L’imperatore pacifico di Marguerite Yourcenar

L’imperatore pacifico


di Marguerite Yourcenar (autrice francese del XX sec.)

Il brano è tratto da Memorie di Adriano, un romanzo scritto in forma di una lunga lettera che Adriano (imperatore romano dal 117) scrive a Marco Aurelio, suo nipote adottivo e futuro imperatore.
Adriano, ormai anziano e ammalato, sente avvicinarsi la morte e riflette sulla sua vita. In questo brano racconta le sue prime mosse da imperatore di un regno vasto e irrequieto.

L’impero che avevo ereditato somigliava a un uomo ancora robusto, nel quale però l’occhio del medico scorge indizi impercettibili di logorìo, come chi è appena uscito da una malattia grave.

Iniziai dei nuovi negoziati di pace e feci diffondere per ogni dove [ovunque] la voce che lo stesso imperatore Traiano mi avesse dato questo incarico prima di morire. Cancellai senza pensarci troppo le annessioni pericolose: non soltanto la Mesopotamia, dove in ogni caso non saremmo potuti restare, ma anche l’Armenia, troppo lontana, che mantenni solo come Stato vassallo.

Due o tre difficoltà furono appianate [risolte] grazie all’abilità del mercante Opramoas.

Nei negoziati cercai di mantenere la stessa energia che altri mettono nel campo di battaglia e ottenni la pace.
Il mio avversario d’altronde, la desiderava quanto me: infatti i Parti volevano soltanto riaprire le loro strade ai grossi traffici tra l’India e noi.
Pochi mesi dopo la grande crisi, con gioia vidi formarsi nuovamente la fila delle carovane in riva al fiume Oronte.
Le oasi si ripopolavano di mercanti che commentavano le notizie alla luce dei bivacchi [accampamenti].
Ogni mattina i mercanti caricavano, insieme alle loro merci, parole e pensieri per trasportarle in paesi sconosciuti in modo più sicuro che non con gli eserciti in marcia.
Nel grande corpo del mondo riprendevano la circolazione dell’oro e il passaggio delle idee.
Il polso della terra ricominciava a battere.

A sua volta, la febbre della ribellione cadeva. In Egitto, era stata così violenta che era stato necessario reclutare in fretta una milizia tra i contadini, in attesa delle nostre truppe di rinforzo.
Incaricai immediatamente Marcio Turbo di ristabilire l’ordine in quelle terre ed egli lo fece con saggia fermezza.

Ma non mi bastava l’ordine [la tranquillità] per le strade; volevo, se possibile, ristabilirlo negli animi, o meglio, regnare per la prima volta.

Un soggiorno d’una settimana a Pelusa fu interamente dedicato a rasserenare i rapporti tra Greci e Giudei, sempre in lite tra di loro. Non vidi nulla di quel che avrei desiderato vedere: né le sponde del Nilo, né il Museo di Alessandria, né le statue del tempio; trovai appena il modo di consacrare una notte alle gradevoli orge di Canopo. Sei giornate interminabili trascorsero in quella specie di tribunale, a malapena protetto dal caldo da lunghi tendaggi di canne che frusciavano al vento. La notte, zanzare enormi ronzavano intorno alle lampade.


Tentai di dimostrare ai Greci che non sempre erano i più saggi, e ai Giudei che non erano affatto i più puri. Le canzoni satiriche con le quali i Greci tormentavano gli avversari erano stupide né più né meno come le grottesche imprecazioni degli Ebrei. Vivevano porta a porta da secoli e non avevano avuto mai né il desiderio di conoscersi, né la dignità di sopportarsi a vicenda.

I difensori che la sera tardi abbandonavano il campo, all’alba mi ritrovavano ancora seduto a districare il groviglio delle false testimonianze; i cadaveri pugnalati che mi venivano offerti come prove a carico erano spesso quelli di malati morti nei loro letti.
Ma ogni ora di tregua era una vittoria, anche se precaria [momentanea] come tutte; ogni dissidio sanato creava un pegno per l’avvenire.

M’importava assai poco che l’accordo ottenuto fosse temporaneo; sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto. Dato che l’odio, la malafede, il delirio hanno effetti durevoli non vedevo perché non ne avrebbero avuti anche la franchezza, la giustizia, la benevolenza.

A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere tranquillamente uno accanto all’altro?

La pace era il mio traguardo, ma non il mio ideale; la parola “ideale” non mi piace perché è troppo lontana dal reale. Avevo pensato abbandonare anche la Dacia. L’avrei fatto se avessi potuto farlo senza problemi; ma mi resi conto che era meglio fare il miglior uso possibile di quelle conquiste avvenute prima di me e già entrate nella storia. Inoltre il bravissimo Giulio Basso, ormai in fin di vita, era stato il primo governatore della Dacia e l’aveva completamente riorganizzata.


Anche io ero stato sul punto di morire durante l’anno trascorso alle frontiere sarmate, sopraffatto dall’impresa di portare la pace in un paese che continua a combattere; impresa senza gloria.

Ordinai che Giulio Basso ricevesse esequie [cerimonia funebre] trionfali, quali si usano soltanto per gli imperatori. Questo omaggio a un subalterno fedele, morto d’un sacrificio oscuro [inutile], fu la mia ultima protesta contro la politica di conquiste: non serviva più che la denunciassi clamorosamente, dal momento che ero padrone di farla cessare di punto in bianco.


Purtroppo, s’imponeva una repressione militare in Mauretania e in Bretagna dove erano state decimate le poche nostre guarnigioni lasciate alle frontiere. Giulio Severo s’incaricò dei problemi più urgenti creati da quelle rivolte, in attesa che gli affari di Roma mi consentissero di intraprendere quel viaggio lontano.


Ma mi stava più a cuore portare a termine la guerra sarmata che era in sospeso, impiegando tutte le truppe necessarie a farla finita con le scorrerie dei barbari.
Anche in questo caso accettavo la guerra come un mezzo per giungere alla pace, se i negoziati non potevano bastare. Proprio come fa il medico, che si decide a cauterizzare [bruciare] un tumore dopo aver sperimentato i metodi più semplici.

Tutto è così complicato negli affari degli uomini, che anche il mio regno, così pacifico, avrebbe avuto i suoi periodi di guerra così come la vita d’un grande capitano, si voglia o no, ha i suoi intervalli di pace.

 >> pagina 87 

esercizi

LE TECNICHE E IL GENERE

  • I fatti descritti sono:
    • verosimili. 
    • inverosimili.

  • Quali elementi della narrazione storica sono presenti in questo brano? 
  •                                                                                                                                                        
                                                                                                                                                           
LABORATORIO SUL TESTO
  • Come imperatore, Adriano mira a:
    • fare nuove conquiste.
    • riportare la pace nell’impero.

  • Adriano considera la guerra:
    • sempre inaccettabile.
    • accettabile, se è un mezzo per arrivare alla pace.

  • “Ogni mattina i mercanti caricavano, insieme alle loro merci, parole e pensieri per trasportarle in paesi sconosciuti in modo più sicuro che non con le legioni.” Questa frase vuol dire che secondo Adriano le parole e i pensieri, cioè la cultura, si diffondono meglio:
    • con gli eserciti e le armi.
    • con i viaggi dei mercanti.

  • In questo brano il narratore racconta in modo più dettagliato:
    • le guerre e le battaglie.
    • le trattative per la pace.

competenze linguistiche

  • “Sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine”, vuol dire che:
    • il bene e il male non sono fissati per sempre e possono cambiare nel tempo.
    • si può sopportare qualunque dolore abituandosi.

  • “Dato che l’odio ha un effetto durevole, non vedevo perché non ne avrebbe avuto anche la giustizia”, vuol dire che:
    • la giustizia non ha un effetto durevole.
    • la giustizia può avere un effetto durevole quanto l’odio.

La dolce fiamma - I saperi fondamentali
La dolce fiamma - I saperi fondamentali
Narrativa