T4 ANALISI ATTIVA - Il vizio del fumo e le "ultime sigarette"

T4

Il vizio del fumo e le «ultime sigarette»

La coscienza di Zeno, cap. 3

Il fumo è una specie di sintomo “riassuntivo” della malattia di Zeno, che invano tenta di rinunciare a questo vizio. Esso rappresenta la sua tendenza a restare sempre al di qua delle decisioni, ad appagarsi del piacere derivante dai buoni propositi senza mai passare alla fase concreta del dovere. Il vero male che lo attanaglia non è dunque tanto la sigaretta in sé, ma la nevrosi causata dal proposito di smettere e dall’incapacità di farlo.

Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica
della mia propensione al fumo:
«Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero».
Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz’andar a sognare su
5      quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l’assistenza delle sigarette tutte
tanto somiglianti a quella che ho in mano.
Oggi scopro subito qualche cosa che più non ricordavo. Le prime sigarette
ch’io fumai non esistono più in commercio. Intorno al ’70 se ne avevano in Austria
di quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio
10    dell’aquila bicipite.1 Ecco: attorno a una di quelle scatole s’aggruppano2 subito
varie persone con qualche loro tratto,3 sufficiente per suggerirmene il nome, non
bastevole però a commovermi per l’impensato incontro.4 Tento di ottenere di più
e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni
che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.
15    Una delle figure, dalla voce un po’ roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa
mia età, e l’altra, mio fratello, di un anno di me più giovine e morto tanti anni
or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di
quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di più a mio fratello che a me. Donde
la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Così avvenne che
20    rubai. D’estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto
nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi
occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l’altra le dieci
sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del
furto.
25    Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché
non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine
della sozza5 abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare,
accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano.
30    Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà
che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che
m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni
alla matematica o alla sartoria e non s’avvide che avevo le dita nel taschino
del suo panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza
35    quand’essa non esisteva più, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè…
rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia6
fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli
via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca,7 Catina, li buttasse
via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all’atto d’impadronirmene venivo pervaso
40    da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m’avrebbero procurato. Poi li
fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco
si contorcesse. Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.
So perfettamente come mio padre mi guarì anche di quest’abitudine. Un giorno
d’estate ero ritornato a casa da un’escursione scolastica, stanco e bagnato di
45    sudore. Mia madre m’aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio,
m’aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa sedette occupata a certo
lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia8 pieni di sole
e tardavo a perdere i sensi.9 La dolcezza che in quell’età s’accompagna al riposo
dopo una grande stanchezza, m’è evidente come un’immagine a sé, tanto evidente
50    come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che più non esiste.10
Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che ora, in
questi tempi avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena mio fratello
non appare, ciò che mi sorprende perché penso ch’egli pur deve aver preso parte
a quell’escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia dormito
55    anche lui all’altro capo del grande sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto.
Non vedo che me, la dolcezza del riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui
sento echeggiare le parole. Egli era entrato e non m’aveva subito visto perché ad
alta voce chiamò:
«Maria!».
60    La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale11 accennò a
me, ch’essa credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi
piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi mossi.
Mio padre con voce bassa si lamentò:
«Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz’ora fa su
65    quell’armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo più. Sto peggio del solito. Le
cose mi sfuggono».
Pure a voce bassa, ma che tradiva un’  ilarità trattenuta solo dalla paura di destarmi,
mia madre rispose:
«Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza».
70    Mio padre mormorò:
«È perché lo so anch’io, che mi pare di diventar matto!».
Si volse ed uscì.
Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s’era rimessa al suo lavoro,
ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse per ammattire
75    per sorridere così delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto impresso che
lo ricordai subito12 ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie.
Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il
mio vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo.
Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito
80    da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz’ora in
una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria
altro che la puerilità13 del vestito: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché
dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo
vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente
85    celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all’aria.
Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della
vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:
«A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m’occorre».
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch’essa che a me
90    doveva essere rivolta in quel momento.
Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato
in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo
seppi a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di
gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal
95    fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì. Un vuoto grande e
niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.
Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni)
con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia.
Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante,
100  mi disse:
«Non fumare, veh!».
Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò
mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta». Accesi una sigaretta e mi sentii
subito liberato dall’inquietudine ad onta che14 la febbre forse aumentasse e che ad
105  ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone
ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto.15
E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio
padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
«Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!».
110  Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto,
per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo
ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi
dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi
115  di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali.
La ridda16 delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia.17 Meno
violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior
indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi
dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime.
120  Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella
scrittura e qualche ornato:
«Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima
sigaretta!!».
Era un’ultima sigaretta18 molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono.
125  M’ero arrabbiato col diritto canonico19 che mi pareva tanto lontano
dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio.20
Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche
manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.21
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio22 cui non credevo ritornai
130  alla legge.23 Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima
sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e
mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo24 coi
migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato
poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come
135  avrei potuto averla quando25 continuavo a fumare come un turco?
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse
abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia
incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte
che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo
140  comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.26 Io avanzo
tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione.
Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo
tuttavia27 da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano
oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni,28 vorrei
145  morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a
mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente
lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni
propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.
150  Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le
altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo
sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro
di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole
si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’
155  più lontano.
Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed
anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata
espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato
al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza
160  delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per
sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del
1899». Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti
musicali: «Primo giorno del primo mese del 1901». Ancor oggi mi pare che se
quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.
165  Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna
di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve
contenesse un imperativo supremamente categorico,29 la seguente: «Terzo giorno
del sesto mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.30
L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese
170  per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una
data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate su libri
o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità.31 Per esempio il terzo giorno
del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché
ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di
175  Pio IX32 alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito
ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii
lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!
Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla
malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!».
180  Ma dove va l’atteggiamento se si tiene33 la promessa? L’atteggiamento non è possibile
di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me,
non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
 >> pagina 793

ANALISI ATTIVA

I contenuti tematici

Un tratto che connota il carattere di Zeno è senza dubbio la sua debolezza psicologica, che si esprime nella mancanza di volontà. È sintomatica in tal senso la sua incapacità di smettere di fumare. Paradossalmente il vizio si radica ancora di più in lui nel momento in cui il fumo gli viene espressamente vietato dal medico, in concomitanza con una seria infiammazione delle vie respiratorie. Come accadeva già al protagonista in età infantile, la proibizione eccita il gusto della trasgressione, in base a una dinamica psicologica piuttosto facile da decodificare: il desiderio di smettere di fumare accresce il piacere mediante l’emozione suscitata dall’infrazione del divieto, sempre disatteso e continuamente riproposto, come in un circolo vizioso di false promesse puntualmente eluse.

Il fumo, inoltre, diventa quasi un alibi per non impegnarsi seriamente in un concreto programma di vita (un preciso percorso di studi e una professione determinata). Soltanto ora, al momento della scrittura del diario, Zeno ne prende finalmente coscienza: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? (rr. 136-138). Non a caso, al vizio sono associati vocaboli negativi quali disgusto (rr. 31 e 80), sozza abitudine (r. 27), colpa (r. 137): eppure ciò non spinge il protagonista a un cambiamento delle proprie abitudini, bensì soltanto a una autoironica indulgenza verso sé stesso e i suoi limiti irrimediabili. Il senso di colpa provato per le proprie inadeguatezze non sfocia insomma in atti concreti capaci di sfidare le pulsioni dell’inconscio: l’unica risorsa a disposizione di Zeno – e ciò che lo distingue dagli altri personaggi sveviani – è la consapevolezza della propria inettitudine e dell’impossibilità di vincerla.

 >> pagina 794 

1. Quali trasgressioni compie il giovane Zeno per riuscire a fumare?

2. Perché l’“ultima sigaretta” è così speciale?

3. Perché le date sono tanto importanti per Zeno?

Soffermiamoci sulla scena di raccolta intimità domestica in cui si colloca il ricordo di Zeno bambino. Il padre crede di ammattire, non sapendo raccapezzarsi di fronte alla continua sparizione dei suoi sigari. La moglie sorride dinanzi alle sue paure e questo sorriso della madre rimane impresso in Zeno, che se ne ricorderà da adulto. Il protagonista scrive infatti a un certo punto, in una breve prolessi: Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie (rr. 75-76).

Si può dire che in tutto il romanzo le figure femminili – qui la madre e la moglie di Zeno – rappresentano un costante richiamo alla concretezza della vita, verso la quale esprimono un atteggiamento diverso rispetto a quello, spesso nevrotico, delle loro controparti maschili: la donna ha la capacità di rasserenare l’uomo, di ricondurlo alla tranquillità interiore, di farlo uscire dal gorgo dei pensieri fissi e ossessivi.

4. In che modo la madre di Zeno si era occupata di lui al rientro da un’escursione scolastica?

5. Quale termine ricorrente descrive lo stato d’animo con cui il protagonista rievoca l’episodio?

Le scelte stilistiche

Il romanzo del Novecento si caratterizza per una nuova concezione del tempo, che qui troviamo bene espressa nelle ultime due frasi del brano. Scrive Zeno nel suo diario: il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna (rr. 181-182). Il tempo, in altre parole, non ha un andamento lineare e univoco, e non è vero che il suo flusso non possa arrestarsi. Esso, al contrario, può essere fissato nella memoria attraverso i ricordi personali e in tal modo “ritornare” al soggetto. C’è infatti un tempo “esterno”, misurabile in anni, mesi e giorni, e un tempo “interno”, la cui estensione si valuta in base alla maggiore o minore intensità con cui gli eventi sono percepiti dal soggetto.

Zeno afferma che questa possibilità di un “ritorno” del tempo è un suo speciale privilegio (solo da me, r. 182), ma va detto che in realtà essa è condivisa da molti personaggi dei romanzi contemporanei, per i quali il passato e il presente convivono in quello che viene chiamato “tempo misto”. Nella Coscienza di Zeno (e nel brano che abbiamo qui presentato) tale tempo misto si esprime nel continuo intersecarsi tra i diversi piani temporali della narrazione mediante le libere associazioni che si sviluppano alogicamente e in modo ellittico nella mente e nella “coscienza” del protagonista (che infatti sceglie un particolare qualsiasi per iniziare la stesura del memoriale: Non so come cominciare, r. 5). Attraverso questo rinnovamento del tempo narrativo, sembra disgregarsi la trama tradizionale con il suo ordine cronologico. Il tempo non viene più inteso, come avveniva nel romanzo realista e naturalista, come un fenomeno oggettivo, ma è filtrato dalla percezione che ne hanno i personaggi.

6. Quando Zeno rievoca l’episodio della gara di sigarette, descrivendo i suoi compagni scrive: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò (rr. 82-83). Che cosa significa questa frase? Come spieghi l’alternanza di tempi verbali?


7. Che differenza c’è tra i propositi del giovane Zeno e quelli di Zeno anziano?


8. scrivere per esporre La malattia di Zeno rimanda a un insieme di acquisizioni scientifiche e filosofiche proprie della sua epoca. Svolgi una ricerca sullo stato della medicina agli inizi del XX secolo e raccogli i risultati in un testo espositivo di circa 30 righe.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento