LABORATORIO - I diritti dei lavoratori

L’ORA DI CIVICA – LAVORO

LABORATORIO I diritti dei lavoratori

Lavoro e diritti. La schiavitù che ci portiamo addosso.

1. La schiavitù nel mondo antico

L’organizzazione e l’economia delle società antiche, in particolare quella greca e quella romana, erano basate sul ruolo delle schiave e degli schiavi, che costituivano una parte molto consistente delle lavoratrici e dei lavoratori in tanti ambiti, quali l’agricoltura, l’edilizia, le opere pubbliche e molto altro: si calcola che sia in Grecia sia a Roma essi costituissero il 35% della popolazione.

Nel mondo antico, chi non godeva della libertà personale non poteva esercitare i diritti di cittadinanza. Si poteva diventare schiavi e perdere la propria libertà e i propri diritti per debiti, ma gran parte degli schiavi proveniva dalle terre conquistate e costituiva un prezioso bottino di guerra. Con la crisi del III secolo e la fine dell’espansione militare dell’impero romano, l’afflusso costante di schiavi provenienti dai territori sottomessi iniziò, però, a diminuire. La diffusione del cristianesimo, inoltre, contribuì a umanizzare il trattamento degli schiavi, ma non abolì la schiavitù, che fu confermata da imperatori cristiani come Costantino e Giustiniano.

A partire dal Medioevo si diffusero poi in Europa altri tipi di sfruttamento, come la servitù della gleba, la condizione di dipendenza dei coltivatori che, pur essendo formalmente liberi, erano legati per tutta la vita alla terra che coltivavano.

La schiavitù rimase in vigore in particolare nel mondo arabo e turco, ma anche le Repubbliche di Genova e Venezia continuarono a commerciare schiavi durante il Medioevo: era infatti vietato rendere schiavi i prigionieri di guerra, ma solo nel caso in cui essi fossero già cristiani prima della conquista, mentre non c’era nessun divieto a ridurre in schiavitù persone di altre confessioni religiose.

Per dire “schiavo” si era utilizzata per secoli la parola latina servus; è dal X secolo che a questa si sostituisce progressivamente il termine sclavus, che deriva direttamente da “slavo”: in questo periodo, infatti, ebbe luogo in Occidente il primo fenomeno massiccio di vendita di schiavi slavi, provenienti dai Balcani.

DOMANDE

1. Come erano considerati gli schiavi nel mondo greco e romano? Ti suggeriamo una piccola ricerca sul pensiero del filosofo Aristotele sulla natura degli schiavi.

2. Con l’avvento del cristianesimo la schiavitù è scomparsa?

3. Da dove deriva la parola “schiavo”?

2. La schiavitù in età moderna

Nel XVI secolo la schiavitù acquisì nuovo impulso con l’avvento del colonialismo, l’occupazione e lo sfruttamento territoriale realizzati dalle potenze europee ai danni di popoli ritenuti arretrati o selvaggi.

Agli inizi del 1500 i colonizzatori europei vollero insediare nelle Americhe delle grandi piantagioni di canna da zucchero, un prodotto che fino a quel momento era stato rarissimo in Europa. La necessità di manodopera in queste coltivazioni e, successivamente, in quelle di tabacco, caffè, cotone, cacao, fece sì che i colonizzatori iniziassero a comprare schiavi sulle coste occidentali dell’Africa e a deportarli nelle piantagioni del Brasile, delle Antille e del Sud degli Stati Uniti. Si calcola che tra gli inizi del Cinquecento e l’Ottocento furono deportati nel continente americano circa 13 milioni di schiavi. Si trattò della più grande deportazione di massa della storia e di una delle più inumane. Soprattutto nel Sud degli Stati Uniti, inoltre, la schiavitù rappresentò per la prima volta un tratto permanente ed ereditario. In tutte le società schiavistiche precedenti era infatti possibile emanciparsi dalla schiavitù e non sempre questa condizione veniva ereditata dai figli; nelle piantagioni degli Stati americani del Sud, invece, la schiavitù si unì a un radicato razzismo: non potevano esistere neri liberi e anche i figli nati da unioni tra una donna nera e un uomo bianco – unioni formalmente illegali – erano automaticamente schiavi.

Nel Settecento, con l’Illuminismo, iniziò a svilupparsi tra i ceti colti un dibattito sull’ingiustizia di questo istituto, un’opinione che lentamente prese piede e che cominciò anche a ottenere qualche successo legislativo. Bisognerà comunque aspettare l’Ottocento per una vera e propria diffusione dell’abolizione della schiavitù, in qualche caso in modo traumatico, come negli Stati Uniti, dove gli stati del Sud, schiavisti, e quelli del Nord, abolizionisti, si scontrarono in una sanguinosa guerra civile, la guerra di Secessione, che durò dal 1861 al 1865.

Nella seconda metà dell’Ottocento molti Stati europei in cerca di prestigio e nuovi e più ampi sbocchi per merci e capitali diedero inizio a una febbrile corsa agli armamenti, a cui si accompagnò una politica estera più aggressiva: aveva inizio la fase dell’imperialismo.

La schiavitù era stata formalmente abolita in molti Paesi, ma violente forme di sfruttamento persistevano in numerosi territori: con la Conferenza di Berlino del 1884-85, in particolare, ebbe inizio la cosiddetta “corsa all’Africa”, che nel giro di un ventennio portò all’occupazione europea di tutto il continente. Durante la Conferenza venne giustificato l’espansionismo in nome del benessere collettivo delle nazioni e della funzione civilizzatrice della dominazione europea; fu inoltre sancito il principio di effettiva occupazione, ossia il diritto di vedersi riconosciuto il possesso dei territori occupati prima di un altro Paese.

La politica imperialista e predatoria dell’Europa contro l’Africa ha rappresentato una pagina di storia non solo drammatica ma gravida di conseguenze: gran parte del continente africano paga ancora oggi il prezzo di quella colonizzazione e stenta a risollevarsi.

Il più importante accordo internazionale nella lotta alla schiavitù è rappresentato dalla Convenzione di Ginevra del 1926 promossa dalla Società delle Nazioni e ratificata da 38 Stati, che ha condannato fortemente la schiavitù e ha dichiarato soppresso il commercio di schiavi.

DOMANDE

1. Qual è stata la più grande deportazione di schiavi della storia?

2. Quando si ebbero le prime abolizioni della schiavitù?

3. Qual è la differenza tra colonialismo e imperialismo?

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3. La schiavitù oggi

Oggi la schiavitù è illegale in tutti i Paesi del mondo, ma non è purtroppo scomparsa. Si calcola che siano attualmente presenti nel pianeta circa 40 milioni di persone in condizioni di schiavitù, un numero spaventoso, quasi quattro volte più alto del totale degli schiavi deportati dall’Africa nelle Americhe in tre secoli di tratta. Donne e ragazze rappresentano circa il 71% delle vittime della moderna schiavitù, mentre il 25% è rappresentato da bambine e bambini.

Secondo l’organizzazione Anti-slavery international, la più antica associazione abolizionista, oggi si considera schiava una persona se è obbligata a lavorare contro la sua volontà, se appartiene o è controllata da uno sfruttatore, se non ha libertà di movimento o se è stata disumanizzata – trattata come merce o comprata e venduta come un oggetto. Una parte delle persone in stato di schiavitù, soprattutto delle donne, è sfruttata illegalmente nel mercato della prostituzione e del sesso. Tuttavia ci sono schiave e schiavi anche nelle filiere di prodotti commercializzati in modo del tutto legale: la gran parte di queste persone produce i vestiti che indossiamo, raccoglie la verdura e la frutta che compriamo nei supermercati, estrae i minerali che fanno funzionare i nostri smartphone.

La schiavitù è particolarmente diffusa in Asia e in Africa, ma nessun Paese è libero da questa condizione aberrante. Nel nostro Paese, in Italia, uno studio condotto dalla Walk Free Foundation calcolava che nel 2018 vivessero in condizioni di schiavitù circa 145 000 persone prevalentemente impiegate in settori come l’agricoltura, il tessile o il lavoro domestico.

DOMANDE

1. Esistono ancora forme di schiavitù nel mondo?

2. In quali settori sono impiegate oggi le persone ridotte in condizioni di schiavitù?

3. Esistono forme di schiavitù in Italia?

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4. Schiavitù e vestiti

Il settore della moda è fra le prime cinque industrie che contano il maggior numero di lavoratori e soprattutto lavoratrici vittime di moderna schiavitù. Per raccontare il rapporto molto stretto tra moda e schiavitù, bisogna anzitutto analizzare il nuovo sistema di produzione mondiale del tessile e del settore moda, che viene normalmente definito fast fashion.

La fast fashion nasce tra la fine degli anni Novanta e i primi anni 2000 ed è un sistema in cui l’azienda controlla tutto il processo di produzione, dall’ideazione alla vendita. Un tempo il sistema della moda si fondava su quattro collezioni, corrispondenti alle quattro stagioni: autunno, inverno, primavera, estate. Nella fast fashion, invece, le collezioni sono fino a 24 all’anno, ovvero sei volte di più. Questo perché le aziende vogliono che il consumatore trovi abiti nuovi ogni volta che entra in un negozio del brand, e sia così spinto a nuovi acquisti, anche se ha comprato vestiti appena 2-3 settimane prima. E il cliente può comprare nuovi abiti perché il prezzo a cui sono venduti è basso, anzi bassissimo. Questa strategia di mercato per aumentare gli acquisti ha funzionato: si calcola che il consumo di abiti negli Stati Uniti, per esempio, oggi sia cinque volte più alto che negli anni Ottanta. Ma il prezzo basso che il consumatore trova in negozio ricade sulle lavoratrici e sui lavoratori che raccolgono il cotone nelle piantagioni, che tessono e tingono i tessuti, che confezionano gli abiti.

In due tra i principali Paesi produttori di cotone, l’Uzbekistan e il Turkmenistan, a causa dell’enorme richiesta di materia prima a basso costo da parte dell’industria della moda, i governi per anni ogni autunno hanno costretto più di un milione di persone ad abbandonare il proprio lavoro e recarsi nei campi a raccogliere il cotone. Negli ultimi anni questo fenomeno si è attenuato, ma sono ancora tantissimi i ragazzi e le ragazze dai 7 anni in su che sono sfruttati nella raccolta del cotone e sottratti alla scuola.

Nel 2013 un evento drammatico ha rivelato al mondo le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori del tessile: il crollo strutturale del Rana Plaza, un intero palazzo di otto piani in Bangladesh occupato da varie fabbriche tessili, in cui si lavorava senza sicurezza e in condizioni di sovraffollamento per produrre abbigliamento destinato a numerosi marchi di fast fashion. Sull’edificio erano state notate alcune crepe ed era stato emanato un ordine di chiusura, che era però stato ignorato. Durante il crollo hanno perso la vita più di mille operaie e operai. In seguito a questo evento, e alle molte proteste che sono seguite, molte aziende hanno iniziato a dichiarare di voler ricorrere nella loro produzione a lavoratrici e lavoratori che operano in sicurezza e cui vengono riconosciuti diritti e dignità. Purtroppo spesso si è trattato solo di dichiarazioni di intenti: a oggi molti brand appaltano la produzione in Paesi poveri, come Bangladesh, Cambogia, Indonesia, Vietnam; qui trovano dei fornitori che si aggiudicano il lavoro grazie al basso prezzo richiesto, subappaltandolo a loro volta ad altre aziende a un prezzo ancora più basso. E questo non avviene solo nei Paesi poveri. Nel corso del 2021, in seguito alle proteste dei lavoratori, per lo più di origine pakistana, è emerso che nel distretto tessile della città di Prato, in Toscana, alcune aziende costringono i lavoratori a turni di 12 ore al giorno, 7 giorni su 7, in cambio di paghe che si aggirano sui 500 euro al mese. Si tratta di una pratica completamente illegale nel nostro ordinamento, ma difficile da sradicare nei fatti: le aziende denunciate da lavoratori e sindacati sono state condannate e multate, ma il guadagno che ottengono dallo sfruttamento del personale è molto più alto delle sanzioni che vengono comminate. Così alle aziende conviene pagare le multe, ma non modificare le condizioni dei lavoratori.

In sostanza si può affermare che l’industria tessile, e non solo la fast fashion, ma anche i brand costosi o costosissimi, troppo spesso fondano la propria produzione sullo sfruttamento della manodopera a basso costo e spesso vittima di moderna schiavitù.

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DOMANDE

1. Che cos’è la fast fashion?

2. Quali sono le conseguenze del prezzo basso degli abiti che compriamo?

3. Dopo il crollo del Rana Plaza, i brand della moda hanno cambiato il loro sistema di produzione?

5. L’insostenibile sistema della moda

Il sistema di produzione del tessile è sicuramente insostenibile dal punto di vista sociale, perché, come abbiamo visto, si fonda sulla povertà e sulla mancanza di condizioni di lavoro dignitose di chi produce materialmente i vestiti lungo tutta la filiera, dalle materie prime fino al confezionamento. Il tessile, inoltre, è la seconda industria per emissioni di gas serra, subito dopo l’industria alimentare. Si tratta di un tipo di industria altamente inquinante: in tutte le fasi di produzione del tessile gli ecosistemi terrestri e acquatici subiscono danni di lunga durata a causa delle emissioni di biossido di carbonio e dello scarico di coloranti e di sostanze caustiche di vario genere. Le microfibre, in particolare, rilasciano a ogni lavaggio microplastiche che vengono ingerite da numerose specie marine che noi consumiamo abitualmente, senza sapere quali effetti di lunga durata avranno sulla nostra salute. Gli abiti prodotti in Paesi molto lontani devono inoltre essere trasportati fino ai nostri negozi, e anche questo contribuisce alle emissioni globali di gas serra. Infine, il sistema della fast fashion ha prodotto un generalizzato sovraconsumo di abiti, e questo è particolarmente insostenibile per il pianeta. Basti pensare che per produrre una singola maglietta sono necessari circa 2700 litri d’acqua, ovvero il fabbisogno sufficiente a dissetare un essere umano per circa due anni e mezzo. È evidente che non è possibile portare avanti questi ritmi di produzione senza alterare o esaurire irrimediabilmente le risorse limitate del pianeta, prima fra tutte l’acqua.

Più consumo di abiti, inoltre, vuol dire anche più rifiuti tessili: secondo i calcoli dell’Environmental Protection Agency (EPA), il 48% dei consumatori e delle consumatrici occidentali getta via abiti ancora in buono stato. Ogni anno vengono buttati via 14 milioni di tonnellate di abiti e l’84% di questi finisce in discarica o negli inceneritori, aumentando l’inquinamento da anidride carbonica. Eliminare questi rifiuti riciclando i vestiti equivarrebbe a togliere 7,3 milioni di auto e le loro emissioni dalla circolazione: un risultato non da poco.

L’Unione Europea dal 2020, nell’ambito del Green Deal Europeo, e più nello specifico nel Piano per l’economia circolare, ha messo in evidenza le responsabilità del tessile nella produzione di inquinamento e rifiuti, e ha richiesto un cambiamento nel sistema della moda. Nel marzo del 2022, inoltre, il Parlamento Europeo ha emanato una comunicazione in cui chiede una serie di cambiamenti da attuare: «Entro il 2030 i prodotti tessili immessi sul mercato dell’UE saranno durevoli e riciclabili, in larga misura costituiti da fibre riciclate, privi di sostanze pericolose e prodotti nel rispetto dei diritti sociali e dell’ambiente. I consumatori beneficiano più a lungo di tessili di elevata qualità a prezzi accessibili, la moda rapida è fuori moda e vi è un’ampia disponibilità di servizi di riutilizzo e riparazione economicamente vantaggiosi. In un settore tessile competitivo, resiliente e innovativo, i produttori si assumono la responsabilità dei loro prodotti lungo la catena del valore, anche quando tali prodotti diventano rifiuti. L’ecosistema tessile circolare è prospero e si fonda su capacità sufficienti per il riciclaggio innovativo a ciclo chiuso, mentre l’incenerimento e il collocamento in discarica dei tessili sono ridotti al minimo». La nuova strategia dell’UE si compone di ventiquattro azioni tra iniziative legislative, campagne di sensibilizzazione e linee guida da mettere in atto nei prossimi due anni. La Commissione chiede di ridurre il numero di collezioni per anno, promuovere collezioni di seconda mano, creare servizi di ritiro e riparazione. Si parla anche di rendere obbligatoria la raccolta differenziata degli abiti, di fissare per legge il livello minimo di utilizzo di fibre riciclate, di imporre il divieto di distruggere gli abiti non venduti, di cambiare la modalità di prelavaggio industriale per evitare o ridurre fortemente lo sversamento di microplastiche negli ecosistemi acquatici. Come dichiara la stessa Commissione Europea, «fast fashion is out of fashion»: è arrivato il momento di far passare di moda la fast fashion.

DOMANDE

1. Consultate a coppie le infografiche elaborate dalla commissione UE sull’impatto ambientale della produzione tessile ed elaborate una breve esposizione sulle principali ricadute negative della produzione tessile sull’ambiente.

2. Consultate l’Agenda 2030: quali obiettivi, a vostro parere, sono violati dal sistema di produzione della moda?

3. L’UE sta facendo qualcosa per ovviare ai danni del sistema della moda? Che cosa? Secondo voi le misure intraprese sono sufficienti?

Tempo, spazio, storia - volume 1
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Dalla Preistoria alla crisi di Roma repubblicana