1 Il difficile rapporto con la corte
A distanza di poco più di due decenni, Ariosto e Tasso vivono nella stessa corte, quella ferrarese degli Estensi. Ma mentre il primo fronteggia la realtà senza mai lasciarsene sopraffare, osservando con equilibrio e coscienza critica le miserie dell’esistenza, il secondo tende a idealizzare un ambiente che invece si rivela un luogo di invidie e maldicenze, insidiato dal conformismo e dalla presenza occhiuta del tribunale dell’Inquisizione.
La corte quale regno di bellezza e di splendore dell’arte esiste ormai solo nella fantasia di Tasso, che vi proietta tutta la propria sognante immaginazione. Ma la realtà si manifesta invece ai suoi occhi molto diversa, e diversi i suoi protagonisti: tutt’altro che anime gentili impegnate in nobili imprese; piuttosto, piccoli uomini alle prese con litigi e bassezze quotidiane.
A questa degenerazione il poeta non reagisce con disincanto, serenità o ironia, ma con crescente instabilità, con un tormento inappagato, con un senso di disagio che lo porta a considerare sé stesso come uno sradicato, un disadattato. Serenità, ironia e dominio delle passioni sono sentimenti che Tasso non è in grado di vivere: la coscienza dello scarto tra sé e il modello del cortigiano (incarnato, tra l’altro, dalla figura del padre Bernardo) accentua la frustrante percezione di essere a corte un ospite indesiderato, vittima di un mondo che non può comprendere la sua arte e il suo genio.