Pagine di realtà - Lavoro agile o lavoro alienante?

Educazione CIVICA – Pagine di realtà

Lavoro agile o lavoro alienante?

Non abbiamo una manovella in mano da girare compulsivamente come Serafino Gubbio, ma ci ritroviamo sempre più spesso, quasi senza rendercene conto, davanti a uno schermo, secondo le modalità lavorative – già in atto da qualche tempo ma accelerate dalla recente pandemia – che si è solito riassumere con l’espressione inglese smart working (in italiano, “lavoro agile”). Si tratta di un nuovo approccio legato a funzioni e obiettivi tipici di un’organizzazione aziendale, ma sempre più estesi anche nell’ambito dell’amministrazione pubblica che in tal modo conta di trarre benefici in termini di efficienza produttiva e di riduzione di spese. Ma per i lavoratori? Quali sono le conseguenze di questa forma di organizzazione del lavoro? Nell’articolo seguente il giornalista Martino Galliolo intervista un esperto di processi manageriali sui rischi e sulle criticità legate a questa nuova frontiera del lavoro subordinato.

“Gli spazi sociali si sono ridotti alle dimensioni di uno schermo piatto. Con il distanziamento sociale imposto dal Coronavirus anche il lavoro si è trasferito in videoconferenza. La metà della forza lavoro americana lavora da casa. In Germania il Ministro del lavoro ha proposto una legge per permettere agli impiegati di restare a casa a tempo pieno o qualche giorno a settimana. La piattaforma per le videoconferenze Zoom, la più utilizzata, è decollata in borsa. Insegnanti, studenti, professionisti e impiegati di ogni sorta si sono ritrovati da un momento all’altro alle prese con piattaforme digitali e in molti hanno dovuto a fare i conti i gigabyte disponibili, mettendo così in risalto il problema del divario digitale e dell’accesso a Internet senza limiti di tempo. Queste piattaforme ci aiutano a continuare a lavorare, e a fare lezione, ma le videoconferenze e le attese davanti al monitor prosciugano le nostre energie. Ci rendono esausti. Lo schermo si blocca. Siamo subissati dalle notifiche. Decine di persone che ci guardano. I lunghi silenzi imbarazzanti. Sono tutti elementi che provocano stress, e alla lunga stanchezza, e fatica. È difficile da riconoscere, si insinua nelle nostre menti, come un effetto collaterale che complica la nostra vita sociale.

«Stiamo sperimentando gli effetti della fatica digitale», racconta a Rivista Studio Gianpiero Petriglieri, professore di Organizational Behaviour, all’Institut européen d’administration des affaires (Insead), psichiatra e psicoterapeuta, che si occupa di qualità sul posto di lavoro e processi manageriali. Gli esperti concordano, e non da poco per la verità, che le interruzioni e i rallentamenti legati alla comunicazione in videochat possono provocare nei partecipanti un senso di isolamento e inquietudine. Un solo ritardo al telefono o in videoconferenza di 1,2 secondi, fa in modo di percepire l’interlocutore come meno amichevole o concentrato, rileva uno studio del 2014. Da tempo, chi da anni lavora in remoto ne riconosce gli effetti sulla propria vita e relazioni. «Le interruzioni e i vuoti comunicativi vengono assiduamente compensati dai nostri sensi con un enorme sforzo. Tutto questo, stanca», spiega Petriglieri, «Le pause che costituiscono il ritmo di una normale conversazione faccia a faccia, in una videoconferenza provocano ansia per il malfunzionamento della tecnologia: mettono le persone a disagio. Siamo confinati nel nostro spazio, in un contesto pandemico che può provocare crisi di ansia, e il nostro unico luogo per interagire è la finestra di un computer o lo schermo di uno smartphone».

«Le videoconferenze richiedono un enorme sforzo», continua l’esperto, «e si innesca così l’effetto della dissonanza cognitiva: l’esperienza di due sentimenti opposti vissuti allo stesso tempo. Una situazione che diventa sempre più difficile. E la videoconferenza è una esperienza di continua dissonanza: mentre l’occhio registra la vicinanza, il corpo percepisce l’opposto, la lontananza. Questo attiva un senso di perdita. E la perdita è sempre faticosa. È simile all’esperienza del lutto. Dobbiamo elaborare, consciamente o meno, la perdita degli altri, e ritrovarli ricostruendo un legame su un monitor. Nel contesto del lockdown da pandemia, utilizziamo la videochiamata non solo per sentire un amico lontano, ma la dobbiamo usare con tutti. Tutta la nostra vita sociale si è trasferita davanti a uno schermo. La videoconferenza è diventata un obbligo, non una scelta. Non importa se lo chiami virtual happy hour, è sempre una riunione, perché molti usano per la vita privata gli stessi strumenti digitali che usano per lavoro».

C’è un’altra questione importante: l’effetto del palcoscenico. «Partecipando a un incontro a distanza si deve fare i conti con il fatto che spesso decine di persone ti stanno guardando. Ti fissano proprio come se fossi in un palcoscenico. Per molti di noi questo costituisce un enorme fattore di stress. La cosa peggiore in tutto questo è proprio che tu stesso sei parte di questo pubblico che ti sta guardando. E si traduce nella strana sensazione dell’impulso continuato a controllare il proprio comportamento. È un meccanismo molto depersonalizzante», spiega ancora Petriglieri. Questo senso di affaticamento si protrae anche oltre l’orario di lavoro, per questo gli esperti consigliano di spegnere la videocamera appena possibile, di mettersi di lato e non in posizione frontale davanti all’obbiettivo, di utilizzare le e-mail più spesso, e anche di attivare la funzione «non disturbare» alla fine di una giornata di lavoro in remoto. Il distanziamento sociale imposto dalla pandemia, per proteggere la salute dei lavoratori, potrebbe diventare anche una buona motivazione per incentivare le imprese che assumono in remoto, «ma non vorrei che il cambiamento renderà l’ufficio solo una “questione per pochi”, dedicato a un gruppo manageriale ristretto, con il rischio che le aziende assumeranno in remoto uno stuolo di freelance, sottopagandoli», conclude Petriglieri.”


(Martino Galliolo, La nuova fatica digitale, “RivistaStudio”, 10 giugno 2020)

LEGGI E COMPRENDI

1 Perché basta un ritardo di pochi secondi a un appuntamento on line per causare stress e inquietudine?


2 Quale devastante impatto sociale viene determinato dal lavoro agile?

RIFLETTI, SCRIVI, SOSTIENI

3 Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzata dall’assenza di vincoli orari o spaziali e da un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro. In linea teorica tale modalità dovrebbe aiutare il dipendente a conciliare i tempi di vita e lavoro favorendo al contempo la crescita della sua produttività. Tuttavia, la qualità dell’esistenza quotidiana non sempre ne ricava un miglioramento. Tutta la nostra vita rischia di ruotare attorno al lavoro e le nostre stesse abitazioni potranno acquistare una funzione nuova: non più solo luoghi dove dormire, cucinare e mangiare, stare insieme e conservare le nostre cose, ma anche luoghi per lavorare. Discutine in classe esprimendo il tuo punto di vista.

Per fare ricerca

Puoi trovare la definizione di smart working nella legge n. 81/2017, che pone l’accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come, ad esempio, pc portatili, tablet e smartphone).

Il magnifico viaggio - volume 5
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