T6 - Lo strappo nel cielo di carta

T6

Lo strappo nel cielo di carta

Il fu Mattia Pascal, cap. 12

Mattia Pascal, sotto il nome di Adriano Meis, alloggia a Roma, in casa di Anselmo Paleari. Alla bizzarra figura di questo filosofo-spiritista sono di frequente affidate riflessioni apparentemente poco chiare, piene di astrusi ragionamenti sui quali Mattia-Adriano ironizza con sarcasmo. Eppure, in brani come quello che segue, si trova il cuore filosofico del pensiero pirandelliano, come se il personaggio prestasse la sua voce all’autore.

«La tragedia d’Oreste1 in un teatrino di marionette!», venne ad annunziarmi il
signor Anselmo Paleari. «Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera,
alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da
andarci, signor Meis».
5      «La tragedia d’Oreste?».
«Già! D’après Sophocle,2 dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’, che
bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta
che rappresenta Oreste è per3 vendicare la morte del padre sopra Egisto e la
madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei».
10    «Non saprei», risposi, stringendomi ne le spalle.
«Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato
da quel buco nel cielo».
«E perché?».
«Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe
15    seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello
strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si
sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto.4 Tutta la differenza,
signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure:
in un buco nel cielo di carta».
20    E se ne andò, ciabattando.
Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso
precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità
di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava
riusciva di capirci qualche cosa.
25    L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase
tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: «Beate le marionette», sospirai,
«su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità
angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere
bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione
30    e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro
statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato».
 >> pagina 877

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Riprendendo con un’altra immagine metaforica i temi della Premessa seconda, Pirandello induce il lettore a riflettere sul crollo delle certezze sulle quali si era sostenuta la coscienza premoderna. L’umanità, vissuta per secoli entro un illusorio “teatro” – l’universo concepito secondo la concezione aristotelico-tolemaica, con la Terra immobile al suo centro –, scopre all’improvviso di essersi ingannata. Le rassicuranti volte celesti, ossia la fede, il sapere tradizionale, l’ordine sociale, erano in realtà soltanto un cielo di carta (r. 19) fragile e sottile, creduto vero ma in realtà solo immaginato. Quando il cielo si squarcia, mostrando un buco nero inquietante, la vita degli individui è travolta da ogni sorta di mali influssi (r. 16), che «entrano dal cielo copernicano dentro il teatro tolemaico» (Mazzacurati). L’essere umano è colto, per la prima volta, dalla vertigine dell’infinito, dalla percezione di un “oltre” sconosciuto, enigmatico e oscuro, dal quale provengono domande senza risposte.

Osservando lo strappo nel cielo di carta (r. 9), la marionetta – cioè l’essere umano – si rende conto di aver recitato: di aver ostentato certezze che, sopravvenuto il dubbio, non sono più tali. L’individuo moderno, qui rappresentato dall’eroe della tragedia greca, rimane stordito da questo epocale cambiamento del punto di vista sul mondo (Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo, rr. 11-12). La sua individualità si sfalda insieme a tutta la realtà che lo circonda; egli diventa estraneo a sé stesso e, non riconoscendosi nel sistema di certezze in cui ha da sempre riposto la sua fiducia, perde anche l’immagine mentale del proprio io. Paralizzato dal turbamento, Oreste smette di recitare la sua parte, non si riconosce più in quel mondo a misura d’uomo entro il quale tutto si muoveva in modo equilibrato e perfetto, e in cui la sua vendetta aveva un senso preciso (Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, rr. 14-16). Assediato dai dubbi e dallo sconcerto, non è più Oreste: diviene Amleto, un eroe straniato, pieno di turbamenti, indeciso, privo di una compiuta immagine di sé e del mondo, un eroe che non sa più vivere perché si guarda vivere. La condizione dell’uomo moderno, sembra dire Paleari-Pirandello, è come quella di Amleto.

Le scelte stilistiche

L’immagine del teatrino di marionette, usata per condurre il discorso sulla condizione umana prima e dopo Copernico, è presentata attraverso un espediente stilistico tipico della narrativa pirandelliana: il dialogo serrato tra due personaggi. Alle brevi domande di Mattia (La tragedia d’Oreste?, r. 5; E perché?, r. 13), dettate da un’accondiscendenza solo di superficie (in realtà egli non nutre alcun interesse per le elucubrazioni del padrone di casa), Anselmo Paleari risponde con toni diretti e colloquiali (Ma è facilissimo, signor Meis!, r. 11; Mi lasci dire, r. 14).

La chiusa didascalica, con la quale il personaggio-filosofo, dopo aver fatto lezione, esce comicamente di scena (E se ne andò, ciabattando, r. 20), è invece un perfetto esempio di quella contaminazione tra linguaggio teatrale e narrazione che rappresenta la cifra stilistica dell’autore.

 >> pagina 878

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Quale tragedia verrà rappresentata nel teatrino di marionette?


2 In quale momento della tragedia di Oreste si ipotizza che avvenga lo strappo nel cielo di carta del teatrino (r. 9)?

Analizzare

3 Perché Oreste rimarrebbe sconcertato dal buco nel cielo di carta?


4 Perché Adriano Meis invidia le marionette?


5 Quale metafora viene usata per spiegare i ragionamenti del signor Paleari? Quale significato ha?

Interpretare

6 Che cosa rappresentano Oreste e Amleto?


7 Le idee del signor Anselmo paiono agli occhi di Mattia nuvolose […] astrazioni (r. 21); egli le giudica secondo un punto di vista interno alla narrazione, disorientato in mezzo a peripezie esistenziali e intellettuali di cui ancora non conosce l’esito. Qual è invece la posizione dell’autore? Coincide con quella di Mattia?

sviluppare il lessico

8 Per molto tempo il francese è stata la lingua delle classi colte e agiate, e l’inserimento di prestiti linguistici dal francese (come D’Après Sophocle, r. 6) nella conversazione era segno di eleganza e distinzione. Conosci il significato dei seguenti termini ed espressioni? Indicalo con l’aiuto del dizionario.

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scrivere per...

argomentare

9 Il buco nel cielo di carta (r. 19) è metafora della frattura che separa il mondo delle certezze e dei sistemi coerenti da quello delle angosce esistenziali dell’uomo moderno. Narratore e autore sembrano ugualmente rimpiangere l’organica proporzione e la circolare perfezione del mondo antico. A tuo avviso tali sensazioni sono diffuse anche nel mondo attuale? Anche nella società di oggi vengono percepiti il “disagio” profondo della modernità, la mancanza di punti di riferimento e di un orizzonte trascendente al quale affidare il senso della vita? Scrivi un testo argomentativo di circa 30 righe.

T7

La filosofia del lanternino

Il fu Mattia Pascal, cap. 13

In questo brano l’autore presenta, attraverso un’altra metafora, la propria concezione dell’individuo nella modernità. Divenuta celebre con il nome di «lanterninosofia», la riflessione di Paleari-Pirandello assume la forma di un vero e proprio ragionamento filosofico, stemperato tuttavia da sottili sfumature umoristiche.

Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento
che il bujo era immaginario.
«Immaginario? Questo?», gli gridai.
«Abbia pazienza: mi spiego».
5      E mi svolse (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si
sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi
svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima,1 che si potrebbe forse
chiamare lanterninosofia.
Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi:
10    «Dorme, signor Meis?».
E io ero tentato di rispondergli:
«Sì, grazie, dormo, signor Anselmo».
Ma poiché l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli
rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare.
15    E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi
non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la
pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive.
A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci
vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori
20    di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i
tempi, i casi e la fortuna.
E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un
lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere
sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta
25    tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra
nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in
noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene
vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il
giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé
30    dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?
«Dorme, signor Meis?».
«Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto
suo lanternino».
«Ah, bene… Ma poiché lei ha l’occhio offeso,2 non ci addentriamo troppo nella
35    filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d’inseguire per ispasso le lucciole sperdute,
che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto
che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l’illusione,
gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor
Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si
40    potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si
suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore
a quei lanternoni3 che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so
io… E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana?
Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d’una
45    idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si
scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea
vi  crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi
che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che
spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell’improvviso bujo,
50    allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di
là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano
per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano
a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non
trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele.
55    Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran
bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci?
Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono
accese su le loro tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo:4

La piccola mia lampa
60    Non, come sol, risplende,
Né, come incendio, fuma;
Non stride e non consuma,
Ma con la cima tende
Al ciel che me la diè.
65    Starà su me, sepolto,
Viva; né pioggia o Vento,
Né in lei le età potranno;
E quei che passeranno
Erranti, a lume spento,
70    Lo accenderan da me.

Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l’olio sacro5 che alimentava
quella del Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell’alimento
necessario le loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a
cui mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell’esistenza, con quel loro sentimento
75    acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura riparano dal
gelido soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno accesa fin là, fino all’orlo
fatale, al quale s’affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando di
continuo: “Dio mi vede!” per non udire i clamori della vita intorno, che suonano
ai loro orecchi come tante bestemmie. “Dio mi vede…” perché lo vedono loro,
80    non solamente in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze,
che avranno un premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce
desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono
armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle
lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione.
85    Ma domando io ora, signor Meis: E se tutto questo bujo, quest’enorme
mistero, nel quale indarno6 i filosofi dapprima specularono, e che ora,
pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo
che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che
non si colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non
90    esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio
del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora
parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto,
non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo
sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato,
95    definito da questo cerchio d’ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume,
che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra
rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale,
eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo
e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia?
100  Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella
realtà della natura non esiste. Noi, – non so se questo possa farle piacere – noi
abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa
forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo, ma non lo sappiamo,
non lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso
105  ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno
com’esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere certe
cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco, che forse in un’altra forma
d’esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte risate. Risate,
signor Meis, di tutte le vane, stupide afflizioni che esso ci ha procurate, di tutte le
110  ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci fece sorgere innanzi e intorno,
della paura che c’ispirò!».
 >> pagina 881

ANALISI ATTIVA

I contenuti tematici

Tutta la speciosissima (r. 7) concezione filosofica esposta da Anselmo Paleari (nella voce del quale non è difficile sentire quella dello stesso autore) è costruita intorno a una metafora visiva semplicissima, quella di un lanternino che rappresenta l’io individuale. Mentre le piante, gli animali e gli altri elementi della natura vivono senza consapevolezza (vive e non si sente, r. 16), l’essere umano, unico tra i viventi, è condannato a “sentirsi vivere”: E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso (rr. 22-23). A differenza dell’albero che vive nel buio, cioè all’oscuro di ogni consapevolezza della propria condizione, l’essere umano osserva il mondo attraverso i vetrini colorati di questa lanterna, proiettando intorno a sé un cerchio di luce limitato e dai contorni sfumati. Come un fascio di luce che investe un personaggio sul palcoscenico, il lanternino circoscrive una ristretta zona d’azione entro la quale vivere e pensare.

L’uomo dimentica, tuttavia, che il cerchio della sua esistenza individuale in realtà non esiste: esso non è un dato oggettivo, ma una proiezione soggettiva dei propri ideali, delle fantasie e dei desideri custoditi in quella lanterna colorata; in altre parole, è frutto di un relativismo “metafisico”, che riguarda la stessa condizione ontologica dell’essere umano. Di conseguenza, anche l’ombra che dilaga al di là del cerchio di luce è un’illusione fittizia, che esiste soltanto fino a quando teniamo acceso il nostro lanternino. Io e non-io, luce e ombra, sono forme passeggere della vita universale ed eterna, che la nostra identità individuale cerca di fissare in forme stabili e definite. In quest’ottica, il timore della morte non ha senso, perché essa non fa altro che spegnere l’illusione di questo maledetto lumicino piagnucoloso (rr. 104-105), dissolvendo in un istante il sentimento d’esilio che ci angoscia (r. 99). Se la luce del lanternino ci esclude dalla vita universale, la morte, paradossalmente, ci riconcilia con essa.

 >> pagina 882 

1. Quale concezione della morte emerge da questo brano?

Se è vero che ciascuno di noi proietta intorno a sé una luce di un colore particolare (ed ecco, accanto al relativismo di cui si è già detto, anche un relativismo della morale e del pensiero), in ogni epoca certe tonalità prevalgono sulle altre. Anselmo Paleari le chiama lanternoni (r. 42), e si riferisce alle grandi astrazioni del pensiero e della morale (Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io…, rr. 42-43), alle grandi ideologie e ai sistemi di valori che dominano in un certo periodo storico. Ne cita due in particolare, quello di colore rosso della vitalistica virtù pagana e quello violetto, color deprimente (r. 44) della fede cristiana.

La luce collettiva dei lanternoni assicura agli individui un orizzonte di riferimento, un insieme di valori codificati cui fare affidamento; ma quando essa si spegne, le piccole luci colorate dei singoli uomini brulicano caotiche nello scompiglio generale (chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via, rr. 50-51). Noi – dice Paleari – viviamo proprio in una di queste epoche di angosciante disorientamento, privi di un lanternone collettivo cui guardare: l’uomo moderno si aggira spaesato nell’oscurità. Qualcuno si rivolge alla fede, qualcun altro alla scienza, tutti – sbagliando – si affannano a cercare una luce che dissipi le tenebre, non riconoscendo una verità fondamentale, ossia che tutto questo mistero non esiste fuori di noi (rr. 89-90).

2. Che cosa crea i colori delle diverse lanterne?


3. Con quale metafora viene descritta la confusione nel momento in cui uno dei lanternoni si spegne? Che immagine dell’umanità ne emerge?


4. Con quale atteggiamento sono considerati coloro che ancora si recano in chiesa ad alimentare le loro lanternucce?

Le scelte stilistiche

Pirandello espone la sua visione del mondo e tocca i punti più profondi della sua concezione dell’esistenza con il tono in apparenza leggero dell’intrattenimento («Dorme, signor Meis?». «Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino», rr. 31-33). La stessa scelta di chiamare lanterninosofia (r. 8) una teoria filosofica ha lo scopo di lasciare il lettore perplesso: il termine ironico e quasi buffo fa intendere che si tratti di uno scherzo, del vaneggiamento di un folle in cerca di un contatto con l’aldilà (tutto il discorso di Anselmo Paleari è, in prima istanza, rivolto a trovare un saldo ancoraggio ai suoi esperimenti spiritici). In realtà, l’obiettivo dell’autore – riflettere sulla condizione dell’essere umano nell’universo e sui rapporti tra individui e sistemi di valori – è tutt’altro che banale, ma è ottenuto ancora una volta con un procedimento umoristico, che all’iniziale comicità (l’«avvertimento del contrario»: una filosofia seria non dovrebbe avere un nome ridicolo) fa subentrare il «sentimento del contrario», una riflessione meditata e amara.

5. Il signor Paleari espone la propria lanterninosofia in un dialogo: rintraccia nel testo gli elementi discorsivi tipici del parlato.


6. Individua nel testo le battute ironiche con cui il narratore-protagonista Adriano Meis commenta il discorso del signor Paleari.


7. scrivere per argomentare La morte non esiste, non è l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino (r. 93). Riconoscersi parte di un tutto è l’invito rivolto da Pirandello all’uomo moderno. Il messaggio, ancora solo abbozzato nel Fu Mattia Pascal, verrà portato alle estreme conseguenze in Uno, nessuno e centomila, con l’abbandono definitivo, da parte del protagonista Vitangelo Moscarda, di ogni connotazione individuale. Prova a riflettere, in un testo argomentativo di circa 40 righe, sul concetto paradossale di un “individuo senza identità”: un essere umano che si perde nel flusso della «vita» universale è ancora tale?

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento