Eccoci al centro del poema, con quello che è l’episodio più celebre e da cui l’opera stessa prende il titolo. Dopo un aspro duello sostenuto con il saraceno Mandricardo, Orlando erra due giorni, finché arriva sulle rive di un fiumicello, tutto costeggiato da prati, fiori, alberi. Senza saperlo, il paladino, innamorato di Angelica e sempre alla sua ricerca, è giunto proprio nei luoghi in cui la donna aveva curato e guarito il fante saraceno Medoro, del quale poi si era innamorata ed era divenuta moglie (canto XIX): lei che aveva rifiutato i più grandi re del Levante, che era sfuggita ai più valenti paladini, si era unita a un semplice soldato.
Invitato dalla luminosità primaverile dei luoghi, Orlando smonta da cavallo e si gode la frescura e la vegetazione. Ma, purtroppo per lui, lo attende una vista terribile: mentre contempla i prati e il fiumicello, scorge, intagliati nella corteccia di diverse piante, i nomi di Angelica e Medoro, e, per di più, vede quei nomi strettamente accostati l’uno all’altro e tra loro intrecciati. Egli ne resta turbato, ma pensa – illudendosi – che Medoro possa essere un vezzeggiativo attribuito da Angelica proprio a lui. Poi però, allontanatosi di poco dal boschetto, scorge, all’ingresso di una grotta, un’incisione in cui Medoro canta il suo felice amore per Angelica. L’epigrafe è scritta in arabo, e per sventura il conte capisce tanto bene quella lingua quanto la propria. I suoi stessi occhi leggono dunque la rivelazione di quella che lui considera una gravissima infedeltà da parte della sua amatissima Angelica. È questo il motivo per cui la mente di Orlando viene sconvolta dalla pazzia.
Metro Ottave di endecasillabi con schema di rime ABABABCC.
111
Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
5 ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
112
Fu allora per uscir del sentimento
10 sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
15 né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.
113
L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
20 che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.
114
25 Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insoportabil some
30 tanto di gelosia, che se ne pera;
et abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.
115
In così poca, in così debol speme
sveglia gli spirti e gli rifranca un poco;
35 indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
40 viene alla villa, e piglia alloggiamento.
116
▶ Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
45 Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.
117
Quanto più cerca ritrovar quiete,
50 tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
55 troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.
118
Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
60 da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:
119
65 come esso a’ prieghi d’Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e ch’ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
70 lei ferì Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:
120
e sanza aver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
75 da troppo amor constretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
80 del buono albergo, Angelica gli diede.
121
Questa conclusion fu la secure
che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il ▶manigoldo Amor satollo.
85 Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
122
Poi ch’allargare il freno al dolor puote
90 (che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
95 e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.
123
In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
100 col suo drudo più volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.
124
105 Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, et esce fuore
110 per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi et urli apre le porte al duolo.
[…]
129
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar della diurna fiamma
115 lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro insculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
120 né più indugiò, che trasse il brando fuore.
130
Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
125 Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già sì chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;
131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
130 non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle,
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
135 allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
132
Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
140 che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.
133
145 Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
150 l’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.
134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
155 Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
160 ch’un alto pino al primo crollo svelse:
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
165 Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.
136
I pastor che sentito hanno il fracasso,
170 lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
175 et io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.
pagina 602
DENTRO IL TESTO
I contenuti tematici
Di fronte all’incisione in cui Medoro spiega chiaramente la sua fortuna (l’amore dell’eroina da tutti inseguita), l’animo di Orlando è scosso da un crescente turbamento, che sfocia nella pazzia e in manifestazioni di incontrollato furore. Ma il poeta rappresenta tale follia nel suo formarsi, per gradi, dal primo attonito stupore dell’infelice allo scoppio improvviso del suo dolore, fino – appunto – al violento infuriare della demenza: penetrato nel bosco, Orlando urla di dolore e sradica gli alberi, per distruggere tutti i segni che possano ricordare l’amore dei due giovani. Alla fine cade a terra e giace immobile per tre giorni, senza mangiare né bere. Il quarto giorno si rialza, abbandona le armi e vaga nudo seminando il panico nella regione.
Anche Boiardo aveva sgretolato l’immagine monolitica dell’eroe, facendolo servo dell’amore, come un comune essere umano. Eppure Ariosto va oltre: il più famoso paladino cristiano non solo si innamora, ma impazzisce. È come se la grandezza del valore guerriero necessitasse di un contrappeso proporzionale, e anzi ulteriormente amplificato: a differenza degli altri cavalieri, che inseguono Angelica per capriccio, per infatuazione, egli subisce le conseguenze drammatiche dell’amore come persecuzione; per questo fugge nel bosco, dove può urlare, piangere e gridare prima di far esplodere senza più alcun freno la propria furia distruttrice. In tal modo, la follia di Orlando diventa una metafora* dell’amore quale passione irrazionale e sentimento che porta alla perdita dell’identità.
Paradossalmente la pazzia di Orlando segna l’inizio della sua liberazione. Finora egli è vissuto nel mito di Angelica, un mito ossessivo costruito sulla base di una mistificazione della realtà che alla fine si rivela illusoria: Angelica non è quella vergine pura, irraggiungibile e distaccata dall’universo degli affetti che il paladino immaginava; ormai è la donna di un altro, che lei ha scelto consapevolmente.
La vacua sublimazione della figura femminile ha condotto Orlando in un vicolo cieco. Ora – come sostiene il critico Elio Gioanola (del quale sintetizziamo alcune più ampie considerazioni) – la follia può rappresentare per lui l’occasione per un viaggio dentro sé stesso, nella propria coscienza e nelle proprie pulsioni profonde: da qui, superata la fase acuta della crisi, il personaggio potrà intraprendere un percorso di autentica conoscenza di sé e del mondo, lasciandosi alle spalle la pericolosa confusione fra il piano della realtà concreta e quello dell’idealizzazione astratta; e capire, per esempio, di non potere rimproverare ad Angelica il tradimento di una fedeltà che non gli era mai stata promessa. Così ha fine l’“amorosa inchiesta” che era cominciata all’inizio del poema.
Le scelte stilistiche
Anche in questo episodio spuntano il sorriso e l’arguzia maliziosa dell’autore: Orlando, il paladino dei paladini, impazzisce per una donna (per giunta pagana). Viene evitato il tono tragico: piuttosto si intrecciano tonalità drammatiche e comiche. Come in tutto il poema, anche qui Ariosto rifugge dal patetico e dal sublime. Al contrario, specialmente verso la fine del brano, prevalgono elementi quasi caricaturali e grotteschi: si vedano le esagerate imprese dell’eroe in preda al furore, come il gesto di svellere con estrema facilità alberi secolari. Il poeta vuole in tal modo attenuare il coinvolgimento, non solo suo, ma anche del lettore: l’utilizzo di figure retoriche quali l’enumerazione* e l’iperbole* (come nella descrizione delle gesta del paladino, rivolte non – come vorrebbe il canone epico – verso temibili nemici, ma contro arbusti inermi) ha appunto la funzione straniante di far sorridere delle follie umane.
pagina 603 D’altra parte nell’atteggiamento di Ariosto non notiamo freddezza o distacco: egli, profondo conoscitore dell’animo umano, partecipa in qualche modo alla disperazione di Orlando, nella consapevolezza che la sua follia è un’espressione specifica della più ampia e generale follia degli uomini quando si perdono nelle loro passioni. Del resto l’autore chiama sé stesso in prima persona a testimone (Credete a chi n’ha fatto esperimento, / che questo è ’l duol che tutti gli altri passa, vv. 11-12), poiché non doveva essergli mancata, in questo campo, qualche dolorosa esperienza. Ariosto può dunque assumere un atteggiamento di affettuosa partecipazione al dramma umano del suo eroe e, insieme, portare a termine un’opera di demistificazione dei vecchi ideali cavallereschi, spogliando la passione amorosa di tutta la nobiltà che la caratterizzava nella visione tradizionale.
VERSO LE COMPETENZE
Comprendere E ANALIZZARE
1 IL RITRATTO DEL PROTAGONISTA Come viene descritto l’aspetto fisico di Orlando al primo manifestarsi della pazzia?
2 UN ANTAGONISTA INVOLONTARIO In che modo il pastore che lo ospita contribuisce ad acuire il suo dolore?
3 L’ESPLOSIONE DEL DELIRIO In quali azioni si esprime il culmine della follia di Orlando?
4 LO STATO D’ANIMO DI ORLANDO Al v. 28, quale figura di significato può essere rilevata nell’espressione e crede e brama e spera? Che cosa evidenzia nella mente di Orlando?
5 UNA FIGURA RETORICA ESPRESSIVA Al v. 112 (con gridi et urli apre le porte al duolo), quale figura di suono riconosci? Qual è la sua funzione espressiva?
INTERPRETARE
6UNA DEFINIZIONE DI ANGELICA Perché all’ottava 123 Angelica è definita ingrata (v. 99)?
7 UN’AZIONE SIGNIFICATIVA Quale può essere il valore simbolico dell’azione di Orlando descritta ai vv. 143-144 (Il quarto dì, da gran furor commosso, / e maglie e piastre si stracciò di dosso)?
8 IL PERCHÉ DI UN COMPORTAMENTO Che cosa simboleggia la nudità di Orlando all’ottava 133?
SCRIVERE PER...
9 DIRE LA PROPRIA Ingannare sé stesso dinanzi a una verità inoppugnabile: come definiresti il comportamento di Orlando? Lo comprendi, sei indulgente verso di lui oppure ravvedi una censurabile debolezza e un’incapacità di guardare in faccia alla realtà? Esprimi il tuo giudizio in un testo di circa 30 righe.
Parlare e scrivere bene
VA, VA’ o VÀ? Tra i dilemmi dell’ortografia
Ariosto ci dà (a proposito: con l’accento, in quanto voce del verbo dare!) un’utile lezione di grammatica. Come possiamo vedere al v. 37, va è la forma corretta per indicare la terza persona singolare del presente indicativo del verbo andare.
Oggi Filippo va al lavoro in treno.
Chi va allo stadio domani?
Niente apostrofo, dunque. Tuttavia va’ (con l’apostrofo) non è una forma scorretta: in quanto troncamento di vai, è la seconda persona dell’imperativo del verbo andare.
PROVA TU Ti vengono in mente due esempi in cui usare la forma va’? Scrivili qui sotto.
La grafia và, con l’accento, va (senza accento!) evitata sia per l’indicativo sia per l’imperativo, esattamente come vanno evitate grafie scorrette di altri verbi (dò, fà e stà). Eppure ci sono delle eccezioni: il -và accentato si usa come desinenza nei composti di andare. Per esempio:
Quest’estate Francesca rivà (→ voce del verbo riandare) in vacanza sui monti.
PROVA TU Riepilogando, inserisci negli spazi la forma corretta del verbo andare.
.......... subito in camera tua a fare i compiti!
.......... a vedere chi .......... là.
Vasco Rossi canta: e .......... bene, .......... bene, .......... bene così.
Anche quest’anno mio figlio .......... in colonia.