Italo Svevo

I GRANDI TEMI

1 La concezione della letteratura

Dopo il silenzio che accompagna i primi due romanzi Svevo si ripromette di rinunciare alla scrittura. Il proposito viene enunciato molto spesso; eppure, mentre proclama di essere ormai immune da «quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura», egli non riesce mai ad abbandonare del tutto quell’attività, sia pure relegandola tra le segrete occupazioni di cui vergognarsi e considerandola alla stregua di un vizio che distrae dalle incombenze pratiche. La “clandestinità” in cui Svevo relega la scrittura è un modo per non esporsi all’ostilità del proprio mondo familiare e sociale, secondo il quale la letteratura è un esercizio da perdigiorno, un passatempo improduttivo adatto a persone inconcludenti senza voglia di lavorare.
D’altra parte, la vocazione alla scrittura costituisce per Svevo un’infrazione alla propria identità sociale di uomo di successo ben inserito nell’ambiente borghese cui appartiene. Il profitto, l’attività commerciale, la morale perbenista: tutti i miti di questo mondo vengono minacciati dall’atto, gratuito e autoreferenziale, di scrivere. Quanto più si è integrati, tanto più la letteratura può assumere una valenza positiva, dirompente e rivoluzionaria: essa può rivelarsi capace di mettere a nudo l’uomo, privandolo degli abiti e delle corazze con cui ipocritamente cela incertezze e ambiguità.
Scrivere è dunque una trasgressione perché si configura come un’attività alternativa al mondo e all’educazione dei padri. Anche Svevo, sia pure senza apparenti ribellioni, attua un implicito “rifiuto del padre” ( p. 797), quel padre che lo vorrebbe bravo commerciante: come accade a Luigi Pirandello, a Franz Kafka, a Thomas Mann, la dirompente scelta della scrittura coincide con il «rifiuto di un modello fondato sulla trasmissione autoritaria di un sistema di valori sentito come inautentico e sopraffattore, centrato com’è sulla competizione, sullo sfruttamento delle risorse dell’intelligenza come riuscita nella società, su un moralismo tanto rigoroso quanto ipocrita» (Gioanola).
Al tempo stesso, se la letteratura va praticata con riserbo, ne consegue che essa potrà sottrarsi ai generi e alle poetiche prestabilite, liberandosi tanto dalle mode quanto dai vincoli istituzionali. In altri termini, non sarà esercitata come un mestiere, non obbedirà a estetiche precise, ma diventerà un’esigenza esistenziale, un’autentica ragione di vita. Con assoluta libertà Svevo può quindi affondare lo sguardo nel suo mondo, nei risvolti della quotidianità borghese e nei meandri di una mentalità mercantile che egli conosce benissimo perché è la sua.
 >> pagina 758

Accade così che vita e letteratura si incontrano, fondendosi sulla pagina scritta, sul testo. Tale identificazione è stata perseguita anche da d’Annunzio, ma Svevo rovescia i termini del processo: non è la vita a essere sublimata in un mondo eroico ed estetizzato; è invece la letteratura a scendere sul piano dell’esistenza comune, immergendovisi. Ne scaturisce un’analisi che prende per oggetto le stravaganze, i tic, gli impulsi irrazionali dell’autore stesso. In questo senso, si può ben capire che tra l’uomo d’affari Ettore Schmitz, paranoico e nevrotico, e lo scrittore Italo Svevo, corrosivo e inesorabile, non c’è conflitto.

La scrittura è chiamata dunque a svolgere un’azione chiarificatrice: l’esistenza può essere svelata solo se fissata sulla pagina scritta, tanto più se ad adempiere questo scopo vi è un intellettuale “inetto”, estraneo ai trucchi e alle finzioni dei letterati di mestiere e sensibile alle assurdità e alle incoerenze della vita.

Come una forma di terapia, la penna, fuori della quale «non c’è salvezza», diviene così uno strumento di igiene interiore e di conoscenza di sé. Se la vita degli uomini sarà «letteraturizzata» (come scrive lo stesso Svevo), ciascuno potrà capire meglio sé stesso: il presente infatti non è conoscibile, perché manchiamo della distanza necessaria per scorgerne i dettagli, interpretarne le situazioni, intuirne la logica e le relazioni. Per questo a chi vuole comprendere non resta che fissare sulla carta ciò che è già accaduto: così potrà spiegare il «passato che ancora non svanì».

Non appare quindi casuale che tutti i personaggi sveviani siano scrittori: Alfonso Nitti scrive poesie, oltre alle lettere private e alla corrispondenza commerciale; Emilio Brentani è autore di romanzi, non solo di polizze d’assicurazione; Zeno Cosini, il protagonista del romanzo La coscienza di Zeno, scrive la propria autobiografia su indicazione dello psicanalista, tra una nota contabile e l’altra.

Si potrebbe pensare che quest’attività determini una condizione di superiorità, se non sociale, almeno culturale e intellettuale. Ma non è così, anzi, per Svevo è esattamente il contrario: la scrittura è posta sempre in relazione con uno stato di inferiorità, di disorientamento, di impotenza. Chi scrive lo fa perché è malato, ma almeno ha il vantaggio di essere cosciente della propria situazione.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento