Le prime opere

Le prime opere

Dopo l’esordio del 1892 con il romanzo Fior di Sardegna, la prima notorietà viene alla Deledda dal romanzo Anime oneste (1895), cui seguono, tra gli altri, La giustizia (1898), Elias Portolu (1903), Cenere (1904; da questo romanzo verrà tratto nel 1916 un film di Febo Mari, con l’unica interpretazione cinematografica della grande attrice Eleonora Duse), L’edera (1908), Canne al vento (1913). In questa prima fase della sua opera, di sapore veristico, si trova il motivo dell’ansia di riscatto dal male – riscatto in realtà impossibile – inserito in una visione religiosa e a tratti cupa della vita e sullo sfondo di una rappresentazione, più lirica che realistica, della natura e del paesaggio della sua Sardegna.

Canne al vento

In particolare, il romanzo Canne al vento rappresenta bene la sintesi dei temi e dei motivi della prima fase della narrativa deleddiana. Ester, Ruth e Noemi Pintor sono sorelle, discendenti di un nobile casato, ormai economicamente decaduto, del paese di Galte (nel Nuorese c’è un centro di nome Galtellì al quale l’autrice si ispirò). Le tre donne vivono quasi da recluse nell’antica casa in rovina, assistite dall’anziano servo Efix, che coltiva l’ultimo podere rimasto loro degli immensi possedimenti di un tempo. Con la sua devozione alle “padrone” Efix intende espiare la colpa di aver ucciso molti anni prima, seppure involontariamente, il padre delle donne, don Zame: il servo aveva infatti cercato di agevolare la fuga di una quarta sorella, la più giovane, Lia, dalla tirannia del padre, che teneva le figlie segregate in casa affinché non si mischiassero con la gente del paese.

Un giorno, d’improvviso, giunge dal continente Giacinto, il figlio di Lia, rimasto orfano e licenziato per un furto dal suo impiego alle Dogane. Il ragazzo – che Efix inizialmente sperava potesse essere di sostegno alle zie – si rivela invece scioperato e spendaccione, al punto da sperperare un’ingente somma di denaro prestatagli da un’usuraia. Intanto il giovane si innamora di Grixenda, un’umile paesana, ma le zie si oppongono al loro matrimonio; a essere contraria è soprattutto Noemi, morbosamente attratta dal nipote. Questi, per poter ottenere altro denaro, giunge a falsificare su una cambiale le firme delle zie. Morta improvvisamente Ruth, le due sorelle rimaste, per salvare Giacinto, sono costrette a vendere il podere al ricco cugino don Predu, che in questo modo le salva dalla rovina.

Intanto Giacinto ha lasciato il paese per cercare lavoro a Nuoro ed Efix si è messo a vagabondare vivendo di elemosine. Quando l’anziano servo torna al paese apprende che Giacinto sposerà Grixenda, mentre Noemi diventerà moglie di don Predu, sanando così la precaria situazione economica delle Pintor. Ora, finalmente, Efix può morire in pace, proprio il giorno delle nozze di Noemi.

 >> pagina 641

T1

La morte di Efix

Canne al vento, cap. 17

Dopo aver trascorso un lungo periodo di vagabondaggio in seguito alla vendita del podere che per tanti anni aveva custodito, sentendosi prossimo alla morte, l’anziano servo Efix decide di tornare alla casa delle sorelle Pintor. È questo l’ultimo capitolo del romanzo.

Efix era di nuovo laggiù, al poderetto. Terminata la buona stagione, raccolte le
frutta, Zuannantoni, a cui il padrone aveva dato l’incarico di pascolare un branco
di pecore nelle giuncaie intorno al paesetto, se n’era andato di buon grado.
Ed ecco dunque Efix di nuovo seduto al solito posto davanti alla capanna,
5      sotto il ciglione1 glauco2 di canne. Il cielo è rosso, in alto sopra la collina bianca;
passa il vento e le canne tremano e bisbigliano.
“Efix rammenti, Efix rammenti? Sei andato, sei tornato, sei di nuovo in mezzo
a noi come uno della nostra famiglia. Chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi
ma si piegherà domani e posdomani si spezzerà. Efix rammenti, Efix rammenti?”
10    Egli intrecciava una stuoia e pregava. Di tanto in tanto un acuto dolore al fianco
lo faceva balzare dritto, rigido come se qualcuno gli infilasse un palo di ferro
nelle reni; si ripiegava di nuovo su se stesso, livido e tremante, proprio come una
canna al vento; ma dopo lo spasimo provava una gran debolezza, una grave dolcezza,
perché sperava di morire presto. La sua giornata era finita.
15    Finché poté resistere rimase laggiù accanto alla terra che aveva succhiato tutta
la sua forza e tutte le sue lagrime.
L’autunno s’inoltrava coi giorni dolci di ottobre, coi primi freddi di novembre;
le montagne davanti e in fondo alla valle parevano vulcani; nuvole di fumo solcate
da pallide fiamme e poi getti di lava azzurrognola e colonne di fuoco salivano
20    laggiù dal mare.
Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava
a blocchi, a cataste sull’orizzonte; operai invisibili lo lavoravano, costruivano
case, edifizi, intere città, e subito dopo le distruggevano e rovine e rovine biancheggiavano
allora nel crepuscolo, coperte di erbe dorate, di cespugli rosei; passavano
25    torme di cavalli grigi e neri, un punto giallo brillava dietro un castello smantellato
e pareva il fuoco di un eremita o di un bandito rifugiatosi lassù: era la luna che
spuntava.
Piano piano la sua luce illuminava tutto il paesaggio misterioso e come al tocco
di un dito magico tutto spariva; un lago azzurro inondava l’orizzonte, la notte d’autunno
30    limpida e fredda, con grandi stelle nel cielo e fuochi lontani sulla terra, stendevasi
dai monti al mare. Nel silenzio il torrente palpitava come il sangue della valle
addormentata. Ed Efix sentiva avvicinarsi la morte, piano piano, come salisse tacita
dal sentiero accompagnata da un corteggio di spiriti erranti, dal batter dei panni delle
panas3 giù al fiume, dal lieve svolazzare delle anime innocenti tramutate in foglie, in
35    fiori…
Una notte stava assopito nella capanna quando si svegliò di soprassalto come
se qualcuno lo scuotesse.
Gli parve che un essere misterioso gli piombasse sopra, frugandogli le viscere
con un coltello: e che tutto il sangue gli sgorgasse dal corpo lacerato, inondando
40    la stuoia, bagnandogli i capelli, il viso, le mani.
Cominciò a gridare come se lo uccidessero davvero, ma nella notte solo il
mormorio dell’acqua rispondeva.
Allora ebbe paura e pensò di tornarsene in paese; ma per lunga ora della notte
non poté muoversi, debole, come dissanguato: un sudore mortale gli bagnava
45    tutta la persona.
All’alba si mosse. Addio, questa volta partiva davvero e mise tutto in ordine
dentro la capanna: gli arnesi agricoli in fondo, la stuoia arrotolata accanto, la pentola
capovolta sull’asse, il fascio di giunchi nell’angolo, il focolare scopato: tutto
in ordine, come il buon servo che se ne va e tiene al giudizio favorevole di chi deve
50    sostituirlo.
Portò via la bisaccia, colse un gelsomino dalla siepe e si volse in giro a guardare:
e tutta la valle gli parve bianca e dolce come il gelsomino.
E tutto era silenzio: i fantasmi s’erano ritirati dietro il velo dell’alba e anche
l’acqua mormorava più lieve come per lasciar meglio risonare il passo di Efix giù
55    per il sentiero; solo le foglie delle canne si movevano sopra il ciglione, dritte rigide
come spade che s’arrotavano sul metallo de! cielo.
“Efix, addio, Efix addio”.

Ritornò dalle sue padrone e si coricò sulla stuoia.
«Hai fatto bene a venir qui» disse donna Ester coprendolo con un panno; e
60    Noemi si curvò anche lei, gli tastò il polso, gli afferrò il braccio cercando di convincerlo
a mettersi a letto.
«Mi lasci qui, donna Noemi mia» egli gemeva sorridendo ma con gli occhi vaghi
come quelli del cieco, coperti già dal velo della morte. «Questo è il mio posto».
Più tardi un nuovo accesso del male lo contorse, lo annerì; e mentre le padrone
65    mandavano a chiamare il dottore egli cominciò a delirare.
La cucina si empiva di fantasmi, e l’essere terribile che non cessava di colpirlo
gli gridò all’orecchio:
«Confessati! Confessati!»
Anche donna Ester si inginocchiò davanti alla stuoia mormorando:
70    «Efix, anima mia, vuoi che chiamiamo prete Paskale? Ti leggerà il Vangelo e
questo ti solleverà…»
Ma Efix la guardava fisso, con gli occhi vitrei nel viso nero brillante di gocce di
sudore; il terrore della fine lo soffocava, aveva paura che l’anima gli sfuggisse d’improvviso
dal corpo, come era fuggito lui dalla casa dei suoi padroni, e scacciata dal
75    mondo dei giusti si mettesse a vagabondare inquieta e dannata coi fantasmi della
valle; eppure rispose di no, di no. Non voleva il prete: più che della morte e della
sua dannazione aveva paura di rivelare il suo segreto.
Ed ecco don Predu4 che arriva, siede accanto alla stuoia e comincia a scherzare.
È allegro, don Predu; s’è ingrassato di nuovo e la catena d’oro non pende più tanto
80    sul suo panciotto nero.
«Perché sei tornato qui, babbeo? Se venivi a casa mia ci stavi male? Sei come
il gatto che ritorna anche se portato via dentro il sacco. Su, andiamo; ti metterò
nel letto di Stefana».
Anche Noemi, curva con una scodella fumante in mano, mentre gli asciuga il
85    sudore dal viso, cerca di imitare il suo grosso fidanzato.
«Su bevi; che vuoi morire scapolo?»
«Dunque» disse Efix sollevando il capo ma rifiutando il brodo, «ce ne
andiamo…»
«Ma cosa dici? Vuoi andare di nuovo? Che girellone…»
90    «Oh, uomo, che fai? Andiamo su da Stefana che t’ha serbato una melagrana…
Su, ragazzo!»
Ma Efix rimise la testa giù e chiuse gli occhi, non perché offeso dagli scherzi
dei suoi padroni ma perché si sentiva tanto lontano da loro, da tutti. Lontano,
sempre più lontano, ma con un peso addosso, con un traino che non gli permetteva
95    di andare avanti, di tornare indietro. Era peggio di quando si portava appresso
i ciechi.5
Finalmente arrivò il dottore: lo palpò tutto, gli batté le nocche delle dita sul
ventre duro come un tamburo, lo voltò, lo rivoltò, gli buttò addosso il panno
come su un pane che fermenta.
100  «È il fegato che fa un brutto scherzo. Bisogna andare a letto, Efix».
Il malato sollevò l’indice, accennando di no.
«Tanto devo morire: mi lasci morire da servo».
«Davanti a Dio non ci sono né servi né padroni» disse donna Ester, e don Predu
si curvò e tentò di sollevarlo fra le sue braccia.
105  «Zitto, babbeo. Zitto!»
Ma Efix si mise a gemere, scuotendosi debolmente come un uccello ferito che
tenta ancora di volare.
«Voi volete farmi morire prima dell’ora…»
Allora il dottore fece un cenno con la mano e con la testa sollevando gli occhi
110  al cielo, e don Predu rimise giù il malato, lo ricoprì, non scherzò più.
Così lo lasciarono. E le ore e i giorni passavano, ed Efix nel delirio sognava di
camminare, camminare coi ciechi, attraverso le valli e le tancas6 dell’altipiano, e
sognava le feste, i soldi che cadevano davanti a lui,7 le donne pietose, i bei giovani
sui cavalli   balzani che correvano sulla costa del Monte e da lontano gli lanciavano
115  monete e parole mordenti.
Ma alte pareti affumicate, con chiazze rosse di rame, con una panca in fondo,
circondavano sempre l’orizzonte: al di là non si andava, mentre egli aveva bisogno
di andare al di là, per liberarsi del suo peso, per guarire del suo dolore.
Due volte Noemi lo trovò alzato che tentava di uscire fuori del cortile. Levarono
120  la chiave dal portone.
Donna Ester si curvava su lui, gli accomodava il guanciale, la coperta addosso,
gli tastava il polso.
«Efix, il Rettore8 verrà a visitarti».
Egli sollevava l’indice, accennando di no, a occhi chiusi.
125  Nei primi giorni qualcuno domandò di visitarlo; ma Noemi apriva appena il
portone e mandava via tutti. Egli, dentro, sentiva. E che la gente si ricordasse di lui,
così lontano, così al limite del mondo, lo sorprendeva e lo turbava.
«Chi era che mi cercava poco fa?» domandò una mattina a donna Ester.
«Sarà stato Zuannantoni».
130  «Se torna, donna Ester mia, di grazia, lo lasci entrare… È bene cominciare a
congedarsi…»
«Che dici, Efix! Perché questa idea fissa? Perché non vuoi che venga il Rettore?
Ti reciterebbe il Vangelo e non avresti più paura di morire…»
Egli non rispose. No, non lo ingannavano: ma l’ora non era ancor giunta, ed
135  egli si aggrappava alla vita solo perché aveva paura di deporre il suo peso in casa
delle sue padrone.

Intorno a lui la vita prendeva un aspetto nuovo: un’onda di gioia pareva invadere
la casa quando arrivava don Predu, ed erano timide risate di donna Ester, discussioni
dei fidanzati, progetti, chiacchiere, improvvisi silenzi per rispetto al malato.
140  Allora egli si sentiva d’ingombro e desiderava andarsene.
Una mattina donna Ester, che dormiva nella camera terrena per vegliarlo,
s’alzò presto, rimise tutto bene in ordine parlando sottovoce fra sé, e curvandosi
per fargli bere una tazzina di latte, disse:
«Su, Efix, allegro! Oggi Predu fisserà il giorno delle nozze. Sei contento?»
145  Egli accennò di sì; poi si coprì la testa col panno e là sotto gli pareva d’essere
già morto, ma di gioire lo stesso per la buona fortuna delle sue padrone.
Anche Noemi s’alzò presto; discuteva con la sorella e diceva con fierezza:
«Perché il giorno deve fissarlo lui e non io? lo non sono una paesana per seguire
l’uso comune».
150  «Che impazienza ti è presa? Le pubblicazioni sono fatte: oggi si parlerà del
resto».
Noemi era agitata ed Efix la sentiva andare e venire per la casa, con passo lieve
ma inquieto; finalmente ella sedette accanto all’uscio a cucire silenziosa, e quando
arrivò don Predu scostò la sedia, tirando in là la tela per lasciarlo passare, ma
155  sollevò appena il viso per guardarlo e rispose con un lieve cenno dei capo al saluto
di lui. Ed ecco subito donna Ester scese giù le scale annodandosi il fazzoletto,
pronta a servire da interprete9 ai due fidanzati fra i quali spesso nascevano malintesi,
perché Noemi si offendeva di tutto e capiva tutto alla rovescia nonostante la
buona volontà di don Predu.[…]
160  E fra il ridere un poco forzato di donna Ester e le proteste di Noemi, che egli
teneva ferma per le spalle, si udì lo scoccare forte di un bacio.
“Come sono contento! Adesso posso morire” pensava Efix sotto il panno; ma
aveva come l’impressione di non potersene andare, di non poter uscire da quel
cerchio di muri che lo serrava.
165  Don Predu rimase tutto il giorno lì, invitato a pranzo dalle cugine: parlava, rideva,
si beffava nuovamente del prossimo; ogni tanto però taceva, anche perché Noemi
pareva curarsi poco di lui. Un silenzio grave circondava allora Efix, ed egli capiva
d’esser d’ingombro, di dar peso e soggezione alle donne e allo stesso don Predu.
Bisognava andarsene, lasciare liberi i fidanzati di amarsi e scherzare senza
170  quell’immagine della morte davanti a loro.
E d’un tratto, lì sotto al buio, sotto il panno, gli parve di capire perché non
poteva andarsene. Era qualcosa che lo tratteneva ancora nella casa dei padroni,
come un conto non aggiustato, che bisognava aggiustare.
E quando donna Ester si chinò su lui, credendolo addormentato, e sollevò
175  lievemente il lembo del panno, lo vide con gli occhi spalancati, col viso rosso, le
labbra tremanti.
«Ebbene, Efix, che hai?»
Egli le accennò con le palpebre di accostarsi di più, le mormorò sul viso con
un filo di voce:
180  «Donna Ester mia, di grazia, se vuole mi chiami prete Paskale».
Dopo la confessione non parlò più, non si lamentò più.
Stava col capo coperto, ma donna Ester ogni volta che sollevava il panno vedeva
il povero viso sempre più piccolo, violaceo, raggrinzito come una prugna
secca. Una sera egli aprì gli occhi fissandola con quel suo sguardo di spavento che
185  le destava tanta pietà, e mormorò senza più voce:
«È lunga, donna Ester mia! Abbiano pazienza».
«Che cosa è lunga, Efix?»
«La strada… Non s’arriva mai!»
Gli sembrava infatti di camminare sempre. Saliva un monte, attraversava una
190  tanca; ma arrivato al confine di questa ecco un altro monte, un’altra pianura; e in
fondo il mare.
Adesso però camminava tranquillo, e solo gli dispiaceva di non arrivar mai
per sgombrare del suo corpo la casa delle sue padrone: ma un giorno, o una notte
– non capiva più che tempo era – gli parve d’esser giunto al muricciuolo del
195  poderetto, su in alto sul ciglione delle canne, e di sdraiarsi pesantemente sulle
pietre. Le canne frusciavano, piegandosi fino a lui per toccarlo, per lambirlo con le
foglie che avevano qualche cosa di vivo, come dita, come lingue. E gli parlavano,
e una gli pungeva l’orecchio perché sentisse meglio: era un mormorio misterioso
che ripeteva il sussurro dei fantasmi della valle, la voce del fiume, il salmodiare
200  dei pellegrini, il palpito del Molino, il gemito della fisarmonica di Zuannantoni.
Egli ascoltava, aggrappato bocconi ai muricciuolo e da una parte vedeva la cucina
delle sue padrone, dall’altra una distesa nebbiosa come lassù dal Monte Gonare.
Donna Ester saliva dalla valle col viso coperto da un’ala nera; sollevava l’ala,
mostrava il suo viso scuro, doloroso, gli occhi velati di pietà, ma si traeva indietro
205  dal muricciuolo come per paura di cadere; ed ecco altre figure salivano, tutte col
viso nascosto da un’ala nera, e tutte si avvicinavano ma si ritraevano subito spaurite,
spaventate dal pericolo di precipitare al di là.
Efix le riconosceva tutte, queste figure, le sentiva parlare, capiva che erano vive
e reali; eppure aveva l’impressione di sognare: erano figure del sogno della vita.
210  Era il prete, era il Milese, era Zuannantoni, erano le serve di don Predu, e don
Predu stesso e Noemi: a volte qualcuno di loro si faceva coraggio e cercava di aiutarlo,
di trarlo giù dal muricciuolo, senza riuscirvi.
Ed egli cominciò a provare fastidio di loro; volse il viso di là e fissò la valle
nebbiosa. Ed ecco la nebbia cominciò a diradarsi; macchie di boschi dorati apparvero
215  fra squarci di azzurro, e sul ciglione sopra di lui un melagrano come quelli di
cui raccontava il cieco curvò i suoi rami pesanti di frutti rossi spaccati che lasciavano
cadere i loro chicchi di perla.
Ma la gente al di là del muricciuolo non lo lasciava in pace a contemplare tanto
bene; egli non si volgeva più, e solo un giorno una mano che si posava sulla sua
220  spalla e una voce che lo chiamava piano piano all’orecchio lo fecero sobbalzare.
«Efix! Efix!»
Il viso di Giacinto, gli occhi dolci umidi di pietà stavano sopra di lui: fra tante
figure morte quella gli parve ancora la sola viva, tanto viva che le sue mani calde
avevano quasi la potenza di tirarlo su, rimetterlo dritto nel mondo di qua.
225  Ma fu un momento: ecco che si velava anch’essa, perdeva forza, ritornava fantasma;
ed Efix provò dolore, come fosse Giacinto a morire, non lui.
«Efix, su, su! Che fai? Non mi dici niente? Sono venuto per te, sai. Sono qui.
Non volevano lasciarmi entrare ed ho saltato il muro. Su, guardami!»
Egli lo guardava, ma non ne vedeva più gli occhi.
230  «Zia Noemi è scappata come di volo, vedendomi! Proprio non mi perdonerà
mai! Che cosa ti ha raccontato, dimmi? Che non vuol più vedermi, che ha giurato
di non pronunziare più il mio nome? Lo so: ma non importa. Son contento che
si sposi; sai cos’era accaduto, l’ultima volta che venni? Io le dicevo: “Sposatevi, zia
Noemi; zio Pietro è ricco, vi ama, vi renderà felice”. Essa mi guardava con disprezzo,
235  ed io capivo bene che non si sarebbe decisa mai. Allora Efix, senti – parliamo
piano, non stia ad ascoltare – ebbene, ricordai il tuo consiglio. La guardai bene negli
occhi e le dissi: “Zia Noemi, io sposerò Grixenda, perché solo Grixenda, povera
come me, giovane e sola come me, può essere la mia compagna”. Allora Noemi
si fece pallida come una morta; ebbi paura e me ne andai. Piangevo; te lo disse?
240  Su, Efix, tu non mi ascolti. Su! Ecco zia Ester. Non è vero, zia Ester, che Efix finge
d’esser malato per non venire alle nozze mie ed a quelle di zia Noemi per non farci
il regalo? Eppure, dicono, denari ne hai portati, dal tuo viaggio…»
Efix sentiva le parole e le capiva anche, ma erano senza suono, come parole scritte.
«Su, dimmi almeno cos’hai. Non mi racconti neppure dove sei stato. Rammenti
245  quando sei venuto al Molino e ti chiesi dove andavi? E tu rispondesti: in un
bel posto. Non rammenti? Apri gli occhi, guardami. Dove andavi?…»
Efix ricominciò a provare fastidio: aprì un momento gli occhi, li richiuse, gravi
già del sonno della morte. E le parole di Giacinto si confondevano, di là del muricciuolo
col fruscio delle canne, col ronzio del vento che passa.
250  Eppure a un tratto parve sollevarsi e rivivere. Durante la sera un accesso violento
del male lo aveva pestato come sale nel mortaio: era diventato sordo e muto dal
dolore, ma aveva veduto don Predu guardare Noemi con un gesto di contrarietà.
Perché le nozze erano fissate per l’indomani, e s’egli moriva portava il malaugurio
agli sposi o li costringeva a rimandare a un altro giorno la cerimonia nuziale. Allora
255  in fondo alle tenebre che già lo avvolgevano brillò come una lampada lontana:
la volontà di combattere la morte.
Si scoprì il viso e parlò.
«Donna Ester, sto meglio. Mi dia da bere».
Accorsero tutt’e due le padrone e Noemi stessa gli sollevò la testa e gli diede
260  da bere.
«Bravo, Efix! Così va bene. Sai cosa succede, oggi?»
Egli accennò di sì, bevendo.
«Sei contento, vero, Efix? Quanto ci hai pensato, a questo giorno? Ti parrà un
sogno».
265  Egli accennava di sì, di sì: tutto era stato, tutto era un sogno.
Poi lo lasciarono solo, perché Noemi doveva vestirsi; ed egli sollevò la testa e
si guardò attorno ma come di nascosto, continuando a far cenni di approvazione.
Tutto andava bene; la festa nuziale si svolgeva in casa dello sposo, e qui nulla turbava
l’antica pace. Per un’attenzione di Noemi verso il malato neppure la cucina
270  era stata ripulita, come s’usa per le nozze; la casa e il cortile erano silenziosi, il gatto
stava immobile sulla panca, nero con gli occhi verdi come l’idolo della solitudine;
nel silenzio si udiva il legno corroso del balcone scricchiolare e sollevando un poco
di più la testa Efix rivide un’ultima volta il muro rovinato e l’erba e i fiori d’ossa
dell’antico cimitero.
275  Ma d’improvviso una figura apparve sulla porta; alta, sottile, vestita d’uno stretto
abito granato a fiori neri, aveva una ghirlanda di rose sul capo, e qua e là sul viso,
sulla persona, sui piedi, qualche cosa che scintillava: gli occhi, i gioielli, le scarpette…
Egli spalancò gli occhi e riconobbe Noemi; ma dietro di lei, accomodandole
le rose del cappello e le pieghe del vestito, donna Ester con le ali nere dello scialle
280  rigettate sugli omeri gli parve l’ombra della sposa.
«Sto bene, vero?» domandò Noemi ritta davanti a lui, accomodandosi i risvolti
delle maniche. «Non ti pare stretto, questo vestito! Si usa così. E guarda com’è
bello, questo: è il regalo di Predu».
Si chinò nonostante il vestito stretto e gli fece vedere il rosario di madreperla
285  con una grande croce d’oro.
«Vedi? Era la croce di un vescovo antico: era della nonna di Predu, ch’era poi
anche la nostra. Così rimane in famiglia. È bella, vero? Guarda il Cristo, pare che
sorrida, mentre gli calano giù le lacrime e il sangue… E dietro, guarda…»
Efix guardava silenzioso, immobile, con le mani nere e secche aggrappate
290  all’orlo del panno; e pareva affacciarsi, già cadavere, dal mondo di là per contemplare
un’ultima volta la felicità della sua padrona. Ma ella disse, chinandosi ancora
di più, con le ginocchia piegate, in modo che gli sfiorava il viso col suo viso:
«Vedi che regalo, Efix!»
Ed era pallida, nel suo vestito granato, con gli occhi cattivi pieni di lagrime.
295  Ma Efix non ne provò dolore.
«Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere…» disse con un soffio.
E questo fu il suo augurio.
Da quel momento non parlò più. Gli pareva di tenersi aggrappato all’orlo del
panno per non cadere di là; e di vedere dall’alto del muricciuolo lo spettacolo del
300  mondo.
Ed ecco don Predu e i parenti arrivano per portar via la sposa: entrano, si dispongono
intorno nella cucina come le figure di un sogno, confusamente, ma con
rilievi strani di particolari.
Don Predu è vestito di nero, un abito nuovo attillato che lo costringe a respirar
305  forte, ma Efix non ne distingue il viso, mentre vede la bocca sarcastica del Milese,
lunga stretta, come piena di riso represso, e il ventre gonfio d’una parente delle
dame, quella che deve accompagnare la sposa, e due ceri con due nastri color rosa
sostenuti da due manine pallide.
E tutti sono seri come venuti a prendere lui, morto, non la padrona sposa, e
310  camminano piano per non dargli noia.
Donna Ester, con lo scialle sciolto un po’ svolazzante sulle spalle, dispone il
corteo: prima i bambini coi ceri alti in mano; poi la sposa con la parente; poi lo
sposo coi parenti; in coda i pochi invitati; il Milese in ultimo pareva ridersi di tutti
silenziosamente.
315  “Adesso mi lasciano solo” pensa Efix con un poco di amarezza. “Solo. E son
io che ho fatto tutto!”
Sulla porta Noemi si volse a fargli un cenno di addio con la croce d’oro. Addio.
Ed egli, come già per Giacinto, ebbe l’impressione che fosse lei a morire.
Uscivano tutti, se ne andavano: donna Ester si curvò su lui, parve coprirlo con
320  le sue ali nere.
«Torno presto, io, appena li avrò accompagnati: bisogna che vada; sta’ quieto,
fermo fermo».
Sì, egli stava fermo al suo posto; fermo e solo. S’udiva la fisarmonica che Zuannantoni
suonava in onore degli sposi, ed egli ricominciò a ricordare tante cose:
325  il rumore del Molino, su a Nuoro, le nuvole sopra Monte Gonare, il fruscio delle
canne sul ciglione…
“Efix, rammenti? Efix, rammenti?”
Com’era diventata grande la cucina! Scura e tiepida, coi muri lontani, con
sfondi misteriosi come una tanca di notte. L’usignuolo cantava, il cieco raccontava
330  la storia del palazzo d’oro del Re Salomone.
“… tutto era d’oro, come nel mondo della verità; tutto era puro, lucente. Melagrane
d’oro, vasi d’oro, stuoie d’oro…”
Ed egli vedeva la casa di don Predu, coi melagrani carichi di frutta, i palmizi,
le stuoie coperte di grappoli d’uva e di zucche d’oro.
335  “Noemi starà bene… là… mangerà bene, ingrasserà, darà i denari a donna
Ester per accomodare qui il balcone. Starà bene… Sarà come la Regina Saba.10 Ma
anche lei, la Regina Saba non era contenta… Anche Noemi si stancherà della sua
croce d’oro e vorrà andare lontano, come Lia, come la Regina Saba, come tutti…”
Ma questo non gli destava più meraviglia; andare lontano, bisognava andare
340  lontano, nelle altre terre, dove ci sono cose più grandi delle nostre. Ed egli andava.
Chiuse gli occhi e si tirò il panno sulla testa. Ed ecco si trovò di nuovo sul
muricciuolo del poderetto: le canne mormoravano, Lia e Giacinto stavano seduti
silenziosi davanti alla capanna e guardavano verso il mare.
Gli parve di addormentarsi. Ma d’improvviso sussultò, ebbe come l’impressione
345  di precipitare dal muricciuolo.
Era caduto di là, nella valle della morte.

Donna Ester lo trovò così, quieto, immobile sotto il panno: fermo fermo.
Lo scosse, lo chiamò, e accorgendosi ch’era morto e che lo avevano lasciato
morire solo, si mise a piangere forte, con un gemito rauco che la spaventò. Cercò
350  di calmarsi, ma non poteva; era come un’anima che piangeva entro di lei contro
sua volontà: allora andò e chiuse il portone perché qualcuno non la sorprendesse
a disperarsi così sul servo morto e la gente non s’accorgesse che l’avevano lasciato
morire solo, mentre per la famiglia era un gran giorno di festa.
In attesa che le ore passassero rimosse il cadavere, secco e leggero come quello
355  d’un bambino, lo lavò, lo rivestì, parlandogli sottovoce, fra una preghiera e l’altra
per raccontargli come s’era svolta la cerimonia nuziale, come Noemi piangeva entrando
nella sua ricca nuova dimora – piangeva tanto era felice, s’intende – come
la casa era piena di regali, come la gente buttava grano e fiori fin dentro il cortile
degli sposi, per augurar loro buona fortuna, come tutti insomma erano contenti.
360  «E tu hai fatto questo… di andartene così, di nascosto… senza dir nulla…
come l’altra volta… Ah, Efix, questo non lo dovevi fare… oggi, proprio oggi!…»
Egli pareva ascoltasse, con gli occhi vitrei socchiusi, tranquillo ma deciso a
non rispondere da buon servo rispettoso.
Donna Ester, ricordandosi che gli piacevano i fiori, spiccò un geranio dal pozzo
365  e glielo mise fra le dita sul crocefisso: in ultimo ricoprì il cadavere con un tappeto
di seta verde che avevano tirato fuori per le nozze. Ma il tappeto era corto, e i piedi
rimasero scoperti, rivolti come d’uso alla porta; e pareva che il servo dormisse
un’ultima volta nella nobile casa riposandosi prima d’intraprendere il viaggio verso
l’eternità.
 >> pagina 649

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

L’ultimo capitolo di Canne al vento mette a fuoco molto efficacemente la visione fatalistica della scrittrice, qui incarnata nel personaggio di Efix. Questi si identifica completamente con il proprio destino di “servo”. Tale vocabolo – che compariva nella prima frase del romanzo, in cui Efix veniva definito «il servo delle dame Pintor» – non ha nel linguaggio deleddiano alcuna connotazione negativa, essendo, nella Sardegna rurale, termine d’uso comune per qualificare chi, alle dipendenze di un datore di lavoro (“padrone”), fosse a lui legato da antichi rapporti di consuetudine e fedeltà.

Tale è stato per tutta la sua vita Efix nei confronti della famiglia Pintor: prima ha servito don Zame e, dopo la sua morte, le tre figlie. Per lunghi anni egli ha coltivato i terreni dell’unico podere rimasto alle donne dopo il tracollo economico della famiglia, finché, strette dai debiti contratti dal nipote Giacinto, esse si sono trovate costrette a vendere quanto era sopravvissuto dei vasti possedimenti di un tempo. Efix, allora, se n’era andato via, per non essere di peso alle donne, vivendo di elemosine. Ma ora che si sente prossimo alla fine, il suo destino lo porta a tornare presso le Pintor, per morire là dove era vissuto per la maggior parte della sua esistenza.

Quello di “servo” non è dunque un mestiere, un lavoro, ma una sorta di identità profonda. Sei come il gatto che ritorna anche se portato via dentro il sacco (rr. 81-82), gli dice scherzosamente don Predu. Efix non vuole saperne di porsi in un letto, che pure gli viene offerto, ma preferisce rimanere sulla stuoia, come un fedele cane da guardia: Mi lasci qui, donna Noemi mia […] Questo è il mio posto (rr. 62-63). E, poco più avanti, al medico: Tanto devo morire: mi lasci morire da servo (r. 102). Quasi sembra non voler morire per non incomodare le dame Pintor: egli si aggrappava alla vita solo perché aveva paura di deporre il suo peso in casa delle sue padrone (rr. 135-136).

 >> pagina 650

L’atteggiamento di Efix, il suo desiderio di mortificazione, non si spiega però soltanto sul piano sociale. Sembra infatti che ci sia in lui una volontà di soffrire che va ben oltre il suo ruolo di subalternità nei confronti delle “padrone”. La verità è che l’uomo intende espiare una colpa che non ha mai confessato, cioè l’uccisione, seppure preterintenzionale, del suo antico “padrone” don Zame. È un fatto avvenuto molti anni prima, e che è stato all’origine della successiva vita di penitenza del povero Efix. L’uomo è stato sempre docile al suo destino, che sente fatalisticamente come fisso e immutabile, proprio come una canna al vento (rr. 12-13).

È come se la colpa di tanti anni prima – un conto non aggiustato, che bisognava aggiustare (r. 173) – lo trattenesse in vita, nella casa delle “padrone”. Per questo a un certo punto chiede del sacerdote. La scena della confessione non viene rappresentata né descritta, ma, dopo un’ellissi, apprendiamo che il sacramento è stato amministrato (Dopo la confessione non parlò più, non si lamentò più, r. 181). Ora che si è tolto quel peso dalla coscienza, l’anziano servo può finalmente morire in pace, non prima però di aver riepilogato in una frase sentenziosa la morale religiosa a cui ha improntato tutta la propria esistenza. Guardando il Crocifisso del rosario di madreperla dono di nozze di don Predu a Noemi, dice alla donna: Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere… (r. 296). È quello che lui ha fatto per tutta la vita. La sua morte avviene proprio nel giorno del matrimonio, quasi fosse un’offerta sacrificale (il sacrificio di sé) utile a riparare un antico torto e a permettere una nuova fase di felicità alla famiglia Pintor.

Le scelte stilistiche

Finito il lungo girovagare di Efix, l’ultima parte della sua vita si svolge nell’immobilità del giaciglio che si è scelto per morire, all’interno di casa Pintor. Tuttavia, allo spazio chiuso della cucina che lo ospita e che non viene neppure ripulita (come era consuetudine fare in occasione di una festa nuziale) per non disturbare il servo moribondo, si contrappone, nei sogni di Efix, lo spazio aperto della natura. Già prima del suo ritorno alla casa delle “padrone” il paesaggio veniva rappresentato in maniera liricizzante e visionaria: Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava a blocchi, a cataste sull’orizzonte; operai invisibili lo lavoravano, costruivano case, edifizi, intere città, e subito dopo le distruggevano e rovine e rovine biancheggiavano allora nel crepuscolo, coperte di erbe dorate, di cespugli rosei; passavano torme di cavalli grigi e neri, un punto giallo brillava dietro un castello smantellato e pareva il fuoco di un eremita o di un bandito rifugiatosi lassù: era la luna che spuntava (rr. 21-27). Del resto, come è stato scritto, Efix «vive in fantastica dimestichezza con i folletti, i giganti della montagna, i santi del cielo, i morti, vivi e veri per lui come le persone del presente» (Orsola Nemi).

La stessa modalità di raffigurazione della natura in una chiave animata e antropomorfizzata segna poi la fantasticheria del delirio di Efix morente: Le canne frusciavano, piegandosi fino a lui per toccarlo, per lambirlo con le foglie che avevano qualche cosa di vivo, come dita, come lingue. E gli parlavano, e una gli pungeva l’orecchio perché sentisse meglio (rr. 196-198). È, questa, una costante della narrativa di Grazia Deledda, che coglie negli elementi naturali, tutti percorsi da fremiti e presentimenti, la suggestiva presenza di entità misteriose: segno del superamento di una rappresentazione puramente veristica dell’ambiente, nella direzione invece di aperture decisamente simbolistiche e decadenti. Per questo si è parlato, a proposito dell’opera deleddiana, di un “naturalismo spirituale”, in cui predomina, sugli elementi oggettivi, il senso dell’occulto e dell’arcano.

 >> pagina 650

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Riassumi il contenuto del brano in circa 10 righe.


2 Mentre Efix è prossimo a morire, in casa Pintor si preparano le nozze di donna Noemi con don Predu. Come vive il servo questa novità? Quali sono i suoi sentimenti? Rispondi facendo riferimento al testo.


3 Perché donna Ester, trovando Efix morto, si dispera? Che cosa rimprovera a sé stessa?

Analizzare

4 Individua alcune delle similitudini utilizzate dalla narratrice. In quale orizzonte sociale sembrano inserirsi? Come spieghi questa scelta?

Interpretare

5 Dice a un certo punto Noemi a Efix: Su bevi; che vuoi morire scapolo? (r. 86). Quale concezione sociale emerge da questa battuta?


6 È con Ester che don Predu parla per fissare le nozze con Noemi, pur essendo quest’ultima presente. Perché secondo te?


7 Ester, parlando a Efix morto, gli racconta come Noemi piangeva entrando nella sua ricca dimora. E aggiunge: piangeva tanto era felice, sintende (r. 357). Ne siamo proprio sicuri? Come potremmo spiegare altrimenti il pianto della donna?

scrivere per…

confrontare

8 Il senso di una misteriosa animazione della natura, simile a quello che troviamo in questo brano di Grazia Deledda, è presente anche in molte poesie di Giovanni Pascoli. Facendo riferimento ai testi pascoliani letti, conduci un confronto tra i due autori su tale specifico tema in circa 20 righe.

Educazione CIVICA – Spunti di realtà

OBIETTIVO
8 LAVORO DIGNITOSO E CRESCITA ECONOMICA


Come tutti i personaggi della produzione deleddiana, anche Efix non concepisce l’idea di un’emancipazione, di un riscatto personale, di un’alternativa praticabile al proprio status. La condizione di subalternità che la vita e la società gli hanno imposto è per lui un destino da accettare senza empiti di ribellione ma con dignitoso fatalismo. Certo, si tratta di una prospettiva da inquadrare entro le coordinate storico-culturali della Sardegna d’inizio Novecento: una prospettiva destinata a entrare in crisi con l’avvento della società industriale, ma già messa in discussione dalla nostra Carta costituzionale che sottolinea la necessità che ogni individuo possa, migliorando il proprio stato, concorrere al progresso, anche materiale, della società.


• In che cosa consiste concretamente, a tuo giudizio, il progresso oggi? Come tale obiettivo può coniugarsi con l’idea di una cittadinanza sostenibile? In che modo il lavoro può costituire uno strumento essenziale per migliorare l’esistenza personale e collettiva? Ragiona su questi temi in un testo argomentativo.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento