Il magnifico viaggio - volume 5

cose che sono fisicamente attorno a sé: la siepe dell orto e il muro di cinta della casa, gli alberi da frutto, la strada che conduce al camposanto (quel bianco di strada, vv. 21-22), simbolo della morte come il cipresso solitario (vv. 27-28), significativamente l ultimo degli oggetti elencati. Il desiderio di oblio si appaga dunque nel vagheggiamento di un mondo ristretto, conosciuto, rassicurante, vale a dire quel «nido familiare che è l unico luogo ritenuto sicuro e che equivale a un tempo sospeso, protetto sia dai dolorosi ricordi di ciò che è stato sia dagli angosciosi presagi di ciò che sarà. Definitivo coronamento di quella pace familiare a cui il poeta anela sarà la morte, attraverso la quale egli potrà ricongiungersi idealmente ai propri cari defunti e soprattutto essere liberato dalle memorie del passato e dalle ansietà del presente e del futuro. La nebbia come simbolo Nella poesia pascoliana la nebbia è spesso presente. All inizio (all altezza cronologica di Myricae) essa viene introdotta in una chiave impressionistica, come semplice elemento naturalistico che contribuisce alla definizione, quasi bozzettistica, di un paesaggio (cfr. per esempio Arano, T6, p. 459). Più avanti (nei Canti di Castelvecchio), invece, essa crea un atmosfera irreale, percorsa da sinistre apparizioni, e offre un immagine non pacificata della natura quale entità inquieta e allusiva. La nebbia assurge così a un equivalente metaforico della vita. A proposito della nebbia (come, del resto, a proposito di altre presenze tipiche della poesia pascoliana, quali gli uccelli o le campane) si assiste, insomma, a un passaggio «dal naturalistico al simbolico (Nava), che arricchisce i testi di più complesse valenze. Infatti nei Canti di Castelvecchio, la raccolta da cui è tratta questa lirica, la natura non è mai descritta in termini neutri e oggettivi, bensì è piegata a esprimere l universo interiore del poeta, di cui diventa il corrispettivo analogico. Una fonte indiana per Pascoli? Nella biblioteca pascoliana di Castelvecchio figura un esemplare della Bhagavadg ta (in sanscrito Il canto del Beato ) tradotto e commentato dal glottologo e indianista Michele Kerbaker (1835-1914), con il quale Pascoli fu peraltro in rapporto epistolare. Si tratta di un poema filosofico-religioso indiano (intercalato nel Maha bha rata) che rappresenta il testo sacro più diffuso fra milioni di indiani che venerano in esso la parola divina di Vis.n.u. La parola suadente e illuminatrice del dio si fonda sull inesistenza di ogni forma sensibile, sull idea del dovere e sulla fede. Nell introduzione all edizione di quel testo posseduta da Pascoli, Kerbaker accostava la metafisica brahmanica sia all evoluzionismo di Darwin sia alla filosofia negativa di Schopenhauer e Leopardi. Esponendo i princìpi del brahmanesimo, scrive Kerbaker: «Saggio e beato quell uomo, che pure in questa vita, sgombro l animo da ogni inqueta passione, rinunciando ad ogni desiderio e speranza, si acqueta nel pensiero della sua emancipazione finale! . E più avanti: «Dalla conoscenza che ha l uomo della vera natura dell Essere e del fine dell universo, è eccitato a svincolarsi dai legami dell esistenza transitoria, ed a dimenticare tutte le cure e gli affetti che l accompagnano. Di qui nasce la virtù dell astensione od abnegazione di se stesso . Non possiamo escludere anzi sembra probabile che Pascoli, nel comporre una poesia come Nebbia, potesse avere presenti questi riferimenti filosofico-religiosi di provenienza orientale. Le parole-chiave dell autoesclusione dal reale Le scelte stilistiche Il testo è articolato su pochi versi, nei quali ricorrono insistentemente alcune parole-chiave. Lontane (alla fine del primo verso di ogni strofa) è una di esse, come anche il verbo nascondere (all inizio del primo verso di ogni strofa, poi ripetuto al v. 8, nascondimi, e al v. 26, nascondile), al quale si contrappone il verbo vedere (ch io veda, ai vv. 9, 15, 21 e 27). Il poeta chiede infatti alla nebbia di operare ai fini della percezione che egli ha della realtà una severa selezione di oggetti e di presenze, nascondendone alcune (quelle lontane) e facendogliene vedere altre (quelle vicine). Spia lessicale di tale rigorosa cernita sono gli avverbi soltanto (vv. 9 e 16) e solo (vv. 21 e 29, mentre al v. 28 lo stesso vocabolo sembra essere aggettivo). Distanziatosi dalle cose più impegnative e dolorose (pensieri, ricordi, ambizioni, aspirazioni) il poeta rimane così solo con sé stesso, crogiolandosi in una compiaciuta voluttà di regressione al rassicurante «nido costituito dalle presenze più care, dagli alberi del frutteto al fedele cane sonnacchioso. 500 / IL SECONDO OTTOCENTO

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento