Il fu Mattia Pascal

Il fu Mattia Pascal

Nel Fu Mattia Pascal, uno dei suoi massimi capolavori, Pirandello porta a maturazione la critica radicale al romanzo naturalista, arrivando a capovolgerne la struttura narrativa. Senza alcuna pretesa di linearità e completezza logico-cronologica, il protagonista della vicenda raccoglie in un memoriale i casi straordinari che gli sono accaduti, mescolando le voci narranti in una trama di ricordi personali alternati a considerazioni filosofiche che, proprio come il suo occhio strabico, appaiono stranianti e «sbalestrate». La sua è la storia di un uomo che nel tentativo di acquisire una nuova identità perde anche quella che aveva: definitivamente smarrito e spersonalizzato, per sé stesso e per gli altri non sarà che un «fu», simbolo di una tragica condizione umana.

Genesi e composizione

Il fu Mattia Pascal, uscito a puntate sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1904 e ripubblicato in volume nello stesso anno, vede la luce in un momento cruciale della vita di Pirandello. All’indomani del tracollo finanziario della famiglia e del conseguente aggravarsi della malattia mentale della moglie, lo scrittore si trova costretto a lavorare senza sosta e su diversi fronti.

La scrittura frenetica di questo periodo non è solo necessaria a incrementare le entrate, ma diviene soprattutto rifugio e consolazione dalle angustie familiari: Pirandello vi si dedica per «distrazione», proprio come farà il protagonista del romanzo, Mattia Pascal, alla fine della sua bizzarra vicenda. Scrive quasi di getto, completando la stesura in poco tempo: a differenza di altre opere, concluse dopo una lunga gestazione, Il fu Mattia Pascal pare scaturire all’improvviso dalla fantasia dell’autore, senza una particolare incubazione.

Il romanzo si articola in 18 capitoli, seguiti da un’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia aggiunta all’edizione del 1921. I primi due sono costituiti da una doppia Premessa, secondo un modulo diffuso nella letteratura umoristica; Pirandello, del resto, dichiarerà apertamente il legame tra quest’opera e la sua riflessione poetica dedicando il saggio sull’Umorismo del 1908 alla «buon’anima di Mattia Pascal, bibliotecario». Questo eroe tragicomico, «fuori di chiave» e orfano di ogni certezza, rappresenta la prima grande incarnazione dell’umorismo pirandelliano, portato poi alle estreme conseguenze da Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila.

Una vicenda “inverosimile”

La trama

Mattia Pascal vive in un immaginario paese della Liguria, Miragno, dove conduce un’esistenza monotona tra l’impolverata biblioteca in cui lavora e l’ambiente domestico, vissuto come un carcere. Stanco ed esasperato dai continui litigi con la moglie Romilda e la suocera, decide di allontanarsi senza dire nulla a nessuno. Giunto a Montecarlo, vince una cospicua somma di denaro al casinò, lasciandosi così alle spalle, di colpo, tutte le sue preoccupazioni economiche.

Di ritorno verso casa, in treno, legge su un giornale la notizia che i suoi familiari lo hanno riconosciuto nel cadavere di un suicida annegato in una roggia del suo podere, la Stìa. La rabbia e la stizza lasciano subito il posto a un’illuminazione: l’idea di poter cominciare una nuova vita, finalmente libero da ogni legame con il passato, di rinascere con una coscienza «vergine e trasparente». Essendo ufficialmente morto, Mattia decide di voltare drasticamente pagina e, invece di tornare in paese per chiarire l’equivoco, tenta di costruirsi una nuova identità sotto il nome di Adriano Meis.

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Dopo aver trascorso diversi mesi girovagando per l’Europa, deluso dal «senso penoso di precarietà che tien sospesa l’anima di chi viaggia», Mattia-Adriano si trasferisce a Roma, prendendo una stanza in affitto nella casa di un bizzarro personaggio, Anselmo Paleari. Qui trascorre le giornate fra le sottili disquisizioni del suo logorroico ospite e le attenzioni amichevoli della figlia di lui, Adriana. Ben presto, però, comincia a sentire l’inconsistenza di questa assoluta libertà, il vuoto di una non-esistenza che lo condanna alla totale estraneità dal consesso umano.

Innamoratosi della giovane Adriana, si rende conto che non potrà mai sposarla, perché si è autocostretto a vivere come un «forestiere della vita»: per la legge egli non esiste, se non come un nome (un «fu») sulla lapide del cimitero di Miragno, e così non può nemmeno denunciare un furto o accettare una sfida a duello, quando se ne presenta l’occasione. La vera identità di un individuo è quella che gli viene conferita dallo stato civile: fuori dalla «trappola» della società c’è solo un’infinita e insopportabile solitudine.

L’unico modo per uscire dai lacci di questa ragnatela è inscenare un secondo suicidio, quello di Adriano Meis: la morte appare di nuovo, agli occhi dell’eroe disorientato, come l’occasione privilegiata per rientrare nella vita. Lasciato un biglietto sull’argine del Tevere, torna a Miragno, deciso a farsi riconoscere da tutto il paese e con il preciso intento di vendicarsi della moglie e della suocera, verso le quali nutre un forte risentimento. Ma una brutta sorpresa lo attende: la moglie Romilda si è risposata con Pomino, un suo vecchio amico d’infanzia, e ha avuto da lui una figlia. Mattia non è più nessuno: sebbene ancora vivo, è un «escluso» dalla vita; così, convintosi a non rivendicare il suo posto a fianco della moglie, «si acconcia a fare il morto» definitivamente. Si ritira nella sua biblioteca, dedicandosi alla stesura di una sorta di memoriale privato e recandosi di tanto in tanto al cimitero per deporre un fiore sulla propria tomba. A chi gli chiede notizie sulla sua identità risponde: «Io sono il fu Mattia Pascal», un uomo che non esiste per la società, un nome vuoto.

La nascita del personaggio

La persona, secondo Pirandello, si definisce soltanto entro una trama di relazioni sociali e familiari che, se da una parte la costringono e ne ostacolano la libertà, dall’altra le conferiscono un’identità, circoscrivendo l’indeterminatezza della «vita» entro i confini di una «forma» individuale. Mattia, nella sua vicenda, perde per ben due volte la propria identità personale, perché per due volte recide i vincoli che lo legano al contesto sociale. Dopo essere diventato inesistente come persona, però, egli rinasce come personaggio, nello spazio e nel tempo che la letteratura offre in sostituzione della vita. Questa trasformazione avviene ancora prima che il romanzo cominci; quando inizia l’atto della scrittura, infatti, la metamorfosi è già compiuta, e il dissolvimento dell’io reale di Mattia Pascal è ormai totale: la sua vita si è trasformata in letteratura. Il fatto che Mattia cominci a narrare la sua vicenda quando è diventato un «fu», e non prima, è significativo: la scrittura – simboleggiata metaforicamente dall’occhio strabico del personaggio che, tendendo «a guardare per conto suo, altrove», lo rende diverso dagli altri e divergente – è per Pirandello l’atto di straniamento per eccellenza.

Se la persona è protagonista della vita, regno della verità e del realismo, il personaggio lo è della letteratura, luogo di finzione e illusioni. Ma esiste davvero un confine che separa questi due mondi, apparentemente così diversi? In realtà, la trama del romanzo – con l’espediente del doppio suicidio e della costruzione, da parte del protagonista, di un’identità parallela – non costituisce nulla di particolarmente assurdo e artificioso. Come l’autore stesso spiega nell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, rispondendo nell’edizione del 1921 all’accusa di aver costruito una vicenda “inverosimile” e ai limiti dell’assurdo, il confine tra realtà e finzione è labile, poiché la vita è in sé stessa casuale e imprevedibile e, nella sua paradossalità, supera spesso i prodotti della fantasia. Come dirà il Padre in Sei personaggi in cerca d’autore, quasi con le stesse parole, le assurdità della vita «non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere».
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Nell’economia dell’opera, un peso fondamentale ha il rapporto tenace fra il nome e i personaggi. Il protagonista non vuole abbandonare il suo nome («Io, io, Mattia Pascal! Sono io! Non sono morto!»), nemmeno se inesorabilmente accompagnato da quel «fu»: egli non vuole rinunciare a un’identità, anche se capisce che si tratta di qualcosa di fittizio. Neanche la morte, del resto, può cancellare ciò che si è stati, perché il nome ricevuto alla nascita e riconosciuto dalla società cui si appartiene continua paradossalmente a esistere anche quando la persona è scomparsa.

Nel romanzo, in effetti, il cambiamento del nome non consente comunque al protagonista di acquistare davvero una nuova identità; l’etichetta nominale che assegna a ciascuno il proprio ruolo, sembra dire Pirandello, non può essere modificata; l’unico modo di negarla sarebbe cancellarla del tutto – abbandonando qualsiasi nome e dunque uscendo dalla società, senza essere più nessuno – perché dietro le false spoglie di un’identità alternativa (come quella di Adriano Meis) c’è in realtà soltanto un’altra «trappola», analoga a quella che si credeva di aver abbandonato.

Entrambe le identità del protagonista nascondono una rete di allusioni a personaggi storici tese a esprimerne le rispettive caratteristiche e aspirazioni. Il cognome Pascal, scelto con evidente allusione all’attitudine raziocinante del personaggio, rievoca il filosofo e matematico francese Blaise Pascal (1623-1662), autore dei Pensieri; ma è anche un riferimento a uno scrittore meno conosciuto: il teosofo Théophile Pascal (1860-1909), di cui nel romanzo viene citata un’opera (Les sept principes de l’homme), e la  teosofia è la dottrina di cui è fanatico seguace Anselmo Paleari. Invece, con il nome Mattia – ha ipotizzato lo scrittore Leonardo Sciascia – Pirandello «avrà pensato alla matta: follia blanda, ghiribizzante, […] una specie di momentanea vacanza consentita alla genialità, a controparte e a sollievo dell’abitudine al forte e greve pensare». Mattia significa insomma “matto”, come alla fine del romanzo confermerà lo stesso fratello del protagonista. Mattia Pascal può dunque essere definito con una dittologia: matto e filosofo.

L’identità costruita a tavolino per la forzata rinascita del protagonista, quella di Adriano Meis, deve invece il cognome a un filosofo positivista, Camillo De Meis (1817-1891), citato nel romanzo da alcuni compagni di viaggio sul treno verso Torino, e il nome al celebre imperatore romano vissuto nel II secolo d.C.

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I temi

Il tema centrale del romanzo è lo smarrimento dell’identità individuale. Come ha notato Adriano Tilgher, nella vicenda di Mattia Pascal si manifesta il dissidio irrisolvibile tra «vita» e «forma», tra l’anelito alla libertà e le costrizioni della quotidianità. Mattia vorrebbe un’esistenza alternativa alla meschinità della famiglia, all’anonimato del lavoro, alla grettezza del suo ambiente, ma è condannato al fallimento. Alla fine di tutto, infatti, egli si troverà in una condizione addirittura peggiore di quella iniziale, avendo perso i legami affettivi e sociali (che pure gli stavano stretti) senza aver guadagnato nulla in cambio.

Il tentativo di Mattia Pascal è un azzardo, una scommessa perduta, il cui risultato sarà l’esclusione dalla vita e un’emarginazione non desiderata. Mattia non è pronto per il salto nel vuoto che compirà Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila, abbandonando ogni identità per aderire al flusso ininterrotto e indefinito dell’esistenza; egli non sa elevarsi a una superiore consapevolezza critica per riconoscere che l’io – qualsiasi io, qualsiasi nome – è sempre e comunque una costruzione artificiosa e soffocante.

Tagliare la barba, far crescere i capelli, coprire con lenti scure l’occhio strabico sono tutti atti superficiali, perfettamente inutili. Questo maldestro tentativo di mascherarsi viene presentato da Pirandello in un’ottica umoristica: all’inizio, infatti, si è portati a vedere, in questi particolari, gli aspetti più comici della vicenda di Mattia Pascal; a poco a poco, però, subentra la riflessione sul significato che essi hanno in relazione alla condizione esistenziale del protagonista, sempre più solo e smarrito, tanto che la pietà diviene il sentimento dominante nel lettore, indotto a seguire con apprensione la disperata avventura dell’eroe in cerca del riscatto e di una seconda occasione.

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La vita doppia di Mattia Pascal è resa possibile dalla cesura della morte, anch’essa “raddoppiata” nella trama del romanzo, strumento liberatorio per eccellenza che permette di entrare e uscire dalle identità, abbandonando la scena senza preavviso e troncando ogni legame con il passato.

Il tema del doppio – allucinazione di un uomo diventato «un’ombra d’uomo» – lega Pirandello alla letteratura europea dell’Ottocento: si pensi a opere come Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson o Il ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde. Nella vicenda del Fu Mattia Pascal compaiono diversi possibili alter ego del protagonista: un uomo di mezza età che si suicida a Montecarlo, davanti al casinò, anticipando la presunta morte di Mattia; Anselmo Paleari, teosofo ed esperto di spiritismo, voce filosofica del romanzo con la quale l’autore sembra spesso identificarsi; Adriana Paleari, omonima del protagonista nella sua seconda identità (Adriano Meis). Mattia sembra entrare e uscire da questi personaggi: vorrebbe essere un filosofo distaccato dalla vita e dalle passioni, ma non ci riesce; vorrebbe l’ingenua fede religiosa di Adriana, ma usa l’acquasantiera che è appesa sopra il suo comodino come posacenere; pensa al suicidio, ma non lo mette davvero in atto, limitandosi a inscenarlo.

Una dopo l’altra cadono così tutte le convenzioni della narrativa naturalistica: l’eroe positivo diventa un uomo tormentato dai dubbi, e il personaggio coerente con sé stesso si frantuma assumendo mille sfaccettature diverse. La sensazione del protagonista di non essere mai al posto giusto (dissonanza che lo fa sentire sempre «fuori di chiave»), lo sguardo distaccato con cui contempla il mondo, la sua incoerenza sono tutti atteggiamenti tipici dell’eroe moderno, cioè dell’antieroe incline all’insoddisfazione, allo smarrimento, alla solitudine. Egli percepisce la piccolezza di questo mondo e degli esseri insignificanti che lo popolano; ha coscienza della propria fragilità ma è costretto, suo malgrado, a rinunciare a ogni illusione consolatoria e a ogni maschera posticcia: scoperta, alla fine della sua vicenda, la nuova situazione familiare della moglie, rifiuta infatti di farsi riconoscere, scegliendo di fissare la propria esistenza nel momento in cui l’ha ufficialmente perduta e diventando per sempre il «fu Mattia Pascal».

Le tecniche narrative

La narrazione inizia a vicenda conclusa, con un flash back la cui funzione è giustificata dal narratore nelle due Premesse. La struttura circolare consente comunque al lettore di identificare senza difficoltà una trama dai contorni precisi, per quanto filtrata dalla voce narrante. A essa si sovrappone un gioco di corrispondenze incrociate: all’iniziale falsa morte di Mattia segue, infatti, la nascita del personaggio-nessuno Adriano, mentre in chiusura il finto suicidio di Adriano Meis prelude alla rinascita di Mattia Pascal (che, però, non avverrà). Da un vero suicidio, subìto passivamente da Mattia (riconosciuto nel cadavere dello sconosciuto), si passa a un falso suicidio attivamente organizzato.

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La narrazione assume profondità e prospettiva grazie alle interferenze tra le voci narranti: l’io narrante (il Mattia che si chiude in biblioteca per stendere le sue memorie) si sovrappone all’io-attore (il personaggio che vive dall’interno i fatti accaduti, a sua volta scisso nelle due identità di Mattia e Adriano). A questi intrecci fra i diversi punti di vista si aggiunge la presenza – quando la narrazione lascia spazio alla riflessione teorico-filosofica – della voce dell’autore, espressa da alcuni personaggi (in particolare dal “filosofo” Anselmo Paleari).

Anche se tutta la narrazione è condotta in prima persona, il romanzo non ha però l’aspetto di un memoriale scritto a vicenda conclusa, in cui chi racconta sa tutto dei fatti e, guardandoli dall’esterno, li giudica come un narratore onnisciente. Nel Fu Mattia Pascal, al contrario, l’autore utilizza per lo più una focalizzazione interna, mostra cioè le cose così come le vede Mattia-attore nel loro svolgersi, e raramente – all’inizio e alla fine – con la più ampia consapevolezza del Mattia-narratore. In questo modo il lettore scopre lo sviluppo dei fatti passo dopo passo, senza conoscere da subito l’esito finale, ed è così maggiormente coinvolto nella vicenda.

La soggettività del punto di vista, amplificata dalla focalizzazione interna, conferisce alla narrazione un carattere instabile e mutevole: nessuno, infatti, può stabilire la veridicità del racconto; non ci sono testimoni né narratori esterni onniscienti, ma soltanto il filtro della memoria di Mattia Pascal.

A complicare la sostanziale inattendibilità della vicenda si aggiunge il sistema delle Premesse, sorta di prefazioni metanarrative che inquadrano la materia entro una cornice straniante: avvertendo il lettore che l’ordine con cui verranno presentati i fatti è totalmente arbitrario, il narratore confessa implicitamente di aver manipolato la verità a suo piacimento; il risultato non è il resoconto oggettivo di una vicenda, ma un’interpretazione soggettiva che contribuisce a restituire il senso della relatività del reale.

A risultare inaffidabile, infine, è lo stesso autore. Pirandello pare giocare con gli elementi tradizionali del romanzo naturalistico, ammettendo di scrivere «per distrazione», per rifugiarsi in quel mondo di illusioni, sogni e incertezze che il Positivismo aveva escluso dalla letteratura.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento