T2 - La peste e la brigata

T2

La peste e la brigata

Decameron, I, Introduzione (riscrittura in italiano moderno di Aldo Busi)

Nell’Introduzione alla Prima giornata (che di fatto, come abbiamo detto, funge da introduzione all’intera opera) viene descritta la peste a Firenze e, subito dopo, si racconta della decisione dei dieci giovani della brigata di sfuggire al contagio recandosi nel contado. In un ambiente diverso si sperimenteranno nuove condizioni di vita, sottratte al disordine (materiale e morale) che l’epidemia ha prodotto in città. E soprattutto si deciderà di narrare le novelle che andranno a costituire il Decameron. Ne riportiamo alcuni passi significativi.

[…]
Sembrerà inaudito quello che devo dire, ma se non l’avessi visto con i miei occhi,
come tanti altri, ardirei a stento non solo a crederlo ma a scriverlo, indipendentemente
dalla buonafede di chiunque venisse a raccontarmelo – sottolineo che la
virulenza della peste fu tale che non soltanto l’uomo l’attaccava al suo simile, il
5      che va da sé, ma addirittura successe un fracco di volte che una cosa dell’ammalato
o del morto, toccata da un animale di tutt’altra specie, non solo lo contagiasse
della stessa malattia, ma lo uccidesse in quattro e quattrotto. I miei stessi occhi,
ormai abituati a vedere di tutto, furono testimoni di quanto segue: nella pubblica
via erano stati gettati gli stracci di un poveraccio appena crepato; due porci si
10    avvicinano e, come fanno loro di solito, prima ci mettono il grugno poi i denti e
cominciano a sbatterseli sulle guance e dopo nemmeno un’ora che si avvoltolavano
come se avessero il veleno in corpo, sono stramazzati entrambi sugli stracci
ridotti a brandelli.
Queste scene raccapriccianti fecero nascere diverse paure e fantasmi in quelli
15    che erano ancora vivi, e tutti quanti, o quasi, avevano una sola, crudele fissazione:
schivare e tenere alla larga gli infetti e le loro cose. C’erano quelli dell’avviso che
vivere con moderazione e limitarsi allo stretto necessario contribuisse di molto a
opporre resistenza al morbo e, formato il loro gruppo, vivevano divisi dal mondo,
raccolti in case sprangate a ogni ammalato e predisposte a una vita quasi bella,
20    con scorte di cibi prelibati e ottimi vini di cui si faceva uso giudizioso, rifuggendo
da ogni lussuria, senza permettere a nessuno di menzionare, e ben decisi a tagliar
fuori, ogni notizia di morte o di morti, indugiando nel far musica o in quei passatempi
a portata di mano.
Altri la pensavano in modo del tutto contrario e affermavano che l’unica medicina
25    contro un male così radicato era alzare il gomito più che si poteva, godersela a
squarciagola in giro divertendosi e dando sfogo a tutte le voglie, infischiandosene
di quello che stava succedendo, tanto!
Detto, fatto: secondo la tasca e la pancia, passavano da una bettola all’altra,
notte e giorno a bere sino a scoppiare, facendo una piccola deviazione nelle case
30    degli altri non appena sapevano che c’era da far fuori a sbafo. Cosa che potevano
permettersi a cuor leggero, dato che ciascuno, come se dovesse morire da un momento
all’altro, oltre a se stesso aveva abbandonato ogni cosa, tanto che le case
più belle erano diventate accessibili a tutti neanche fossero la pubblica piazza, e il
forestiero, una volta capitatoci, le usava come avrebbe fatto il legittimo proprietario,
35    al punto che a causa di queste bestiali scorribande gli infermi fuggivano dalle
loro stesse proprietà. L’autorità delle istituzioni, religiose e laiche, non aveva mai
conosciuto tanta tribolazione e miseria nella nostra città, decaduta e completamente 
dissoluta perché i suoi ministri e esecutori o erano tutti morti o tutti ammalati
o, sopravvissuti a intere famiglie decimate, non erano più in grado di svolgere
40    una mansione qualsiasi e ognuno faceva i cavoli suoi mettendo, se appena poteva,
le mani su quelli degli altri. Parecchi, invece, adottarono una via di mezzo: senza
mettersi a ferrea dieta come i primi né sbracandosi nel bere e nei bagordi come i
secondi, avevano mantenuto un giusto equilibrio con le cose secondo un naturale
appetito: non ricusavano di fare qualche passeggiata, andavano in giro stringendo
45    in mano fiori, erbe odorifere o spezie varie che spesso si portavano al naso perché,
secondo loro, niente era meglio per dare un po’ di refrigerio al cervello che una
qualche fragranza, poiché tutta l’aria sembrava rappresa dal puzzo delle carogne,
