Fronte alpino, 1917
No, non è stato il freddo a portarlo all’esasperazione. Perché, quando pensano al Sud, tutti pensano sempre al caldo, ma da dove viene lui, dai monti della Calabria, d’inverno il freddo ti morde le ossa come un lupo affamato. E non è stato nemmeno il rancio, perché a casa sua da mangiare ce n’è sempre stato poco, e si butta giù quello che capita.
È stato il rumore. Gli scoppi. Delle bombe, delle mitraglie, dei fucili. E le urla. Dei feriti, ma anche degli ufficiali che danno ordini come cani arrabbiati, e dei compagni, che li ripetono gridando. Lui a tutto quel rumore non c’era abituato. Gli rintronava in testa, persino quando non c’era più. Giorno e notte, giorno e notte. Senza pause. Era come un guscio che lo avvolgeva. Lui che era abituato ai silenzi dei monti, delle mulattiere dove passa a dir tanto un carro alla settimana, e l’unico rumore è quello del vento fra le gole.
A un certo punto non lo ha retto più, tutto quel rumore. Gli si è spaccata la testa, come i meloni quando li tagli di netto, in estate. C’erano gli spari dei cecchini sopra, e scoppi attorno, e la maschera antigas che stringeva la gola. E lui con il fucile in mano, in tutto quel caos.
Non sa come è successo, non se lo ricorda. Ma invece che sparare al nemico, hanno detto che si è sparato addosso, al piede. Lo hanno portato in infermeria, e poi arrestato e trascinato davanti alla corte marziale.
Tradimento, hanno detto.
Ora è qui, davanti al plotone di esecuzione. Lo hanno condannato a morte perché sia un esempio per gli altri. Imbracciano i fucili, i suoi compagni. Fra poco, lo sa, gli spareranno. Ancora scoppi, ancora rumore.
Ma almeno saranno gli ultimi.