4. Schiavitù e vestiti
Il settore della moda è fra le prime cinque industrie che contano il maggior numero di lavoratori e soprattutto lavoratrici vittime di moderna schiavitù. Per raccontare il rapporto molto stretto tra moda e schiavitù, bisogna anzitutto analizzare il nuovo sistema di produzione mondiale del tessile e del settore moda, che viene normalmente definito fast fashion.
La fast fashion nasce tra la fine degli anni Novanta e i primi anni 2000 ed è un sistema in cui l’azienda controlla tutto il processo di produzione, dall’ideazione alla vendita. Un tempo il sistema della moda si fondava su quattro collezioni, corrispondenti alle quattro stagioni: autunno, inverno, primavera, estate. Nella fast fashion, invece, le collezioni sono fino a 24 all’anno, ovvero sei volte di più. Questo perché le aziende vogliono che il consumatore trovi abiti nuovi ogni volta che entra in un negozio del brand, e sia così spinto a nuovi acquisti, anche se ha comprato vestiti appena 2-3 settimane prima. E il cliente può comprare nuovi abiti perché il prezzo a cui sono venduti è basso, anzi bassissimo. Questa strategia di mercato per aumentare gli acquisti ha funzionato: si calcola che il consumo di abiti negli Stati Uniti, per esempio, oggi sia cinque volte più alto che negli anni Ottanta. Ma il prezzo basso che il consumatore trova in negozio ricade sulle lavoratrici e sui lavoratori che raccolgono il cotone nelle piantagioni, che tessono e tingono i tessuti, che confezionano gli abiti.
In due tra i principali Paesi produttori di cotone, l’Uzbekistan e il Turkmenistan, a causa dell’enorme richiesta di materia prima a basso costo da parte dell’industria della moda, i governi per anni ogni autunno hanno costretto più di un milione di persone ad abbandonare il proprio lavoro e recarsi nei campi a raccogliere il cotone. Negli ultimi anni questo fenomeno si è attenuato, ma sono ancora tantissimi i ragazzi e le ragazze dai 7 anni in su che sono sfruttati nella raccolta del cotone e sottratti alla scuola.
Nel 2013 un evento drammatico ha rivelato al mondo le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori del tessile: il crollo strutturale del Rana Plaza, un intero palazzo di otto piani in Bangladesh occupato da varie fabbriche tessili, in cui si lavorava senza sicurezza e in condizioni di sovraffollamento per produrre abbigliamento destinato a numerosi marchi di fast fashion. Sull’edificio erano state notate alcune crepe ed era stato emanato un ordine di chiusura, che era però stato ignorato. Durante il crollo hanno perso la vita più di mille operaie e operai. In seguito a questo evento, e alle molte proteste che sono seguite, molte aziende hanno iniziato a dichiarare di voler ricorrere nella loro produzione a lavoratrici e lavoratori che operano in sicurezza e cui vengono riconosciuti diritti e dignità. Purtroppo spesso si è trattato solo di dichiarazioni di intenti: a oggi molti brand appaltano la produzione in Paesi poveri, come Bangladesh, Cambogia, Indonesia, Vietnam; qui trovano dei fornitori che si aggiudicano il lavoro grazie al basso prezzo richiesto, subappaltandolo a loro volta ad altre aziende a un prezzo ancora più basso. E questo non avviene solo nei Paesi poveri. Nel corso del 2021, in seguito alle proteste dei lavoratori, per lo più di origine pakistana, è emerso che nel distretto tessile della città di Prato, in Toscana, alcune aziende costringono i lavoratori a turni di 12 ore al giorno, 7 giorni su 7, in cambio di paghe che si aggirano sui 500 euro al mese. Si tratta di una pratica completamente illegale nel nostro ordinamento, ma difficile da sradicare nei fatti: le aziende denunciate da lavoratori e sindacati sono state condannate e multate, ma il guadagno che ottengono dallo sfruttamento del personale è molto più alto delle sanzioni che vengono comminate. Così alle aziende conviene pagare le multe, ma non modificare le condizioni dei lavoratori.
In sostanza si può affermare che l’industria tessile, e non solo la fast fashion, ma anche i brand costosi o costosissimi, troppo spesso fondano la propria produzione sullo sfruttamento della manodopera a basso costo e spesso vittima di moderna schiavitù.