delle piaghe e delle medicine. Altri, invece, non badarono tanto a un modusvivendi
piuttosto che a un altro, una volta stabilito, con crudele determinazione,
50    che non c’era più niente da fare: se la diedero a gambe davanti all’epidemia, senza
pensare a nient’altro che a non essere agguantati.
Uomini e donne abbandonarono la loro città insieme alle case, i borghi, i parenti
e le cose per rifugiarsi o presso altra gente o almeno nelle loro campagne,
quasi che l’ira di Dio scatenato, per punire l’iniquità degli uomini, non intendesse
55    opprimerli dove erano scappati, ma soltanto se fossero rimasti dentro le
mura della città, illusi di poter morire in santa pace a casa loro, rassegnati ormai
a confrontarsi con l’ultima ora. E se è vero che non tutti i fautori di queste disparate
risoluzioni esistenziali morirono, è altresì vero che non per questo tutti si
salvarono, anzi, ogni fazione ebbe moltissime vittime che, essendo stati i primi
60    da sani a dare l’esempio a quelli che sani rimanevano, invano languivano con la
mano tesa. Lasciamo pure perdere il fatto che ogni cittadino aveva schifo di ogni
altro, che quasi nessun vicino si curava dell’altro, che i parenti avevano diradato le
visite reciproche fino a zero al quoto a parte qualche saluto da molto lontano: la
cosa grave era che l’angoscia s’era incuneata con tale sanguinarietà nei cuori della
65    gente che il fratello abbandonava il fratello e spesso la moglie il marito e (da non
credere per l’abominio) i genitori i figli come se non fossero i loro, schifati al pensiero 
di rendergli visita al capezzale. Di conseguenza, a quelli che si ammalavano
– cioè una caterva di maschi e di femmine – non rimase altro sussidio che la carità
degli amici (pochini) o l’avidità dei domestici, adescati da salari spropositati, e
70    anche così trovarne uno era un colpo di fortuna. Quei non molti servitori erano
uomini e donne di dubbia furbizia, senza alcuna dimestichezza con questi servizi
paramedici che consistevano perloppiù nel porgere all’ammalato quelle due o tre
cosette che domandava o nel guardarlo quando spirava. Peccato che spesso in
questo noleggio perdevano, oltre al guadagno, anche se stessi. Dato che gli ammalati
75    venivano abbandonati dai vicini, dai parenti e dagli amici e c’era più che
mai il problema del personale, fece la sua comparsa una pratica mai sentita prima:
nessuna donna che si ammalava, per quanto incantevole, bella o di nobile casata,
guardava più tanto al sottile e si prendeva a fulservis un maschio qualsiasi, giovane
o no, gli apriva ogni parte del suo corpo senza tanti perché o percome, come
80    una sgualdrina di strada, spinta come da una necessità paradossale che la malattia
acuiva sempre di più – ecco spiegato perché quelle che riuscirono a cavarsela non
godessero in seguito di una fama tanto buona. Inoltre molti morirono per mera
incuria, mentre sarebbero certo sopravvissuti se fossero stati assistiti, e insomma,
un po’ perché venivano a mancare i servizi più elementari per gli ammalati, un po’
85    per la recrudescenza del morbo, erano talmente tanti quelli che ci rimettevano le
penne che uno stupore senza nome si era insediato nelle voci e negli occhi della
città. Di conseguenza, quasi per causa di forza maggiore, si diede il via fra quanti
non morivano a cose contrarie a quelle di una volta. Per esempio, l’usanza voleva
– come del resto vediamo fare anche ai nostri giorni – che le parenti e le vicine si
90    radunassero nella camera del morto a fare la veglia con le donne del famigliare
scomparso, mentre fuori dalla casa si radunavano i vicini e tutti gli altri cittadini
degli altri quartieri. Apprestato il corteo dei preti, secondo l’importanza del morto,
costui veniva portato a spalla da pari suoi, con pompa di candele e di canti, fino
alla chiesa che aveva scelto prima di morire – abitudini che, con la ferocia della
95    peste ormai all’apice, cessarono ben presto o cedettero il passo a altre del tutto
nuove. Non solo si moriva senza più tante donne intorno, ma tantissimi rendevano
l’anima senza più neanche un testimonio per chiudergli gli occhi, e pochissimi
erano quelli che avevano il conforto delle lacrime sconsolate e pietose dei loro
cari, anzi, si arrivò al punto di festeggiare la dipartita con risate e barzellette, vezzo
100  che le donne in particolare, posposta sinedìe la muliebre pietà che era d’uopo
aspettarsi da loro, avevano preso su alla grande. Rare, poi, le salme accompagnate
in chiesa da più di una dozzina di vicini e, una volta composta la bara, a questi
esimi e bravi cittadini subentrava una masnada di beccamorti, plebaglia, che si
faceva chiamare “becchini” e si accollava questo offizio per soldi: presa la cassa in
105  spalla, via che la portavano a tutta birra non nella chiesa prescelta dal nostro ma
in quella più a tiro; davanti, quattro o sei preti e una candelina striminzita, o anche
senza, e questi qua, con l’aiuto di ‘sti “becchini”, senza essersi sfiancati troppo
con messe né lunghe né solenni, la scaricavano nella prima buca che trovavano
disoccupata e amen. [...]
110  Né furono poche le bare che ne trasportavano due o tre per volta, né poche
le volte che una sola cassa contenesse moglie e marito, due o tre fratelli, padre
e figlio e così via. Accadde infinite volte che quando c’era un prete con la croce
davanti a una bara se ne accodassero altre tre o quattro portate a spalla, e quando
i preti credevano che da seppellire ci fosse un morto uno, ne avevano sei o sette
115  e passa. [...] La moltiplicazione dei cadaveri che quasi ogni ora del giorno e della
notte varcavano le soglie delle chiese, esaurì anche la terra consacrata: volendo
mantenere l’antico costume che ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa,
nei sovraccarichi cimiteri delle chiese si scavavano delle fosse grandissime nelle
quali si scaricavano a centinaia i nuovi arrivati e, stivati come mercanzie via mare
120  strato sopra strato, si ricoprivano con poca terra fino a che non toccavano l’orlo e
si chiudeva.[...]
Che altro si può dire, se non che la crudeltà del cielo – e forse in parte anche
degli uomini – fu tanta che fra marzo e luglio si fece una stima di centomila morti
solo entro le mura di Firenze, tanti che forse, prima della falciata del morbo,
125  nessuno s’immaginava nemmeno che esistessero? O quanti bei palazzi, quante
belle case, quanti nobili manieri prima abitati da schiatte, da cavalieri e da dame
restarono vuoti fino all’ultimo stalliere! Quanti uomini encomiabili, quante belle
signore, quanti giovani aitanti che lo stesso ministro della sanità avrebbe giudicato
sani come pesci, fecero merenda la mattina con i loro parenti, conoscenti e amici,
130  e la sera cenarono nell’altro mondo con i loro defunti!
Rincresce a me per primo di continuare a avvilupparmi in tante miserie, perciò,
volendo tralasciare quella parte che posso tralasciare senza danno del racconto,
mi limiterò a dire che, quando la nostra città era ormai quasi vuota, accadde (l’ho
sentito io stesso da persona degnissima di fede) che un martedì mattina nella venerabile
135  chiesa di Santa Maria Novella si ritrovassero sette ragazze a assistere con
pochissimi altri all’offizio divino, tutte vestite a lutto come andava a pennello a un
tempo tanto funebre. Fra di loro c’erano legami di amicizia o di buon vicinato o di
parentela, nessuna che avesse compiuto i ventotto anni né fosse minore di diciotto,
tutte di spiccata intelligenza, perbene e di belle fattezze, costumi impeccabili
140  e mirabile integrità di carattere. Direi anche i loro nomi propri senza ricorrere a
pseudonimi se non mi trattenesse il timore di recargli pregiudizio in futuro per le
cose che qui si accingono a raccontare e a ascoltare, visto che al giorno d’oggi le
leggi dei piaceri sono alquanto repressive mentre a quel tempo, come ho già detto,
erano di manica larga sia per le donne della loro età sia per quelle degli -anta e
145  passa. Non vorrei in alcun modo dare materia di pettegolezzi agli invidiosi, così
pronti a mordere specialmente là dove non c’è presa per le loro linguacce, per sminuire
con dicerie e storpiature la reputazione delle mie ammirevoli raccontatrici.
Perché si comprenda senza far confusione ciò che disse ognuna, gli daremo un
nome più o meno in sintonia con le sue specifiche caratteristiche: la prima, dunque,
150  quella più su con i suoi anni, la chiameremo Pampinèa e la seconda Fiammetta.
Filomena la terza e la quarta Emilia, Lauretta la quinta e Neifile la sesta e
l’ultima Elissa – questa era appena stata piantata dal moroso.
Queste magnifiche sette si ritrovarono in un angolo della chiesa senza uno
specifico proposito; una dopo l’altra si erano messe a sedere quasi in cerchio, in
155  un silenzio cadenzato solo dai sospiri, visto che nessuna recitava più il rosario. Si
ritrovarono a parlare del più e del meno. [...]

[Pampinea lancia la proposta di reagire al presente stato di prostrazione della città e di
pericolo per le loro stesse vite, lasciando Firenze per un’amena destinazione. Filomena accenna
però alle difficoltà che incontrerebbe il loro gruppo senza un accompagnamento maschile;
quand’ecco che, proprio in quel momento, entrano in chiesa tre giovani uomini, i cui nomi
fittizi sono Panfilo, Filostrato e Dioneo. A loro le fanciulle decidono di estendere l’idea: alla
richiesta di accompagnarle, essi accettano di buon grado. Il giorno seguente la brigata dei
dieci lascia Firenze, insieme con la servitù, per raggiungere un luogo che dista soltanto due
miglia dalla città.]
Questo luogo si trovava su una collina distantissima da ogni via di comunicazione
costellata di arbusti e piante verdeggianti; sul cocuzzolo c’era un palazzo con
un gran bel cortile al centro e con logge tuttintorno, e sale e camere bellissime e
160  differenti l’una dall’altra, tutte decorate da affreschi ragguardevoli. Il palazzo era
circondato da praticelli e giardini meravigliosi con zampilli di acqua freschissima;
un’arcata della cantina era occupata fino al soffitto da otri di vino prezioso, cosa più
adatta a dei diligenti bevitori che non a delle ragazze sobrie e costumate. [...]

[Si stabilisce di eleggere, per ogni giorno, un re o una regina che stabilisca per tutti le
regole della convivenza. Per la Prima giornata la regina sarà Pampinea, che propone di
trascorrere il tempo «novellando».]

La neo-eletta regina licenziò la vivace brigata, e i giovani e le belle, cicalando
165  amabilmente, si diressero a passo lento verso un giardino, dove intrecciarono
ghirlande con svariati arbusti cantando fiorinfiorello. Dopo essersi trastullati tutto
il tempo concesso dalla regina, tornarono a casa e strabiliarono nel vedere che
Parmeno aveva già messo in pratica i compiti appena affidatigli: nella sala a pianterreno
le tavole erano state apparecchiate con tovaglie bianchissime, i bicchieri
170  sembravano d’argento e fiori di ginestra erano sparsi ovunque. Dopo che la regina
ebbe dato l’esempio di versarsi l’acqua sulle mani, tutti fecero altrettanto e ci si
mise a sedere secondo la disposizione voluta da Parmeno. Cominciarono a arrivare
vivande delicatissime e vini finissimi, e i tre famigli diedero il via al servizio
alle tavole. Fu una cuccagna per la vista e il palato, tutti mangiarono fra chiacchiere
175  e lazzi piacevolissimi e, levate le tavole, visto che c’era chi sapeva suonare,
chi cantare e tutti indistintamente carolare, la regina fece portare gli strumenti e
ordinò a Dionèo di prendere un liuto, a Fiammetta una viola e i due cominciarono
a suonare una deliziosa carola. Mandata la servitù a mangiare, la regina e le
altre donne scesero subito in pista e, mettendosi a volteggiare con i due giovani,
180  si persero ben presto nella danza, terminata la quale ripassarono un repertorio
di canzoni birichine e gentili. Continuarono fino a che alla regina sembrò giunta
l’ora di andare a dormire e, col suo permesso, i tre giovani si ritirarono nelle loro
camere – separate da quelle delle ragazze – che trovarono con i letti ben rincalzati
e cosparsi di fiori come le tovaglie nella sala. Anche le donne, spogliatesi, si coricarono
185  facendosi largo tra i fiori.
Erano appena suonate le tre che la regina, levatasi, fece chiamare ragazze e
ragazzi, dicendo che non faceva bene poltrire troppo di giorno, e se ne andarono
in un praticello d’erba verde e alta dove il sole non batteva da nessuna parte e
qui, nella brezza di un venticello, la regina fece cenno di disporsi tutti in cerchio
190  sull’erba, dicendo:
«Come potete vedere, il sole picchia forte e fa un caldo boia. Solo le cicale
hanno fiato per barcamenarsi fra gli ulivi. Sarebbe da sciocchi spostarsi adesso
da qualche parte col caldo che fa. È bello stare qui al fresco e abbiamo tavolieri e
scacchiere, se ci va di giocare. Secondo me, invece di giocare, cosa che scontenta
195  sempre una delle parti senza peraltro gran divertimento dell’altra o di chi sta a
guardare, potremmo raccontare delle storie per dimenticarci di quest’afa, il che,
con l’inventiva di uno, può divertire tutti gli altri. Non avrete finito di dire una
storia ciascuno che il sole sarà calato e con lui la calura, e poi potremo andare a
passeggiare. Se la mia proposta vi piace, e sono convinta di interpretare i vostri
200  desideri, mettiamola in atto. Se non vi piace, o quando cominciate a stufarvi, ciascuno
farà come preferisce fino all’ora del tè».
Donne e uomini furono consenzienti per le storie.
«Dunque» disse la regina «se siete d’accordo, per questa prima giornata voglio
che ognuno sia libero di parlare di ciò che gli passa per la testa.»

 pagina 388 

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Questo lungo brano che Aldo Busi riscrive dall’Introduzione alla Prima giornata può essere suddiviso in due parti: nella prima si descrivono i terribili effetti della pestilenza del 1348; nella seconda si narra di come sette fanciulle e tre giovani decidano di rifugiarsi in un luogo ameno fuori città, stabilendo in seguito di occupare il proprio tempo narrando ciascuno una novella ogni giorno (esclusi il venerdì e il sabato, dedicati alle preghiere). La descrizione della peste è attenta e minuziosa. Boccaccio, però, non si limita a sottolineare la gravità del male o a elencare le scene orribili a cui la malattia ha dato origine, ma si sofferma ad analizzare le conseguenze morali e civili da essa provocate. In particolare l’autore mostra come la peste abbia finito per soffocare i sentimenti migliori degli esseri umani, quali la pietà e la carità nei confronti dei propri simili.

La peste ha dunque provocato una situazione di sostanziale disordine morale: gli animi delle persone si sono induriti, gli infermi vengono spesso abbandonati, l’autorità delle istituzioni, religiose e laiche (r. 36) è venuta meno, si è diffusa una generale dissolutezza ecc. A tutto ciò reagisce la brigata dei dieci giovani, scegliendo di ricostituire, in un luogo lontano dal contagio della malattia e dai suoi effetti devastanti, quelle basi di moralità e civiltà che a Firenze sembrano fortemente compromesse. Tutto è bello e ordinato: appare chiaro, così, come il palazzo, il giardino (rappresentato secondo i canoni tipici del topos classico del locus amoenus*: l’erba, l’ombra, la brezza ecc.), la stessa organizzazione quotidiana del tempo della brigata siano nettamente contrapposti a quanto ci si è lasciato alle spalle. Si tratta, in qualche modo, di rifondare la civiltà, riscrivendone le regole: ciò dimostra come l’intento di Boccaccio sia quello di offrire, con quest’opera, non soltanto svago e diletto, ma anche un preciso quadro di valori etici e sociali.

Uno scrittore completamente immerso nella mentalità medievale, se avesse scelto di trattare in una propria opera la peste e le sue conseguenze, avrebbe improntato questa descrizione a intenti morali e religiosi ben definiti, parlando del terribile flagello come di una punizione divina e sollecitando così, nei suoi lettori, un memento mori, cioè una riflessione sulla precarietà della vita terrena. Invece nella nuova prospettiva di Boccaccio, lo scrittore – che pure alla peste annette, come abbiamo visto, un significato simbolico (la disgregazione della civiltà ecc.) – si lascia guidare, da un certo punto in poi, dal puro gusto del narrare. In altre parole, il teatro della peste è funzionale soprattutto a far sentire maggiormente la dolcezza del vivere: l’«orrido cominciamento» della peste serve a far risaltare ancora di più la serenità del luogo dove si rifugiano i dieci giovani. Non appena essi vi giungono, gli orrori dell’epidemia sono per loro già un lontano ricordo.

 pagina 389 

Tuttavia il significato della cornice non si esaurisce in quanto abbiamo detto sin qui: le sue valenze sono, a giudizio di alcuni critici, anche altre. Per esempio per lo studioso Franco Cardini la cornice del Decameron, con le tragiche descrizioni del sovvertimento sociale e familiare causato dalla peste, è comparabile alla «selva oscura» del primo canto della Divina Commedia. Allo stesso modo il percorso compiuto dai dieci giovani nei dieci giorni che trascorreranno narrando è equiparabile a un cammino iniziatico, a un viaggio all’interno di sé stessi, all’attraversamento del male per il raggiungimento del bene o, come diremmo oggi, a una sorta di “terapia di gruppo”, grazie alla quale vengono superati il senso di morte e i traumi causati dalla pestilenza (molti dei giovani, e specialmente delle giovani, sembrano aver perso tutti i propri familiari), ma anche e soprattutto le conseguenze negative di un’etica debole o corrotta.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE E ANALIZZARE

1 Come evitare il contagio Sintetizza le quattro diverse teorie relative al modo di sfuggire la peste e i comportamenti che ne conseguono.


2 La condanna di Boccaccio Quali comportamenti dei suoi concittadini durante la peste sono particolarmente biasimati da Boccaccio e perché?


3 Una brigata degna di stima L’autore ha molto a cuore l’onorabilità e la rispettabilità dei componenti della brigata: da che cosa lo si capisce?


4 L’importanza di raccontare Per quale motivo Pampinea propone di passare il tempo novellando? A quale altro passatempo lo contrappone e perché?

INTERPRETARE

5 Gli ideali della brigata A quali principi e valori si ispira la vita della brigata nel palazzo? Sono valori cortesi o borghesi? Esponi le tue considerazioni.

Educazione CIVICA – Spunti di realtà

OBIETTIVO
3 SALUTE E BENESSERE


Nella parte iniziale dell’Introduzione (r. 16) Boccaccio descrive come, all’infuriare dell’epidemia, molti reagirono abbandonando a sé stessi «gli infermi». Ancora oggi, specie in alcune zone del mondo (anche quelle più progredite), non sempre ai più deboli è garantito il diritto alla salute. L’articolo 32 della Costituzione italiana afferma: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».


• Ti sembra che sia sempre così? Ragiona su questo tema in un testo argomentativo, portando esempi concreti (non basati sul “sentito dire”, ma su dati e fonti autorevoli) a sostegno della tua tesi.

Letteratura attiva - volume 1
Letteratura attiva - volume 1
Dalle origini al Cinquecento