T1 - L’arrivo ad Auschwitz (da Se questo è un uomo)

T1

L’arrivo ad Auschwitz

  • Tratto da Se questo è un uomo, 1947
  • memorialistica

Il brano chiude il primo capitolo del libro e racconta l’arrivo al campo di concentramento. Il terribile viaggio durato cinque giorni verso il Nord dell’Europa, nei gelidi vagoni di legno senza acqua e senza servizi igienici, è terminato: siamo in un luogo dove gli uomini diventano presto fantasmi, materialmente vivi ma morti nell’anima, privati della loro umanità.

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Audiolettura

Venne a un tratto lo scioglimento.1 La portiera fu aperta con fragore, il buio

echeggiò di ordini stranieri,2 e di quei barbarici latrati3 dei tedeschi quando

comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve

una vasta banchina4 illuminata dai riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri.

5      Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere con

i bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu

brulicante5 di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano

intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma

timidamente, a mezza voce.

10    Una decina di SS6 stava in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe

larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa,

con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo

italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni hai? Sano o

malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.

15    Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni.

Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico, sembravano semplici agenti

d’ordine.7 Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli:

risposero «bagagli dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero

«dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero

20    «bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che

il suo ufficio8 di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare

Francesca,9 che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo

stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno.

In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi10 fummo radunati in un

25    gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi,

noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente

e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria,

di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente

per il Reich;11 sappiamo che nei campi12 rispettivamente di Buna-Monowitz

30    e Birkenau,13 non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e

ventinove donne, e che di tutti gli

altri, in numero di più di cinquecento,

non uno era vivo due giorni

più tardi. Sappiamo anche, che non

35    sempre questo pur tenue principio

di  discriminazione in abili e inabili14

fu seguito, e che successivamente fu

adottato spesso il sistema più semplice

di aprire entrambe le portiere

40    dei vagoni, senza avvenimenti né

istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano

in campo quelli che il caso faceva

scendere da un lato del convoglio;

andavano in gas15 gli altri.

45    Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la

necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner

Aldo Levi16 di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e

intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito,17 il padre e la madre

erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il

50    degenere18 macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare19 dalla locomotiva

che ci trascinava tutti alla morte.

Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori,

i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’

di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non

55    vedemmo più nulla.

Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli20 di strani individui.

Camminavano inquadrati,21 per tre, con un curioso passo impacciato, il capo

spenzolato22 in avanti e le braccia rigide. In capo avevano un buffo berrettino,

ed erano vestiti di una lunga palandrana23 a righe, che anche di notte e di lontano

60    si indovinava sudicia e stracciata. Descrissero un ampio cerchio attorno

a noi, in modo da non avvicinarci, e, in silenzio, si diedero ad armeggiare24 coi

nostri bagagli, e a salire e scendere dai vagoni vuoti.

Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle, ma una

cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche

65    noi saremmo diventati così.

Senza sapere come, mi trovai coricato su di un autocarro con una trentina

di altri; l’autocarro partì nella notte a tutta velocità; era coperto e non si poteva

vedere fuori, ma dalle scosse si capiva che la strada aveva molte curve e

cunette.25 Eravamo senza scorta? …buttarsi giù? Troppo tardi, troppo tardi,

70    andiamo tutti “giù”. D’altronde, ci siamo presto accorti che non siamo senza

scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto26 d’armi: non lo vediamo

perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta che uno scossone

del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra o a sinistra. Accende una pila

tascabile, e invece di gridare «Guai a voi, anime prave»27 ci domanda cortesemente

75    ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca,28 se abbiamo danaro od

orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è

regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro

caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo.


Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1986

 >> pagina 637

A tu per tu con il testo

Nessuno ha mai visto qualcosa di simile: è dunque difficile, al momento dell’arrivo dei deportati, capire quello che sta succedendo. Per questo il narratore è sconcertato: benché lo spavento sia naturalmente molto grande, la paura non prende il sopravvento su di lui. Anche se tutto è incomprensibile e folle (r. 63), le sue percezioni sono vive, e il suo linguaggio è chiaro nonostante la notte e l’orrore che lo circondano. Che cosa sta accadendo nell’oscurità che confonde, squarciata dai riflettori che abbagliano? E nel sinistro silenzio, rotto solo dai latrati (r. 2) incomprensibili degli aguzzini? Con metodica precisione si svolgono le procedure di smistamento, atroci nella loro fredda organizzazione: oggi che tutto è finito, chi ha vissuto quella notte sa che, in quell’istante, è stato scelto chi poteva lavorare, e quindi vivere, e chi doveva morire, i deboli, le donne, i vecchi, i bambini. Ora che sa, il narratore racconta che quella notte per più di cinquecento persone scese dal treno con lui non è mai terminata. E noi lettori, adesso che leggiamo, anche noi, ora, impariamo a conoscere la brutalità di quell’inferno.

Analisi

Lo sbarco nel campo avviene di notte. Come in un brutto sogno, tutte le percezioni sono acutizzate e attutite nello stesso tempo. La voce narrante registra la brutalità del luogo a partire dalle proprie sensazioni uditive: la porta del vagone si apre con fragore (r. 1); nel buio, le voci degli aguzzini risuonano come spaventosi, animaleschi latrati (r. 2) di rabbia.

Allo stesso tempo, tutto appare silenzioso come in un acquario (r. 15): la paura del destino, che si avverte spaventoso e inimmaginabile, diventa nei deportati la paura di parlare, di segnalare la propria presenza con la voce, di mettersi in evidenza. I familiari e gli amici si chiamano l’un l’altro, per cercare vicinanza e sicurezza, ma sottovoce, come a non voler dare traccia di sé. Ed è proprio nel buio e nel silenzio che comincia la loro trasformazione, destinata a maturare lungo una straziante discesa agli inferi: colmi di intelligenza, volontà e affetti, perderanno, rapidamente, le loro caratteristiche umane. E così la notte, dopo aver inghiottito donne, anziani e bambini (Scomparvero così […] le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli, rr. 52-53), li sostituisce con strane figure (Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli di strani individui, r. 56): spettrali, mute e rigide nei movimenti, anticipano e preannunciano, agli occhi dei nuovi arrivati, la loro sorte di schiavi disumanizzati.

Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico (r. 16), scrive il narratore al primo incontro con le SS. La frase mostra uno stupore angoscioso: i deportati si aspettano, infatti, di giungere in una regione di furia incontrollata, ma ciò che incontrano è disarmante. La violenza delle SS, infatti, non sembra animata da odio o da sentimenti di sorta: i nazisti hanno un’aria apatica e impassibile, adottano un tono di voce sommesso, sono freddi e distaccati, come chi esegue procedure di pura routine, quasi fossero semplici agenti d’ordine (rr. 16-17).

Con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno (rr. 20-21) essi si comportano però in modo disumano contro gli innocenti, che vengono colpiti brutalmente (come capita a Renzo), separati con il tradimento dai loro parenti, mandati nelle camere a gas (è la sorte della piccola Emilia), sempre con la stessa indifferenza con cui si rispettano le istruzioni di un complesso macchinario. Per i nazisti gli ebrei non hanno alcuna dignità umana e perciò non meritano pietà: per questo, con loro, si può procedere come con gli animali o, più propriamente, come con il pezzo meccanico di un ingranaggio, utilizzato finché serve e, poi, gettato via e sostituito. L’obiettivo principale dei nazisti è dunque la piena funzionalità della struttura: nulla deve inceppare il perfetto esercizio della fabbrica della morte, di cui i deportati garantiscono il paradossale funzionamento.

 >> pagina 638 
Levi aveva letto e amava la Divina Commedia. Come in altri passi dell’opera, anche qui l’autore si avvale di riferimenti danteschi, ricordando Auschwitz come l’inferno dei viventi. Lo si vede principalmente alla fine, con il soldato tedesco che, sull’autocarro con i deportati, li scorta verso gli alloggiamenti del campo. Non visto, perché nascosto dall’oscurità, il soldato è però in condizioni di vedere, accendendo una pila tascabile, i prigionieri che lo urtano sballottati dai balzi del camion. La funzione dell’uomo di traghettare i condannati, e l’orrore della situazione richiamano alla memoria del narratore il canto III dell’Inferno, al punto che, nella sua fantasia, il tedesco è identificato con Caronte, la creatura demoniaca che porta le anime dei dannati verso la loro pena eterna. E poiché Caronte, nella finzione dantesca, si rivolge ai peccatori chiamandoli «anime malvagie» quando queste si affollano sulle rive dell’Acheronte, Levi si aspetta le stesse parole dal caronte (r. 78) nazista: la richiesta, formulata con ipocrita cortesia, di consegnare a lui le cose preziose ispira, a Levi e ai suoi compagni di destino, rabbia per il sopruso dell’esproprio e, nello stesso tempo, lo strano sollievo (r. 78) di essere di fronte a un uomo reale e non a un vero demonio.

Se questo è un uomo adotta una scrittura lucida e razionale, che non vuole suscitare in modo patetico il sentimento e l’emozione del lettore, ma fa appello al suo giudizio morale. Per questo non è una scrittura complessa, ma tende alla scansione e alla ripetizione. In particolare, in questo passo si nota l’uso della ripetizione per scandire il tempo della storia e il tempo della scrittura: il primo, caratterizzato dallo stupore e dalla paura; il secondo, dalla conoscenza e dalla necessità di riportare al lettore i fatti, affinché anche egli ne venga a conoscenza.

Ciò si vede principalmente nella parte centrale, dove troviamo formule come Oggi però sappiamo che (r. 27), sappiamo che (r. 29), Sappiamo anche (r. 34), grazie alle quali la voce narrante si allontana dal piano della memoria e si sposta sul piano del giudizio. Oggi, sembra dire Levi, tutti noi sappiamo, noi che abbiamo vissuto quel momento, ma anche voi ai quali lo sto raccontando e che, ora che avete letto, non potete non sapere. E non potete non giudicare. La stessa tecnica di ripetizione viene adottata per spiegare, con supremo controllo dell’emotività, la morte di Emilia Levi: il suo ritratto viene non a caso lugubremente incastonato tra il verbo morì (r. 45) e il sostantivo morte (r. 46).

Laboratorio sul testo

Comprendere

1. Metti in ordine cronologico gli eventi narrati, numerandoli da 1 a 6.

  • a) Le SS interrogano i deportati.
  • b) Un soldato tedesco chiede ai deportati soldi e orologi.
  • c) Gli uomini vengono divisi da vecchi, donne, bambini e radunati in gruppo.
  • d) I deportati scendono sulla banchina della stazione.
  • e) Il gruppo di cui fa parte il narratore viene caricato su un autocarro.
  • f) Degli uomini vestiti in modo strano cominciano ad armeggiare con i bagagli.

2. Chi sono gli strani individui, vestiti con una palandrana a righe, che a un certo punto armeggiano con i bagagli dei deportati?


3. Quali tra le seguenti informazioni non sono conosciute dall’autore, al momento in cui accadono i fatti narrati, e saranno conosciute solo successivamente?

  • a La morte di Renzo. 
  • b La morte di Emilia Levi. 
  • c Il bagno nel mastello di Emilia Levi. 
  • d Il nome dei campi in cui sono arrivati: Buna-Monowitz e Birkenau. 
  • e Il numero dei deportati del convoglio entrati nel campo (96 uomini e 29 donne). 

4. Secondo quale principio avviene la divisione dei deportati?

 >> pagina 639 

Analizzare e interpretare

5. Il narratore (sono possibili più risposte)

  • a è esterno. 
  • b è interno. 
  • c è testimone dei fatti. 
  • d è protagonista dei fatti. 
  • e racconta immediatamente dopo gli avvenimenti narrati. 
  • f racconta a distanza di tempo dagli eventi narrati. 
  • g esprime giudizi. 
  • h è obiettivo e impersonale. 


Motiva ciascuna delle tue scelte con opportuni riferimenti al testo.


6. I deportati non comprendono appieno ciò che sta loro avvenendo: quali espressioni presenti nel testo ti fanno capire questo sentimento di attonita angoscia?


7. Come rispondono le SS alle domande dei deportati che chiedono dei propri bagagli e dei propri cari? Qual è lo scopo delle loro risposte?


8. Qual è il tono della frase ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei (rr. 45-46)?

  • a Imparziale e obiettivo. 
  • b Amaro e sarcastico. 
  • c Ironico e spiritoso. 
  • d Patetico e sentimentale. 


9. Quando i deportati vengono caricati sull’autocarro leggiamo: …buttarsi giù? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti “giù” (rr. 69-70). Che cosa significa questa frase?

competenze linguistiche

10. Il linguaggio figurato. L’autore chiama il soldato tedesco che li scorta al lager il nostro caronte (rr. 77-78): si tratta di una forma di “antonomasia”, figura retorica che consiste nell’attribuire a una persona, come nome comune, il nome proprio di un personaggio o di un evento (storico, ma anche letterario o mitologico) noto per una specifica caratteristica. Ti proponiamo una serie di antonomasie: completa la tabella indicandone l’origine e il significato con l’aiuto del vocabolario, poi prova ad aggiungerne tu un paio.


Deriva da…

Significato

Un giuda

Un mecenate

Un’odissea

Un gradasso

Una perpetua

 

Una babele

 
     
     

SPUNTI DI RICERCA interdisciplinare

Geografia

Primo Levi viene imprigionato nel campo di Fossoli (vicino a Modena), caricato su un treno alla stazione di Carpi e da lì trasportato fino al lager di Auschwitz, in Polonia. Individua su una carta geografica questi luoghi e ricostruisci il percorso del convoglio.

La dolce fiamma - volume A
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