T3 - Un grido nella notte

T3

Un grido nella notte

Chiaroscuro

La novella che presentiamo è tratta dalla raccolta Chiaroscuro (1912), un volume importante nel percorso artistico di Grazia Deledda, in quanto segna il parziale superamento dei moduli tardoromantici e veristi, con un più deciso accostamento al gusto decadente. Il racconto di un vecchio sardo rievoca un’esperienza traumatica, ancora segnata dal senso di colpa.

Tre vecchioni a cui l’età e forse anche la consuetudine di star sempre assieme han
dato una somiglianza di fratelli, stanno seduti tutto il santo giorno e quando è bel
tempo anche gran parte della sera, su una panchina di pietra addossata al muro
d’una casetta di Nuoro.
5      Tutti e tre col bastone fra le gambe, di tanto in tanto fanno un piccolo buco
per seppellirvi una formica o un insetto o per sputarvi dentro, o guardano il sole
per indovinare l’ora. E ridono e chiacchierano coi ragazzetti della strada, non
meno sereni e innocenti di loro.
Intorno è la pace sonnolenta del vicinato di Sant’Ussula, le tane di pietra dei
10    contadini e dei pastori nuoresi: qualche pianta di fico si sporge dalle muricce1 dei
cortili e se il vento passa le foglie si sbattono l’una contro l’altra come fossero di
metallo. Allo svolto della strada appare il monte Orthobene grigio e verde fra le
due grandi ali azzurre dei monti d’Oliena e dei monti di Lula.
Fin da quando ero bambina io, i tre vecchi vivevano là, tali e quali sono ancora
15    adesso, puliti e grassocci, col viso color di ruggine arso dal soffio degli anni,
i capelli e la barba d’un bianco dorato, gli occhi neri ancor pieni di luce, perle lievemente
appannate nella custodia delle palpebre pietrose come conchiglie. Una
nostra serva andava spesso, negli anni di siccità, ad attinger acqua ad un pozzo
là accanto: io la seguivo e mentr’ella parlava con questo e con quello come la Samaritana2,
20    io mi fermavo ad ascoltare i racconti dei tre vecchi. I ragazzi intorno,
chi seduto sulla polvere, chi appoggiato al muro, si lanciavano pietruzze mirando
bene al viso, ma intanto ascoltavano. I vecchi raccontavano più per loro che per
i ragazzetti: e uno era tragico, l’altro comico, e il terzo, ziu3 Taneddu, era quello
che più mi piaceva perché nelle sue storielle il tragico si mescolava al comico, e
25    forse fin da allora io sentivo che la vita è così, un po’ rossa, un po’ azzurra, come
il cielo in quei lunghi crepuscoli d’estate quando la serva attingeva acqua al pozzo
e ziu Taneddu, ziu Jubanne e ziu Predumaria raccontavano storie che mi piacevano
tanto perché non le capivo bene e adesso mi piacciono altrettanto perché le
capisco troppo.
30    Fra le altre ricordo questa, raccontata da ziu Taneddu.
– Bene, uccellini, ve ne voglio raccontare una. La mia prima moglie, Franzisca
Portolu, tu l’hai conosciuta, vero, Jubà, eravate ghermanitos,4 ebbene, era una
donna coraggiosa e buona, ma aveva certe fissazioni curiose. Aveva quindici anni
appena, quando la sposai, ma era già alta e forte come un soldato: cavalcava senza
35    sella, e se vedeva una vipera o una tarantola, eran queste che avevan paura di
lei. Fin da bambina era abituata ad andar sola attraverso le campagne: si recava
all’ovile di suo padre sul monte e se occorreva guardava il gregge e passava la notte
all’aperto. Con tutto questo era bella come un’Immagine:5 i capelli lunghi come
onda di mare e gli occhi lucenti come il sole. Anche la mia seconda moglie, Maria
40    Barca, era bella, tu la ricordi, Predumarì, eravate cugini; ma non come Franzisca.
Ah, come Franzisca io non ne ho conosciuto più: aveva tutto, l’agilità, la forza, la
salute; era abile in tutto, capiva tutto; non s’udiva il ronzio d’una mosca ch’ella
non l’avvertisse. Ed era allegra, ohiò,6 fratelli miei; io ho passato con lei cinque
anni di contentezza, come neppure da bambino. Ella mi svegliava, talvolta, quando
45    la stella del mattino era ancora dietro il monte, e mi diceva:
«Su, Tanè, andiamo alla festa, a Gonare, oppure a San Francesco o più lontano
ancora fino a San Giovanni di Mores».
Ed ecco in un attimo balzava dal letto; preparava la bisaccia, dava da mangiare
alla cavalla, e via, partivamo allegri come due gazze sul ramo al primo cantar del
50    gallo. Quante feste ci siamo godute! Ella non aveva paura di attraversar di notte i
boschi e i luoghi impervi; e in quel tempo ricordate, fratelli miei, in terra di Sardegna
cinghialetti a due zampe,7 ohiò! ce n’erano ancora: ma di questi banditi
qualcuno io lo conoscevo di vista, a qualche altro avevo reso servigio, e insomma
paura non avevamo.
55    Ecco, Franzisca aveva questo ch’era quasi un difetto: non temeva nessuno, era
attenta, ma indifferente a tutto. Ella diceva: «Ne ho viste tante, in vita mia, che
nulla più mi impressiona, e anche se vedessi morire un cristiano non mi
spaventerei». E non era curiosa come le altre donne: se nella strada accadeva una rissa,
ella non apriva neanche la porta. Ebbene, una notte ella stava ad aspettarmi, ed io
60    tardavo perché la cavalla m’era scappata dal podere ed ero dovuto tornare a piedi.
Oh dunque Franzisca aspettava, seduta accanto al fuoco poiché era una notte
d’autunno inoltrato, nebbiosa e fredda. A un tratto, ella poi mi raccontò, un grido
terribile risuonò nella notte, proprio dietro la nostra casa: un grido così disperato
e forte che i muri parvero tremare di spavento. Eppure ella non si mosse: disse poi
65    che non si spaventò, che credette fosse un ubbriaco, che sentì un uomo a correre,8
qualche finestra spalancarsi, qualche voce domandare «cos’è?» poi più nulla.
Io rientrai poco dopo; ma lì per lì Franzisca non mi disse nulla. L’indomani dietro
il muro del nostro cortile fu trovato morto ucciso un giovine, un fanciullo quasi,
Anghelu Pinna, voi lo ricordate, il figlio diciottenne di Antoni Pinna: e per questo
70    delitto anch’io ebbi molte noie perché, come vi dico, il cadavere del  disgraziato
ragazzo fu trovato accanto alla nostra casa, steso, ricordo bene, in mezzo a una gran
macchia di sangue coagulato come su una coperta rossa. Ma nessuno seppe mai
nulla di preciso, sebbene molti credano che Anghelu avesse relazioni con una nostra
vicina di casa e che sieno stati i parenti di lei ad ucciderlo all’uscir d’un convegno.9
75    Basta, questo non c’importa: quello che c’importa è che la perizia provò essere il
malcapitato morto per emorragia: aiutato a tempo, fasciata la ferita, si sarebbe
salvato.
Ebbene, fratelli miei, questo terribile avvenimento distrusse la mia pace. Mia
moglie diventò triste, dimagrì, parve un’altra, come se l’avessero stregata, e giorno
80    e notte ripeteva: «se io uscivo e guardavo e alle voci che domandavano rispondevo,
– il grido è stato dietro il nostro cortile, – il ragazzo si salvava…».
Diventò un’altra, sì! Non più feste, non più allegria; ella sognava il morto, e alla
notte udiva grida disperate e correva fuori e cercava tremando. Invano io le dicevo:
«Franzisca, ascoltami: sono stato io quella notte a gridare, per provare se ti spaventavi.
85    Un caso disgraziato ha voluto che nella stessa notte accadesse il delitto:
ma l’infelice non ha gridato e tu non hai da rimproverarti nulla».
Ma ella s’era fissata in mente quell’idea, e deperiva, sebbene per farmi piacere
fingesse di credere alle mie parole, e non parlasse più del morto. Così passò un
anno; ero io adesso a volerla condurre alle feste e a divagarla.10 Una volta, due
90    anni circa dopo la notte del grido, la condussi alla festa dei santi Cosimu e Damianu,
dove una famiglia amica ci invitò a passare qualche giornata assieme.
La sera della festa ci trovavamo tutti nello spiazzo davanti alla chiesetta. Era
agli ultimi di settembre ma sembrava d’estate, la luna illuminava i boschi e le
montagne, e la gente ballava e cantava attorno ai fuochi accesi in segno d’allegria.
95    A un tratto mia moglie sparì ed io credetti ch’ella fosse andata a coricarsi, quando
la vidi uscir correndo di chiesa, spaventata come una sonnambula che si sia svegliata
durante una delle sue escursioni notturne.
«Franzisca, agnello mio, che è stato, che è stato?».
Ella tremava, appoggiata al mio petto, e volgeva il viso indietro, guardando
100  verso la porta della chiesa.
La trascinai dentro la capanna, l’adagiai sul giaciglio, e solo allora ella mi raccontò
che era entrata nella chiesetta per pregare pace all’anima del povero Anghelu
Pinna quando a un tratto, uscite di chiesa alcune donnicciuole di Mamojada, si
trovò sola, inginocchiata sui gradini ai piedi dell’altare.
105  «Rimasi sola», ella raccontava con voce ansante, aggrappandosi a me come
una bambina colta da spavento. «Continuai a pregare, ma all’improvviso sentii un
sussurro come di vento e un fruscio di passi. Mi volsi, e nella penombra, in mezzo
alla chiesa, vidi un cerchio di persone che ballavano tenendosi per mano, senza
canti, senza rumore; erano quasi tutti vestiti in costume, uomini e donne, ma non
110  avevano testa. Erano i morti, maritino mio, i morti che ballavano! Mi alzai per
fuggire, ma fui presa in mezzo, due mani magre e fredde strinsero le mie… ed io
dovetti ballare, maritino mio, ballare con loro. Invano pregavo e mormoravo:

Santu Cosimu abbocadu,
ogademinche dae mesu…11

115  quelli continuavano a trascinarmi ed io continuavo a ballare. A un tratto il mio
ballerino di destra si curvò su di me, e sebbene egli non avesse testa, io sentii
distintamente queste parole:
«Lo vedi, Franzì? Anche tu non hai badato al mio grido!».
Era lui, marito mio, il malcapitato fanciullo. Da quel momento non ci vidi più.
120  Ecco il momento, pensavo, adesso mi trascinano all’inferno. È giusto, è giusto, pensavo,
perché io vivevo senza amore del prossimo e non ho ascoltato il grido di chi
moriva. Eppure sentivo una forza straordinaria; mentre, continuando a ballare, sfioravamo
la porta, riuscii a torcere fra le mie le mani dei due fantasmi e mi liberai e
fuggii; ma Anghelu Pinna mi rincorse fino alla porta e tentò di afferrarmi ancora:
125  egli però non poteva metter piedi fuori del limitare, mentre io l’avevo già varcato.
Il lembo della mia tunica gli era rimasto in mano; per liberarmi io slacciai la tunica,
gliela lasciai e fuggii. Marito mio bello, io muoio… io muoio… Quando sarò morta
ricordati di far celebrare tre messe per me e tre per il povero Anghelu Pinna… E
va a guardare se trovi la mia tunica, prima che i morti me l’abbiano ridotta in lana
130  scardassata».12
Sì, uccellini, – concluse il vecchio zio Taneddu – mia moglie delirava; aveva la
febbre, e non stette più bene e morì dopo qualche mese, convinta di aver ballato
coi morti, come spesso si sente a raccontare: e, cosa curiosa, un giorno un pastore
trovò davanti alla porta di San Cosimo un mucchio di lana scardassata, e molte
135  donne credono ancora che quella fosse la lana della tunica di mia moglie, ridotta
così dai morti.
Sì, ragazzini, che state lì ad ascoltarmi con occhi come lanterne accese, il fatto
è stato questo: e quel che è più curioso, sì, ve lo voglio dire, è che il grido lo feci io
davvero, quella notte, per provare se mia moglie era indifferente com’essa affermava.
140  Quando essa fu morta feci dire le messe, ma pensavo anch’io: se non gridavo,
quella notte malaugurata, mia moglie non moriva. E mi maledicevo, e gridavo a
me stesso: che la giustizia t’incanti,13 che i corvi ti pilucchino14 gli occhi come due
acini d’uva, va alla forca, Sebastiano Pintore, tu hai fatto morir tua moglie…
Ma poi tutto passò: dovevo morire anch’io? Eh, fratelli miei, ragazzini miei, e
145  tu, occhi di lucciola, Grassiedd’ ’Elè, che ne dite? Non ero una donnicciuola, io, e
d’altronde morrò lo stesso, quando zio Cristo Signore Nostro comanda…
 >> pagina 660

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

La moglie di ziu Taneddu, Franzisca, sembra essere impazzita a causa del senso di colpa: se avesse risposto al grido di Anghelu Pinna, accorrendo in suo aiuto, forse il ragazzo non sarebbe morto dissanguato (io vivevo senza amore del prossimo e non ho ascoltato il grido di chi moriva, rr. 121-122). La sua visione dei morti che ballano dentro la chiesa e che la costringono a partecipare alla macabra danza viene appunto interpretata da Taneddu, in modo rassicurante, come un delirio (Sì, uccellini, […] mia moglie delirava, r. 131). Tuttavia, il ritrovamento di un mucchio di lana scardassata (r. 134) davanti alla porta della chiesa rappresenta un particolare inquietante, interpretabile come una prova della veridicità dell’esperienza riferita dalla donna.

Le scelte stilistiche

Nella novella è possibile cogliere i tratti peculiari dell’ispirazione artistica della Deledda: da una parte una rappresentazione dai contorni realistici, erede della tradizione regionalistica verista; dall’altra il senso di inquietudine che attraversa la narrazione, più vicino alla sensibilità decadente. In realtà, come si è detto, il Verismo deleddiano è più formale che sostanziale: nel quadretto che raffigura i tre vecchi seduti sulla panchina a raccontare storie, infatti, è ravvisabile un intento bozzettistico più che la volontà di proporre una descrizione realistica; analogamente, nel racconto di ziu Taneddu la descrizione dell’ambiente sardo e dei suoi tipi, resi con un’attitudine folclorica, non risponde a un intento documentario, dando piuttosto vita a un’atmosfera magica e fiabesca. Più che da Verga e dagli altri maestri del Verismo, infatti, la Deledda è influenzata dal gusto per il barbaro e per il primitivo del primo d’Annunzio (quello di Terra vergine e delle Novelle della Pescara); di qui l’attenzione della scrittrice per gli aspetti selvaggi, passionali e patriarcali della sua Sardegna e, sul piano dello stile, una tensione favolistica che trasfigura in chiave fantastica le espressioni concrete della vita popolare, interpretate più alla luce di una visione magica dell’esistenza che con gli occhi della Storia.

 >> pagina 661

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Come viene descritto, all’inizio, il carattere di Franzisca? In seguito a quale fatto esso muta radicalmente?


2 Con quale argomento Taneddu cerca di consolare la moglie? Perché lei non gli crede?


3 Perché il ritrovamento di un mucchio di lana scardassata (r. 134) davanti alla porta della chiesa di San Cosimo potrebbe essere la prova della veridicità del ballo dei morti riferito da Franzisca?

ANALIZZARE

4 Individua le similitudini e le metafore presenti nella novella. A quale campo semantico appartengono?


5 Come definiresti il tessuto lessicale del testo? Più letterario o più gergale? In che modo queste due componenti entrano qui in reciproca relazione?


6 Individua nel racconto di ziu Taneddu le espressioni che contribuiscono a conferirgli un tono colloquiale.

INTERPRETARE

7 I racconti e i romanzi di Grazia Deledda narrano spesso di passioni forti e distruttive. In quali elementi della trama di questa novella possiamo cogliere tale aspetto?


8 Il motivo tipicamente deleddiano della colpa non riguarda solo Franzisca ma, come si scopre alla fine del testo, anche Taneddu. Tuttavia, tale senso di colpa è vissuto dai due personaggi in modo radicalmente diverso e con conseguenze opposte. Perché?

scrivere per…

argomentare

9 In quale personaggio, secondo te, si rispecchia maggiormente l’autrice? Rispondi in un testo argomentativo di circa 20 righe.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento