Canti di Castelvecchio

Canti di Castelvecchio

Dedicata alla madre e pubblicata per la prima volta nel 1903 (in edizione definitiva nell’anno della morte dell’autore, 1912), la raccolta comprende 69 componimenti suddivisi in due sezioni, oltre che un’appendice (Diario autunnale). La scelta del titolo rinvia, secondo alcuni critici, a Leopardi (che aveva intitolato la sua raccolta di liriche Canti), di cui si recuperano i motivi della memoria e del rapporto uomo-natura come fonte di riflessione esistenziale.

L’epigrafe virgiliana (Arbusta iuvant humilesque myricae, “Piacciono gli arbusti e le umili tamerici”), identica a quella di Myricae, rimanda a quella prima raccolta, con cui i Canti di Castelvecchio intrattengono un esplicito rapporto di continuità, sebbene ora le misure metriche siano spesso più ampie (qui Pascoli utilizza con maggiore frequenza l’endecasillabo) e il plurilinguismo pascoliano si arricchisca ulteriormente di aulicismi, tecnicismi e voci di ascendenza dialettale.

Da un punto di vista strutturale, i Canti sono ordinati secondo l’alternarsi delle stagioni. Ma il motivo naturalistico è per lo più esteriore, visto che il tema dominante è soprattutto autobiografico, con il continuo riaffiorare del ricordo dell’uccisione del padre (in particolare nelle liriche della sezione intitolata Ritorno a San Mauro). La dolente rievocazione del passato è accompagnata costantemente dallo sguardo malinconico che il poeta posa sull’ambiente e sul mondo esterno, segnato sempre dal mistero e dal cupo incombere della violenza e del male.

T18

Nebbia

Canti di Castelvecchio

È un’invocazione alla nebbia, vista come elemento protettivo, capace di isolare il poeta dal dolore del suo passato personale e dalle tensioni del mondo circostante.


Metro Sestine di 4 novenari, intervallati dopo i primi 3 da un trisillabo, e chiuse da un senario.

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e  scialba,

tu fumo che ancora rampolli,

su l’alba,

5      da lampi notturni e da crolli

d’aeree frane!


Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch’è morto!

Ch’io veda soltanto la siepe

10    dell’orto,

la mura ch’ha piene le crepe

di valeriane.


Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

15    Ch’io veda i due peschi, i due meli,

soltanto

che danno i soavi lor mieli

pel nero mio pane.


Nascondi le cose lontane

20    che vogliono ch’ami e che vada!

Ch’io veda là solo quel bianco

di strada,

che un giorno ho da fare tra stanco

don don di campane ...


25    Nascondi le cose lontane

nascondile, involale al volo

del cuore! Ch’io veda il cipresso

là, solo,

qui, solo quest’orto, cui presso

30    sonnecchia il mio cane.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Nascondi le cose lontane: il primo verso della lirica torna come una sorta di refrain, di ritornello all’inizio di ogni strofa. In esso l’aggettivo “lontano” ha una duplice declinazione semantica: il poeta invita la nebbia a nascondere le cose lontane nel tempo (alla prima e alla seconda strofa) e nello spazio (alla terza e alla quarta). Pascoli spera infatti che essa celi ai suoi occhi e alla sua mente il passato della fanciullezza (con gli eventi che – possiamo immaginare – gli ricordano la felicità distrutta dall’uccisione del padre: quello ch’è morto, v. 9), ma anche il mondo presente, con i richiami delle passioni e gli appelli all’azione (che vogliono ch’ami e che vada, v. 20). Egli invece vuole vedere soltanto le piccole cose che sono fisicamente attorno a sé: la siepe dell’orto e il muro di cinta della casa, gli alberi da frutto, la strada che conduce al camposanto (quel bianco di strada, vv. 21-22), simbolo della morte come il cipresso solitario (vv. 27-28), significativamente l’ultimo degli oggetti elencati.

Il desiderio di oblio si appaga dunque nel vagheggiamento di un mondo ristretto, conosciuto, rassicurante, vale a dire quel «nido» familiare che è l’unico luogo ritenuto sicuro e che equivale a un tempo sospeso, protetto sia dai dolorosi ricordi di ciò che è stato sia dagli angosciosi presagi di ciò che sarà. Definitivo coronamento di quella pace familiare a cui il poeta anela sarà la morte, attraverso la quale egli potrà ricongiungersi idealmente ai propri cari defunti e soprattutto essere liberato dalle memorie del passato e dalle ansietà del presente e del futuro.

 >> pagina 500

Nella poesia pascoliana la nebbia è spesso presente. All’inizio (all’altezza cronologica di Myricae) essa viene introdotta in una chiave impressionistica, come semplice elemento naturalistico che contribuisce alla definizione, quasi bozzettistica, di un paesaggio (cfr. per esempio Arano T6, p. 459). Più avanti (nei Canti di Castelvecchio), invece, essa crea un’atmosfera irreale, percorsa da sinistre apparizioni, e offre un’immagine non pacificata della natura quale entità inquieta e allusiva. La nebbia assurge così a un equivalente metaforico della vita.

A proposito della nebbia (come, del resto, a proposito di altre presenze tipiche della poesia pascoliana, quali gli uccelli o le campane) si assiste, insomma, a un passaggio «dal naturalistico al simbolico» (Nava), che arricchisce i testi di più complesse valenze. Infatti nei Canti di Castelvecchio, la raccolta da cui è tratta questa lirica, la natura non è mai descritta in termini neutri e oggettivi, bensì è piegata a esprimere l’universo interiore del poeta, di cui diventa il corrispettivo analogico.

Nella biblioteca pascoliana di Castelvecchio figura un esemplare della Bhagavadgītā (in sanscrito “Il canto del Beato”) tradotto e commentato dal glottologo e indianista Michele Kerbaker (1835-1914), con il quale Pascoli fu peraltro in rapporto epistolare. Si tratta di un poema filosofico-religioso indiano (intercalato nel Mahābhārata) che rappresenta il testo sacro più diffuso fra milioni di indiani che venerano in esso la parola divina di Vis.n.u. La parola suadente e illuminatrice del dio si fonda sull’inesistenza di ogni forma sensibile, sull’idea del dovere e sulla fede.

Nell’introduzione all’edizione di quel testo posseduta da Pascoli, Kerbaker accostava la metafisica brahmanica sia all’evoluzionismo di Darwin sia alla “filosofia negativa” di Schopenhauer e Leopardi. Esponendo i princìpi del brahmanesimo, scrive Kerbaker: «Saggio e beato quell’uomo, che pure in questa vita, sgombro l’animo da ogni inqueta passione, rinunciando ad ogni desiderio e speranza, si acqueta nel pensiero della sua emancipazione finale!». E più avanti: «Dalla conoscenza che ha l’uomo della vera natura dell’Essere e del fine dell’universo, è eccitato a svincolarsi dai legami dell’esistenza transitoria, ed a dimenticare tutte le cure e gli affetti che l’accompagnano. Di qui nasce la virtù dell’astensione od abnegazione di se stesso». Non possiamo escludere – anzi sembra probabile –che Pascoli, nel comporre una poesia come Nebbia, potesse avere presenti questi riferimenti filosofico-religiosi di provenienza orientale.

Le scelte stilistiche

Il testo è articolato su pochi versi, nei quali ricorrono insistentemente alcune parole-chiave. Lontane (alla fine del primo verso di ogni strofa) è una di esse, come anche il verbo “nascondere” (all’inizio del primo verso di ogni strofa, poi ripetuto al v. 8, nascondimi, e al v. 26, nascondile), al quale si contrappone il verbo “vedere” (ch’io veda, ai vv. 9, 15, 21 e 27). Il poeta chiede infatti alla nebbia di operare – ai fini della percezione che egli ha della realtà – una severa selezione di oggetti e di presenze, nascondendone alcune (quelle lontane) e facendogliene vedere altre (quelle vicine). Spia lessicale di tale rigorosa cernita sono gli avverbi soltanto (vv. 9 e 16) e solo (vv. 21 e 29, mentre al v. 28 lo stesso vocabolo sembra essere aggettivo). Distanziatosi dalle cose più impegnative e dolorose (pensieri, ricordi, ambizioni, aspirazioni) il poeta rimane così solo con sé stesso, crogiolandosi in una compiaciuta voluttà di regressione al rassicurante «nido» costituito dalle presenze più care, dagli alberi del frutteto al fedele cane sonnacchioso.

 >> pagina 501

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Qual è nel testo l’interlocutore del poeta?


2 Quale desiderio viene espresso da Pascoli?


3 Quando il poeta si troverà a percorrere la strada bianca al suono ritmato delle campane (vv. 21-24)?

ANALIZZARE

4 Individua lo schema delle rime.


5 Come possiamo descrivere la sintassi di questa poesia? Ti sembra che essa intervenga a interrompere il ritmo dei versi oppure che sia accordata ad esso? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti testuali e prova a ipotizzare una spiegazione di tale scelta da parte dell’autore.


6 Individua nel componimento tutti i riferimenti (anche di tipo simbolico) al motivo della morte.


7 Fumo (v. 3) per indicare la nebbia è

  • a un ossimoro.
  • b una sineddoche.
  • c una metafora.
  • d una similitudine.

INTERPRETARE

8 Qui la nebbia è vista da Pascoli come una presenza amica o nemica? perché?


9 A tuo parere, che cosa rappresenta il placido sonnecchiare del cane (v. 30)?

scrivere per...

confrontare

10 Il v. 9 di questo componimento di Pascoli (Ch’io veda soltanto la siepe) non può non richiamare alla memoria del lettore la siepe dell’Infinito di Leopardi, anche per l’analoga disposizione interiore del poeta, propenso a rifiutare di estendere il proprio sguardo troppo lontano. Tuttavia tra le situazioni descritte dai due autori e tra i loro stati d’animo ci sono anche alcune differenze notevoli. Raffronta le due poesie in un testo di circa 30 righe.

T19

La mia sera

Canti di Castelvecchio

Composta nel 1900 e pubblicata lo stesso anno sulla rivista “Il Marzocco”, La mia sera è la descrizione della fine di una giornata di pioggia, quando ogni cosa sembra risvegliarsi a nuova vita. E come la sera è attraversata da dolci suoni e voli di rondini, così anche la vecchiaia del poeta sembra consolata dai voli della fantasia e del ricordo, che acuiscono in lui il desiderio di addormentarsi come quando era bambino, di sentire la presenza della madre chinata a dargli il bacio della buonanotte e poi di immergersi nel sonno.


Metro Cinque strofe composte da 7 novenari e 1 senario, che si chiude sempre con la parola sera. Le rime sono alternate secondo lo schema ABABCDCd.

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c’è un breve gre gre di ranelle.

5      Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

Che pace, la sera!


Si devono aprire le stelle

10    nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell’aspra bufera,

15    non resta che un dolce singulto

nell’umida sera.


È, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

20    cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

nell’ultima sera.


25    Che voli di rondini intorno!

che gridi nell’aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

30    nel giorno non l’ebbero intera.

Né io… e che voli, che gridi,

mia limpida sera!


Don… Don… E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi!  sussurrano,

35    Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra…

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch’io torni com’era…

sentivo mia madre… poi nulla…

40    sul far della sera.

 >> pagina 503

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Dopo un giorno di tempesta, con la sera sopraggiunge la quiete e una gioia tranquilla e leggiera (v. 6) pare contagiare la natura. Nella calma ritrovata, il poeta rivive le vicende dolorose del proprio passato, ora decantate in una serenità nuova, finalmente assaporata al tramonto di una vita segnata da tanti dolori.

Tutta la lirica è strutturata su questo confronto – l’infuriare degli elementi durante il giorno e il placarsi della tempesta nella pace della sera – che sottintende a sua volta il confronto riguardante l’esistenza del poeta, tra la giovinezza inquieta e la vecchiaia finalmente serena. Così il componimento sviluppa, al di là dell’apparenza di bozzetto idillico, un’intensa meditazione autobiografica. Non a caso, la sera è per il poeta un possesso esclusivo: quella cantata da Pascoli è la “sua” sera, vale a dire la “sua” vita che, nell’estremo ritorno all’innocenza infantile, gli permette di abbandonarsi al sonno, alla quiete e all’oblio del dolore e del male.

Al tempo stesso, il costante sottofondo del suono delle campane (Don… Don…, v. 33), quasi assorbito nella dimensione naturale della campagna, e l’anafora del Dormi (come una nenia, un’eco cullante della voce delle campane) preparano prima il ricongiungimento del poeta con la madre e con l’infanzia, poi lo sprofondamento nel sonno, quasi a dire nel nulla, nell’abisso riservato al destino umano.

Le scelte stilistiche

Nel gioco di rimandi tra immagini concrete e significati simbolici, La mia sera offre un esempio tra i più efficaci dell’espressività poetica pascoliana. Lo stacco tra passato e presente è suggerito subito nel primo verso, dove il verbo al passato remoto (fu) e il punto e virgola segnano una cesura netta con i versi successivi: all’agitazione della tempesta subentra l’inerzia pacata della sera, sulla quale pare coricarsi la luce delle stelle (vocabolo che Pascoli ripete due volte – le stelle, le tacite stelle, vv. 2-3 –, come a indugiare sul loro atteso sopraggiungere).

La gioia, appena accennata, per la pace serale è indotta dal gracidio delle rane (poi chiamate allegre ranelle, v. 11), dal tessuto di suoni reso armonico grazie al ricorrere della e e della r (tremule, trascorre, leggiera, vv. 5-6, fino alla parola chiave sera), dalla lieve brezza che fa tremare le foglie, dall’analogia sottintesa tra le stelle nel cielo, che Si devono aprire (v. 9), e le corolle dei fiori su un prato.

Come l’uomo, abituato al pianto per le sofferenze patite, anche la natura non dimentica il proprio turbamento e, ora che la tempesta è passata, il suo dolce singulto (v. 15) rivela ancora una sottile inquietudine; d’altro canto, la sera (vale a dire, metaforicamente, la vecchiaia) suggerisce al poeta di guardare con maggiore distacco ai dolori vissuti: La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera (vv. 22-24). Ma questo non è l’unico richiamo autobiografico che è possibile cogliere sotto la superficie della descrizione naturalistica di un momento del giorno. Anzi, si può dire che in questa seconda parte del componimento l’esperienza personale si mostra chiaramente.

Alla fine della terza strofa Pascoli esprime la propria stanchezza, cercando nella sera il riposo che le sofferenze della vita gli hanno precluso (O stanco dolore, riposa!, v. 21). Poi, nella penultima strofa, assistiamo a un altro parallelismo: la vita del poeta viene infatti assimilata alla giornata, priva di cibo, vissuta dalle piccole rondini, alle quali si allude per metonimia (i nidi, v. 29). Anche il poeta, come loro, non ha avuto nel corso degli anni la porzione di felicità che gli spettava: il reticente Né io… (v. 31) sintetizza la sua autoesclusione dalla vita e la solitudine patita dopo la violazione del «nido»-casa dell’infanzia, privato per sempre del cibo dell’amore.

 >> pagina 504

L’ultima strofa è infine caratterizzata, ma sarebbe meglio dire dominata, dall’evocazione fonosimbolica: l’onomatopea del suono delle campane e l’insistita allitterazione (con la ricorrenza della d, accentuata dall’invito Dormi!) creano un’atmosfera di sonnolenza che fa scivolare il soggetto lirico verso l’infanzia e, al tempo stesso, verso il nulla (il sonno, la morte). Il tono di voce delle campane si fa sempre più basso; l’anticlimax dei verbi dicono, cantano, sussurrano, bisbigliano sembra suggerire proprio questa lenta, silenziosa e progressiva discesa verso l’incoscienza.

L’esperienza di questa immersione è complicata dall’uso simultaneo di una sinestesia (le voci di tenebra azzurra, v. 36) e di un ossimoro (l’oscurità è paradossalmente azzurra, come accade al buio del cielo notturno quando sfuma in un imprevedibile chiarore): le voci risucchiano indietro verso il nulla, che è insieme la culla della nascita e il vuoto della fine. Il suono delle campane, innocente ricordo dell’infanzia, diventa allo stesso tempo un sinistro suono di morte.

L’aspetto metrico ribadisce la grande originalità della poesia di Pascoli, il quale, pur mantenendosi all’interno di schemi consolidati, scompone e reinterpreta con grande libertà le forme chiuse della tradizione. Qui fa uso di novenari e di senari: si tratta già di una scelta per molti versi innovativa, dal momento che di solito si privilegiano l’endecasillabo e il settenario. Ma l’aspetto più importante è legato alla modalità, assolutamente personale, con cui il poeta utilizza questi metri. Il novenario, per esempio, presenta un’accentazione alquanto variata, che ritmicamente produce scansioni diverse: alcuni versi si aprono con l’accento tonico sulla prima sillaba (Là, presso le allegre ranelle, v. 11), altri sulla seconda (singhiozza monotono un rivo, v. 12). Inoltre la presenza delle cesure determina la frattura del verso: il v. 3, le tacite stelle. Nei campi, più che un novenario, è la somma di un senario (le tacite stelle) e un trisillabo (Nei campi).

Una disgregazione delle forme canoniche ancora più evidente è operata poi dalle esclamazioni: il v. 7, Nel giorno, che lampi! che scoppi!, per esempio, è interrotto da pause continue, per cui il metro non si concilia più con la sintassi (in questo caso, nominale). La stessa cosa può dirsi per l’ultima strofa, dove l’unità metrica è ostacolata da molteplici fratture, determinate ancora da esclamativi, ma anche da virgole e puntini di sospensione. Infine vanno segnalati i due versi sdruccioli (vv. 19 e 34): la loro sillaba finale (re-sta-no; sus-sur-ra-no) viene conteggiata come parte del verso seguente, che così da ottonario diventa anch’esso novenario.

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Dai un titolo a ogni strofa della poesia.

ANALIZZARE

2 Individua nel componimento i termini e le espressioni afferenti al capo semantico del suono, distinguendo quelli connotati positivamente e quelli connotati negativamente: che cosa puoi osservare?


3 Quale funzione hanno le onomatopee presenti nel testo?


4 Quali elementi concorrono alla messa in evidenza della vitalità di ciascun elemento naturale?


5 Individua nel testo almeno un esempio delle seguenti figure retoriche

  • a allitterazione.
  • b ossimoro.
  • c sinestesia.
  • d metonimia.

INTERPRETARE

6 In che modo e perché, a tuo parere, le campane sono umanizzate?


7 La mia sera è uno dei componimenti in cui Pascoli più chiaramente mette in pratica gli enunciati teo­rici del Fanciullino. Motiva questa affermazione facendo opportuni riferimenti al testo.

scrivere per...

confrontare

8 Il tema della sera è un topos: su un motivo analogo si è soffermato Ugo Foscolo nel sonetto Alla sera. In un testo espositivo di circa 30 righe evidenzia analogie e differenze con La mia sera di Pascoli, prendendo in considerazione gli aspetti metrici, contenutistici e stilistici.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento