T4 ANALISI ATTIVA - Canta l’Epistola

T4

Canta l’Epistola

Novelle per un anno

Un io diviso tra obbligo sociale e ricerca di una vita autentica: questo è Tommasino Unzio, il protagonista di Canta l’Epistola, novella pubblicata sul “Corriere della Sera” nel 1911 e poi nella raccolta La trappola, nel 1915. In un mondo in cui ci si può salvare soltanto accettando l’oppressione di regole stringenti e false verità imposte dall’esterno, Tommasino decide di procedere fino in fondo nella scoperta della propria identità e nella contemplazione della realtà che lo circonda, approdando così alla solitudine, all’alienazione e infine alla morte.

«Avevate preso gli Ordini?».1
«Tutti no. Fino al Suddiaconato».
«Ah, suddiacono. E che fa il suddiacono?».
«Canta l’Epistola;2 regge il libro al diacono mentre canta il Vangelo; amministra
5      i vasi della Messa; tiene la patena3 avvolta nel velo in tempo del Canone».4
«Ah, dunque voi cantavate il Vangelo?».
«Nossignore. Il Vangelo lo canta il diacono; il suddiacono canta l’Epistola».
«E voi allora cantavate l’Epistola?».
«Io? proprio io? Il suddiacono».
10    «Canta l’Epistola?».
«Canta l’Epistola».
Che c’era da ridere in tutto questo?
Eppure, nella piazza aerea5 del paese, tutta frusciante di foglie secche, che s’oscurava
e si rischiarava a una rapida vicenda6 di nuvole e di sole, il vecchio dottor Fanti,
15    rivolgendo quelle domande a Tommasino Unzio7 uscito or ora dal seminario senza
più tonaca8 per aver perduto la fede, aveva composto la faccia caprigna9 a una tale
aria, che tutti gli sfaccendati del paese, seduti in giro innanzi alla Farmacia dell’Ospedale,
parte storcendosi e parte turandosi la bocca, s’erano tenuti10 a stento di ridere.
Le risa erano prorotte squacquerate,11 appena andato via Tommasino inseguito
20    da tutte quelle foglie secche, poi l’uno aveva preso a domandare all’altro:
«Canta l’Epistola?».
E l’altro a rispondere:
«Canta l’Epistola».
E così a Tommasino Unzio, uscito suddiacono dal seminario senza più tonaca,
25    per aver perduto la fede, era stato appiccicato il nomignolo di Canta l’Epistola.
La fede si può perdere per centomila ragioni; e, in generale, chi perde la fede è
convinto, almeno nel primo momento, di aver fatto in cambio qualche guadagno;
non foss’altro, quello della libertà di fare e dire certe cose che, prima, con la fede
non riteneva compatibili.
30    Quando però cagione della perdita non sia la violenza di appetiti terreni,12
ma sete d’anima che non riesca più a saziarsi nel calice dell’altare e nel fonte
dell’acqua benedetta, difficilmente chi perde la fede è convinto d’aver guadagnato
in cambio qualche cosa. Tutt’al più, lì per lì, non si lagna della perdita, in quanto
riconosce d’aver perduto in fine una cosa che non aveva più per lui alcun valore.
35    Tommasino Unzio, con la fede, aveva poi perduto tutto, anche l’unico stato
che il padre gli potesse dare,13 mercé un lascito condizionato14 d’un vecchio zio
sacerdote. Il padre, inoltre, non s’era tenuto di prenderlo a schiaffi, a calci, e di
lasciarlo parecchi giorni a pane e acqua, e di scagliargli in faccia ogni sorta di ingiurie
e di vituperii.15 Ma Tommasino aveva sopportato tutto con dura e pallida
40    fermezza, e aspettato che il padre si convincesse non esser quelli propriamente i
mezzi più acconci16 per fargli ritornar la fede e la vocazione.
Non gli aveva fatto tanto male la violenza, quanto la volgarità dell’atto così
contrario alla ragione per cui s’era spogliato dell’abito sacerdotale.17
Ma d’altra parte aveva compreso che le sue guance, le sue spalle, il suo stomaco
45    dovevano offrire uno sfogo al padre per il dolore che sentiva anche lui, cocentissimo,
della sua vita irreparabilmente crollata e rimasta come un ingombro lì per
casa.
Volle però dimostrare a tutti che non s’era spretato18 per voglia di mettersi “a
fare il porco”19 come il padre pulitamente20 era andato sbandendo21 per tutto il paese.
50    Si chiuse in sé, e non uscì più dalla sua cameretta, se non per qualche passeggiata
solitaria o su per i boschi di castagni, fino al Pian della Britta,22 o giù per la
carraja23 a valle, tra i campi, fino alla chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto,
sempre assorto in meditazioni e senza mai alzar gli occhi in volto a nessuno.
È vero intanto che il corpo, anche quando lo spirito si fissi in un dolore profondo
55    o in una tenace ostinazione ambiziosa, spesso lascia lo spirito così fissato
e, zitto zitto, senza dirgliene nulla, si mette a vivere per conto suo, a godere della
buon’aria e dei cibi sani.
Avvenne così a Tommasino di ritrovarsi in breve e quasi per ischerno, mentre
lo spirito gli s’immalinconiva e s’assottigliava sempre più nelle disperate meditazioni,
60    con un corpo ben pasciuto e florido, da padre abate.
Altro che Tommasino, adesso! Tommasone Canta l’Epistola. Ciascuno, a guardarlo,
avrebbe dato ragione al padre. Ma si sapeva in paese come il povero giovine
vivesse; e nessuna donna poteva dire d’essere stata guardata da lui, fosse pur di
sfuggita.
65    Non aver più coscienza d’essere,24 come una pietra, come una pianta; non ricordarsi
più neanche del proprio nome; vivere per vivere, senza saper di vivere, come le
bestie, come le piante; senza più affetti, né desiderii, né memorie, né pensieri; senza
più nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lì su l’erba, con le
mani intrecciate dietro la nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti,25
70    gonfie di sole; udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un
fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita
lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita.
Nuvole e vento.
Eh, ma era già tutto avvertire e riconoscere che quelle che veleggiavano luminose
75    per la sterminata azzurra  vacuità erano nuvole. Sa forse d’essere la nuvola?
Né sapevan di lei l’albero e le pietre, che ignoravano anche se stessi.
E lui, avvertendo e riconoscendo le nuvole, poteva anche – perché no? – pensare
alla vicenda dell’acqua, che divien nuvola per ridivenir poi acqua di nuovo. E
a spiegar questa vicenda bastava un povero professoruccio di fisica; ma a spiegare
80    il perché del perché?
Su nel bosco dei castagni, picchi d’accetta; giù nella cava, picchi di piccone.
Mutilare la montagna; atterrare gli alberi, per costruire case. Lì, in quel borgo
montano, altre case. Stenti, affanni, fatiche e pene d’ogni sorta, perché? per arrivare
a un comignolo e per fare uscir poi da questo comignolo un po’ di fumo, subito
85    disperso nella vanità dello spazio.
E come quel fumo, ogni pensiero, ogni memoria degli uomini.
Ma davanti all’ampio spettacolo della natura, a quell’immenso piano verde di
querci e d’ulivi e di castagni, degradante dalle falde del Cimino26 fino alla valle
tiberina laggiù laggiù, sentiva a poco a poco rasserenarsi in una blanda smemorata27
90    mestizia.
Tutte le illusioni e tutti i disinganni e i dolori e le gioje e le speranze e i desiderii
degli uomini gli apparivano vani e transitorii di fronte al sentimento che
spirava dalle cose che restano e sopravanzano28 ad essi, impassibili. Quasi vicende
di nuvole gli apparivano nell’eternità della natura i singoli fatti degli uomini. Bastava
95    guardare quegli alti monti di là dalla valle tiberina, lontani lontani, sfumanti
all’orizzonte, lievi e quasi aerei nel tramonto.
Oh ambizioni degli uomini! Che grida di vittoria, perché l’uomo s’era messo
a volare come un uccellino!29 Ma ecco qua un uccellino come vola: è la facilità più
schietta e lieve, che s’accompagna spontanea a un trillo di gioia. Pensare adesso
100  al goffo apparecchio rombante, e allo sgomento, all’ansia, all’angoscia mortale
dell’uomo che vuol fare l’uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso
e puzzolente, e la morte davanti.30 Il motore si guasta, il motore s’arresta;
addio uccellino!
«Uomo», diceva Tommasino Unzio lì sdrajato sull’erba, «lascia31 di volare. Perché
105  vuoi volare? E quando hai volato?».
D’un tratto, come una raffica, corse per tutto il paese una notizia che sbalordì tutti:
Tommasino Unzio, Canta l’Epistola, era stato prima schiaffeggiato e poi sfidato a
duello dal tenente De Venera, comandante il distaccamento, perché, senza voler
dare alcuna spiegazione, aveva confermato d’aver detto: «Stupida!» in faccia alla
110  signorina Olga Fanelli, fidanzata del tenente, la sera avanti,32 lungo la via di campagna
che conduce alla chiesetta di Santa Maria di Loreto.
Era uno sbalordimento misto d’ilarità, che pareva s’appigliasse a un’interrogazione
su questo o quel dato della notizia, per non precipitare di botto nell’incredulità.33
«Tommasino?». «Sfidato a duello?». «Stupida, alla signorina Fanelli?». «Confermato?
115  ». «Senza spiegazioni?». «E ha accettato la sfida?».
«Eh, perdio, schiaffeggiato!».
«E si batterà?».
«Domani, alla pistola».
«Col tenente De Venera alla pistola?».
120  «Alla pistola».
E dunque il motivo doveva esser gravissimo. Pareva a tutti non si potesse mettere
in dubbio una furiosa passione34 tenuta finora segreta. E forse le aveva gridato
in faccia «Stupida!» perché ella, invece di lui, amava il tenente De Venera. Era
chiaro! E veramente tutti in paese giudicavano che soltanto una stupida si potesse
125  innamorare di quel ridicolissimo De Venera. Ma non lo poteva credere lui, naturalmente,
il De Venera; e perciò aveva preteso una spiegazione.
Dal canto suo, però, la signorina Olga Fanelli giurava e spergiurava con le
lagrime agli occhi che non poteva esser quella la ragione dell’ingiuria, perché ella
non aveva veduto se non due o tre volte quel giovine, il quale del resto non aveva
130  mai neppure alzato gli occhi a guardarla; e mai e poi mai, neppure per un minimo
segno, le aveva dato a vedere di covar per lei quella furiosa passione segreta, che
tutti dicevano. Ma che! no! non quella: qualche altra ragione doveva esserci sotto!
Ma quale? Per niente non si grida: – Stupida! – in faccia a una signorina.
Se tutti, e in ispecie il padre e la madre, i due padrini,35 il De Venera e la signorina
135  stessa si struggevano di saper la vera ragione dell’ingiuria; più di tutti si struggeva
Tommasino di non poterla dire, sicuro com’era che, se l’avesse detta, nessuno
la avrebbe creduta, e che anzi a tutti sarebbe sembrato che egli volesse aggiungere
a un segreto inconfessabile l’irrisione.36
Chi avrebbe infatti creduto che lui, Tommasino Unzio, da qualche tempo in
140  qua, nella crescente e sempre più profonda sua melanconia, si fosse preso d’una
tenerissima pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco,
senza saper perché, in attesa del deperimento e della morte? Quanto più labili e
tenui e quasi inconsistenti le forme di vita, tanto più lo intenerivano, fino alle lagrime
talvolta. Oh! in quanti modi si nasceva, e per una volta sola, e in quella data
145  forma, unica, perché mai due forme non erano uguali, e così per poco tempo, per
un giorno solo talvolta, e in un piccolissimo spazio, avendo tutt’intorno, ignoto,
l’enorme mondo, la vacuità enorme e impenetrabile del mistero dell’esistenza.
Formichetta, si nasceva, e moscerino, e filo d’erba. Una formichetta, nel mondo!
nel mondo, un moscerino, un filo d’erba. Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva,
150  appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai più!
Ora, da circa un mese, egli aveva seguito giorno per giorno la breve storia d’un
filo d’erba appunto: d’un filo d’erba tra due grigi macigni tigrati di musco,37 dietro
la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto.
