CARTA CANTA - Primo Levi: il dovere di scrivere

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Primo Levi: il dovere di scrivere

Non si è ancora spento il dibattito intorno all’opinione del filosofo tedesco di origine ebraica Theodor Adorno, il quale nel 1949 sostenne che «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro», convinto che la letteratura sia uno strumento fuorviante e incapace di restituire la portata di un orrore incommensurabile come la Shoah. Primo Levi la pensava in tutt’altro modo: secondo lui «non solo si possono ancora fare poesie dopo Auschwitz, ma su Auschwitz stesso si possono, e forse si debbono, fare poesie». Mentre tanti sopravvissuti si chiusero nel silenzio – per prudenza, per non risvegliare fantasmi spaventosi, per paura di non essere ascoltati, creduti, capiti – Levi decise di raccontare sino in fondo la sua esperienza, pur non essendo uno scrittore di professione, ma un giovane chimico torinese. Alla fine del 1945, tornato alla vita normale, usò a questo scopo ogni momento libero, scrivendo versi e ricordi degli orribili giorni trascorsi al lager sul treno che lo portava al lavoro, durante la pausa pranzo, di notte: «Ero continuamente in uno stato di trance».

L’anno successivo Levi cominciò a pensare a un’eventuale pubblicazione. A questo scopo inviò un dattiloscritto con annotazioni in matita rossa a una cugina stabilitasi in America, perché lo facesse circolare oltreoceano: rimasto inedito, oggi si conserva presso il Museo dell’Olocausto di Washington. Nel contempo provò a sondare vari editori, a cominciare da Einaudi, importante casa editrice della sua città: ma la proposta venne bocciata, forse in quanto ritenuta poco attraente per i lettori, da collaboratori del calibro di Cesare Pavese e Natalia Ginzburg (che pure aveva sofferto la perdita del marito Leone, ebreo anch’egli, torturato e ucciso dalle SS).

Levi decise allora di pubblicare il suo lavoro sul settimanale comunista vercellese L’amico del popolo. Nel 1947 uscirono le prime puntate, interrotte quando un piccolo editore, De Silva, stampò in volume l’opera, intitolata Se questo è un uomo. Furono pochi ad accorgersi della comparsa di un capolavoro: fra questi Italo Calvino, che vi riconobbe non solo «una testimonianza efficacissima», ma anche «pagine di autentica potenza narrativa, che rimarranno nella nostra memoria tra le più belle della letteratura della Seconda guerra mondiale».

Solo un decennio più tardi Se questo è un uomo riuscì a ottenere il meritato successo: nel 1958 infatti Einaudi accettò finalmente di pubblicarlo, in una versione rivista e accresciuta. Da allora è stato stampato centinaia di volte e tradotto in più di trenta lingue, compreso il tedesco. Levi teneva moltissimo alla diffusione del suo libro in Germania. Anche i discendenti dei persecutori nazisti hanno così potuto meditare sulla tragedia dei campi di sterminio: «Voi che siete sicuri / nelle vostre tiepide case / voi che trovate a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo»... Dopo Auschwitz, la poesia è un dovere.

La dolce fiamma - volume A
La dolce fiamma - volume A
Narrativa