Nel 2017 sono quindi state avviate le complicate procedure per rinegoziare tutti i trattati che legano il Regno Unito all’Unione.

Il risultato del referendum ha però gettato nel panico una parte dell’economia e della finanza britanniche, che teme di rimanere isolata e di perdere i vantaggi derivati dall’integrazione con il resto dei mercati europei.

Alcune grandi aziende con base nel Regno Unito hanno per esempio trasferito la propria sede legale e fiscale in altri Paesi dell’UE per continuare a operare senza problemi nel mercato comune.

L’USCITA BRITANNICA

Per due anni sono state condotte lunghe e infruttuose trattative fra il Governo britannico, guidato da Theresa Maye i vertici dell’UE. La Brexit è stata così più volte rimandata, anche a causa dell’incapacità del Parlamento inglese di trovare un’intesa fra tutti i partiti sui termini dell’accordo da stipulare con l’Unione. Nemmeno dopo le dimissioni di May, nel luglio 2019, e la nomina a Primo Ministro di Boris Johnson, nuovo leader del partito conservatore, si è riusciti a trovare una soluzione. Per risolvere la situazione si è deciso quindi di indire nuove elezioni generali, che si sono tenute il 12 dicembre 2019 e che sono state vinte dal Primo Ministro in carica: forte di una larga maggioranza nel nuovo Parlamento, Johnson, da sempre favorevole alla Brexit, è riuscito a far uscire il Regno Unito dall’Unione nel gennaio 2020.

Geo2030 - volume 2
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