Lo aveva seguito, quasi con tenerezza materna, nel crescer lento tra altri più
155  bassi che gli stavano attorno, e lo aveva veduto sorgere dapprima timido, nella
sua tremula esilità, oltre i due macigni ingrommati,38 quasi avesse paura e insieme
curiosità d’ammirar lo spettacolo che si spalancava sotto, della verde, sconfinata
pianura; poi, su, su, sempre più alto, ardito, baldanzoso, con un pennacchietto
rossigno in cima, come una cresta di galletto.
160  E ogni giorno, per una o due ore, contemplandolo e vivendone la vita, aveva
con esso tentennato a ogni più lieve alito d’aria; trepidando era accorso in qualche
giorno di forte vento, o per paura di non arrivare a tempo a proteggerlo da
una greggiola di capre, che ogni giorno, alla stess’ora, passava dietro la chiesetta
e spesso s’indugiava un po’ a strappare tra i macigni qualche ciuffo d’erba. Finora,
165  così il vento come le capre avevano rispettato quel filo d’erba. E la gioja di
Tommasino nel ritrovarlo intatto lì, col suo spavaldo pennacchietto in cima, era
ineffabile. Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi lo custodiva
con l’anima e col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava alle prime stelle che
spuntavano nel cielo crepuscolare,39 perché con tutte le altre lo vegliassero durante
170  la notte. E proprio, con gli occhi della mente, da lontano, vedeva quel suo
filo d’erba, tra i due macigni, sotto le stelle fitte fitte, sfavillanti nel cielo nero,
che lo vegliavano.
Ebbene, quel giorno, venendo alla solita ora per vivere un’ora con quel suo
filo d’erba, quand’era già a pochi passi dalla chiesetta, aveva scorto dietro a questa,
175  seduta su uno di quei due macigni, la signorina Olga Fanelli, che forse stava lì a
riposarsi un po’, prima di riprendere il cammino.
Si era fermato, non osando avvicinarsi, per aspettare ch’ella, riposatasi, gli
lasciasse il posto. E difatti, poco dopo, la signorina era sorta in piedi, forse seccata
di vedersi spiata da lui: s’era guardata un po’ attorno: poi, distrattamente, allungando
180  la mano, aveva strappato giusto quel filo d’erba e se l’era messo tra i denti
col pennacchietto ciondolante.
Tommasino Unzio s’era sentito strappar l’anima, e irresistibilmente le aveva
gridato: «Stupida!» quand’ella gli era passata davanti, con quel gambo in bocca.
Ora, poteva egli confessare d’avere ingiuriato così quella signorina per un filo
185  d’erba?
E il tenente De Venera lo aveva schiaffeggiato.
Tommasino era stanco dell’inutile vita, stanco dell’ingombro di quella sua
stupida carne, stanco della baja40 che tutti gli davano e che sarebbe diventata più
acerba e accanita se egli, dopo gli schiaffi, si fosse ricusato41 di battersi. Accettò la
190  sfida, ma a patto che le condizioni del duello fossero gravissime.42 Sapeva che il
tenente De Venera era un valentissimo tiratore. Ne dava ogni mattina la prova, durante
le istruzioni del Tir’a segno. E volle battersi alla pistola, la mattina appresso,
all’alba, proprio là, nel recinto del Tir’a segno.
Una palla in petto. La ferita, dapprima, non parve tanto grave; poi s’aggravò. La
195  palla aveva forato il polmone. Una gran febbre; il delirio. Quattro giorni e quattro
notti di cure disperate.
La signora Unzio, religiosissima, quando i medici alla fine dichiararono che
non c’era più nulla da fare, pregò, scongiurò il figliuolo che, almeno prima di morire,
volesse ritornare in grazia di Dio.43 E Tommasino, per contentar la mamma,
200  si piegò a ricevere un confessore.
Quando questo, al letto di morte, gli chiese:
«Ma perché, figliuolo mio? perché?».
Tommasino, con gli occhi socchiusi, con voce spenta, tra un sospiro ch’era
anche sorriso dolcissimo, gli rispose semplicemente:
205  «Padre, per un filo d’erba…».
E tutti credettero ch’egli fino all’ultimo seguitasse a delirare.
 >> pagina 863

ANALISI ATTIVA

I contenuti tematici

Tommasino è uscito dal seminario, dove si preparava a diventare prete, a causa di un rovello interiore che lo ha portato a mettere in discussione i dogmi della religione ufficiale. Abbandonando la strada del sacerdozio egli ha perso tutto: stima sociale, possibilità di carriera, persino un’eredità condizionata da uno zio prete alla sua ordinazione. Il suo gesto è stato dunque un atto disinteressato, motivato da un’ansia di verità e di libertà interiore. Tutto questo però non viene compreso dai suoi gretti compaesani, che non esitano a ridere di lui.

Il sacerdozio era la «forma» sociale cui era destinato Tommasino, la «maschera» che egli avrebbe dovuto assumere. Ma, in una società fondata sulle apparenze, una volta che rifiuta questa strada non gli rimane più nulla: la sua vita è irreparabilmente crollata (r. 46) perché ha deciso di uscire dal percorso tracciato per lui. La sua floridezza fisica – l’esatto opposto di quanto ci si aspetterebbe da un asceta tormentato – contrasta con il suo consumarsi in meditazioni: si tratta di quell’elemento comico che spesso, in Pirandello, si accompagna al tragico (come teorizzato nel saggio L’umorismo).

1. Quale metafora usa l’autore per indicare il motivo per cui Tommasino ha perso la fede?


2. Come reagisce il padre alla scelta di Tommasino e perché?

Rifiutato dalla società, Tommasino comincia a sentirsi sempre più parte della natura, un oggetto fra i tanti. Pur di non mentire a sé stesso e agli altri e pur di non dover entrare in una forma falsa e opprimente, egli finisce per ridursi a cosa (Non aver più coscienza d’essere, r. 65), al termine di un processo di reificazione su cui il narratore si concentra sgombrando il campo dalle altre presenze (il padre, i compaesani pettegoli), che nella prima parte della novella avevano fatto da scanzonato contrappunto al dramma interiore del protagonista. Tuttavia in tale unione panica con gli elementi della natura è conservata una percezione cosciente della vanità d’ogni cosa e del tedio angoscioso della vita (r. 72), una riflessione dal sapore leopardiano e ancor prima biblico (dalla «vanità delle vanità» dell’Ecclesiaste a «l’uomo è come l’erba» dei Salmi e di Isaia).

3. Quale funzione ha la natura per Tommasino?


4. Che cosa si intende con l’espressione il perché del perché (r. 80)?


5. Quale opinione delle vicende umane e del progresso emerge dalle meditazioni di Tommasino?

 >> pagina 864

Le meditazioni del personaggio vengono interrotte bruscamente (D’un tratto, come una raffica, r. 106) dalla notizia dell’imminente duello con il tenente De Venera. Al gesto che ha indotto l’ufficiale a schiaffeggiare Tommasino in segno di sfida – l’insulto Stupida! (r. 109), indirizzato alla fidanzata di lui, la signorina Olga Fanelli – non ci sono spiegazioni apparenti. Anche l’ipotesi che Tommasino avesse concepito una passione segreta per la donna appare poco plausibile, sebbene la gente la ritenga la più probabile. La motivazione si palesa solo quando il narratore ricostruisce il formarsi della nuova sensibilità estetica di Tommasino, il quale, sentendosi sempre più parte della natura, ha cominciato ad amare con una straordinaria tenerezza un filo d’erba poi strappato dalla donna. L’alienazione del protagonista rispetto ai valori condivisi è ora completa. Inetto all’esistenza sociale, egli finisce per scegliere l’autoestinzione: la sua volontà che il duello sia all’ultimo sangue equivale, di fatto, alla scelta del suicidio. È «l’epilogo tragico, ma sommesso, di una vita vana, perché svincolata dall’unica “forma” che la faceva esistere» (De Castris).

6. Perché tutti, in paese, pensano che il duello abbia motivi passionali? Hanno prove a sostegno di ciò?


7. Per quale motivo è certo che Tommasino perirà nel duello?

Le scelte stilistiche

L’incipit della novella è in medias res, senza alcuna indicazione, da parte del narratore, sull’identità dei personaggi. La narrazione si basa direttamente sul dialogo, attraverso il quale il lettore apprende a poco a poco l’origine del soprannome del protagonista (che dà il titolo alla novella stessa).

Dopo questa prima sequenza dialogica, troviamo un più preciso inquadramento dei personaggi. Pirandello è un maestro nel tratteggiare con pochi elementi un ambiente fisico che rimanda ai significati morali della vicenda: dalla piazza aerea (r. 13), che sembra richiamare simbolicamente, con l’aggettivo, la ricerca da parte di Tommasino di una religiosità più profonda e sincera, alle foglie secche (r. 13) che lo inseguono come un presagio di infelicità (rr. 19-20). Nel prosieguo del racconto il paesaggio fisico diventa sempre più pae­saggio dell’anima, con la natura a fare da sfondo alle meste riflessioni esistenziali del protagonista: Quasi vicende di nuvole gli apparivano nell’eternità della natura i singoli fatti degli uomini. Bastava guardare quegli alti monti di là dalla valle tiberina, lontani lontani, sfumanti all’orizzonte, lievi e quasi aerei nel tramonto (rr. 93-96).

8. Come descriveresti l’ambiente sociale del paese di Tommasino?


9. È possibile distinguere nettamente personaggi positivi e negativi? perché?

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento