Un’influenza silenziosa
Come riconobbe Eugenio Montale, nessun poeta italiano del Novecento avrebbe potuto permettersi di definirsi tale senza essersi confrontato con il modello scomodo e ingombrante di Gabriele d’Annunzio: senza averlo «attraversato», egli disse. Specie per gli autori dei primi decenni del secolo scorso, tale apprendistato fu, per così dire, naturale: prima che la fortuna del poeta di Alcyone venisse offuscata dal giudizio ideologico sulla sua figura più che sulla sua opera (aspetti che, del resto, come abbiamo visto, sono intimamente intrecciati tra loro), d’Annunzio era stato il letterato italiano più influente, un modello di stile e di linguaggio con il quale fare necessariamente i conti. I componimenti di poeti come Salvatore Quasimodo, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni e tanti altri rivelano, specie all’altezza delle prime raccolte, dove più intensa è l’influenza di una cultura scolastica non ancora del tutto sedimentata, continui rimandi ai versi dannunziani, che riecheggiano in precise soluzioni formali, nelle opzioni metriche, in espressioni e immagini che hanno talvolta la natura di vere e proprie citazioni.