Poemetti

Poemetti

Pubblicati in prima edizione nel 1897, con l’aggiunta successiva di nuovi componimenti, i Poemetti saranno suddivisi dall’autore in Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909).
Rispetto a Myricae, in questa raccolta domina un’intenzione più narrativa, evidenziata dall’adozione di strutture metriche più ampie, come la terzina dantesca, coerenti con lo scopo di innalzare toni e contenuti: non a caso il poeta colloca in epigrafe l’emistichio virgiliano Paulo maiora (“Cose un po’ più grandi”, cioè temi un po’ più alti). La maggiore altezza annunciata si accompagna alla celebrazione della natura, vista come un salvifico contraltare alla realtà brutale e artificiosa della civiltà industriale. In quest’ottica vanno dunque comprese l’esaltazione della piccola proprietà rurale e la mitizzazione della siepe come protezione, reale e metaforica, di un mondo-«nido» ancorato all’immutabile semplicità di azioni, riti e pratiche quotidiane, correlati ai cicli delle stagioni.
Sul piano espressivo, a tale trasfigurazione della vita semplice e umile corrisponde una ricerca lessicale puntigliosa, che mira a una pertinenza assoluta, ossia all’individuazione degli oggetti attraverso parole “vergini”, autentiche, nuove. Con una sperimentazione linguistica ardita, che attinge a disparati registri formali e ricorre a prestiti e contaminazioni, il poeta raggiunge soluzioni molto innovative, come l’innesto nel componimento Italy di termini dialettali (in particolare della Garfagnana) e di vocaboli di una “lingua speciale”, l’inglese italianizzato parlato dagli italiani emigrati in America.

T16

L’aquilone

Primi poemetti

In questa poesia, pubblicata per la prima volta in rivista nel 1900 e poi compresa nella raccolta Primi poemetti (1904), l’autore ricorda un episodio vissuto quando era fanciullo presso il collegio degli Scolopi a Urbino, dove studiò dal 1862 al 1871. Al ricordo si mescola però una nota funebre: uno dei compagni di allora, infatti, non c’è più. Come testimoniano diversi documenti epistolari, Pascoli considerò sempre L’aquilone la più cara fra le sue poesie.


METRO Terzine dantesche di endecasillabi a rima incatenata: ABA BCB CDC ecc.

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,

anzi d’antico: io vivo altrove, e sento

3      che sono intorno nate le viole.


Son nate nella selva del convento

dei cappuccini, tra le morte foglie

6      che al ceppo delle quercie agita il vento.

Si respira una dolce aria che scioglie

le dure zolle, e visita le chiese

9      di campagna, ch’erbose hanno le soglie:


un’aria d’altro luogo e d’altro mese

e d’altra vita: un’aria celestina

12    che regga molte bianche ali sospese…


sì, gli aquiloni! È questa una mattina

che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera

15    tra le siepi di rovo e d’albaspina.


Le siepi erano brulle, irte; ma c’era

d’autunno ancora qualche mazzo rosso

18    di bacche, e qualche fior di primavera


bianco; e sui rami nudi il pettirosso

saltava, e la lucertola il capino

21    mostrava tra le foglie aspre del fosso.


Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza

24    la sua cometa per il ciel turchino.


Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,

risale, prende il vento; ecco pian piano

27    tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.


S’inalza; e ruba il filo dalla mano,

come un fiore che fugga su lo stelo

30    esile, e vada a rifiorir lontano.


S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo

petto del bimbo e l’avida pupilla

33    e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.


Più su, più su: già come un punto brilla

lassù lassù… Ma ecco una ventata

36    di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?

Sono le voci della  camerata

mia: le conosco tutte all’improvviso,

39    una dolce, una acuta, una velata…


A uno a uno tutti vi ravviso,

o miei compagni! e te, sì, che abbandoni

42    su l’omero il pallor muto del viso.


Sì: dissi sopra te l’orazïoni,

e piansi: eppur, felice te che al vento

45    non vedesti cader che gli aquiloni!


Tu eri tutto bianco, io mi rammento.

solo avevi del rosso nei ginocchi,

48    per quel nostro pregar sul pavimento.


Oh! te felice che chiudesti gli occhi

persuaso, stringendoti sul cuore

51    il più caro dei tuoi cari balocchi!


Oh! dolcemente, so ben io, si muore

la sua stringendo fanciullezza al petto,

54    come i candidi suoi pètali un fiore


ancora in boccia! O morto giovinetto,

anch’io presto verrò sotto le zolle

57    là dove dormi placido e soletto…


Meglio venirci ansante, roseo, molle

di sudor, come dopo una gioconda

60    corsa di gara per salire un colle!


Meglio venirci con la testa bionda,

che poi che fredda giacque sul guanciale,

63    ti pettinò co’ bei capelli a onda


tua madre… adagio, per non farti male.

 >> pagina 485

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Pascoli scrisse questa poesia nel 1899, quando si trovava a Messina. Il senso del cambio di stagione, dall’inverno alla primavera, lo riporta altrove (v. 2), un altrove sia spaziale sia temporale. Il poeta infatti ricorda Urbino, dove fanciullo, terminata la prima elementare, era stato mandato a studiare presso il collegio Raffaello. Per questo ciò che di nuovo (v. 1) egli ora percepisce nel sole (cioè nell’aria, nel clima, nell’atmosfera) è piuttosto qualcosa di antico (v. 2): la situazione, infatti, lo riporta al passato, a un altro luogo, a un altro mese, a un’altra vita (vv. 10-11).

Non si tratta però di un passato generico, bensì di un ricordo preciso, che era rimasto sepolto nella mente del poeta e che oggi è pronto a riaffiorare alla memoria. Pascoli rievoca una giornata specifica (È questa una mattina / che non c’è scuola, vv. 13-14), quando, vista la bella stagione, gli insegnanti avevano deciso di condurre gli studenti in un’escursione all’aperto, affinché essi potessero far volare i loro aquiloni. Questi ultimi si innalzano nel cielo azzurro, divertendo ed eccitando i ragazzi, quando una ventata / di sbieco e uno strillo alto (vv. 35-36) interrompono la rievocazione. Possiamo immaginare – ma Pascoli non ce lo dice, perché si ferma prima – che il vento abbia fatto precipitare all’improvviso gli aquiloni o, meglio, un aquilone.

Subito dopo assistiamo infatti a un improvviso cambio di scena. Dagli spazi aperti si passa a uno spazio chiuso, quello della camerata del collegio, in cui il poeta rivede, riconoscendoli uno a uno, i compagni di allora. Lo sguardo si posa in particolare su un ragazzo pallido e silenzioso, con la testa mollemente piegata su una spalla: ragazzo malato, che dopo poco muore. La terribile circostanza viene però rievocata in maniera indiretta, attraverso una sorta di reticenza: dissi sopra te l’orazïoni (v. 43). Eppure, ora che il poeta è un uomo maturo (quando scrive questa poesia ha quarantaquattro anni) e ha quindi avuto esperienza della vita, è portato a ritenere che la sorte toccata al suo antico compagno di collegio sia stata tutt’altro che negativa.

Felice te che al vento / non vedesti cader che gli aquiloni (vv. 44-45): l’adolescente morto ha visto cadere soltanto gli aquiloni, non anche i sogni della giovinezza, come è capitato invece a chi è progredito nel cammino dell’esistenza. È il motivo leopardiano delle illusioni, destinate a infrangersi con il raggiungimento dell’età adulta (si ricordi, per esempio, A Silvia), ma in questo caso il motivo della morte non assume alcun carattere tragico. Al contrario, il momento del trapasso è rappresentato come un momento sereno, privo di dolore, una sorta di privilegio che risparmia dalla parte più amara della vita e ricongiunge con il nido materno: la rievocazione della madre che pettina dolcemente i capelli del figlio defunto, come se fosse ancora vivo, è un’immagine di grande delicatezza che simboleggia la felice regressione dell’io all’infanzia e al contatto con un corpo che riscalda e protegge.

Le scelte stilistiche

L’efficacia rappresentativa di questa poesia pascoliana si gioca tutta su un abile intersecarsi di immagini che richiamano alternativamente la vita e la morte. Potremmo suddividere idealmente il testo in tre parti: il sentore del rinnovarsi della vita in una natura non più autunnale ma già primaverile (vv. 1-12); la rievocazione del volo degli aquiloni ai tempi del collegio a Urbino (vv. 13-36); il ricordo del compagno malato e della sua morte, con la conseguente riflessione sulla fortuna di morire giovani rispetto alla condizione di affanno di chi conosce maturità e vecchiaia (vv. 37-64).

Tuttavia, già nelle prime due parti non mancano velati riferimenti al motivo funebre. Al v. 5 le foglie sono morte e più avanti, al v. 21, aspre, cioè secche: immagini, dunque, opposte a quelle di vita. La similitudine, ai vv. 29-30, per cui l’aquilone è paragonato a un fiore che fugga su lo stelo / esile, e vada a rifiorir lontano viene ripresa nel periodo ai vv. 52-55 a proposito del compagno morto: Oh! dolcemente, so ben io, si muore / la sua stringendo fanciullezza al petto, / come i candidi suoi pètali un fiore / ancora in boccia! In tal modo essa svela da subito il proprio valore simbolico basato su un intreccio di fragilità, morte e rinascita (le stesse viole sono nate al riparo costituito dalle foglie secche: Son nate [...] / tra le morte foglie, vv. 4-5).

Al v. 27 l’effetto onomatopeico dell’espressione un lungo dei fanciulli urlo – «tre parole con l’accento sulla u, a rendere il vario e prolungato grido dei fanciulli» (Pietrobono) – introduce una nota di allarme, come la ventata / di sbieco ai vv. 35-36 inserisce un elemento di violenza che interrompe la spensieratezza dei giochi infantili. Il bianco degli aquiloni (molte bianche ali sospese, v. 12) e dei fiori primaverili (qualche fior di primavera / bianco, vv. 18-19, dove la nota cromatica viene evidenziata dal chiasmo) non fa che anticipare il pallore della malattia e poi della morte del compagno prematuramente scomparso (il pallor muto del viso, v. 42; Tu eri tutto bianco, v. 46). Allo stesso modo il contrasto cromatico rosso/bianco delle siepi (qualche mazzo rosso / di bacche, vv. 17-18, seguito dal già citato bianco dei fiori primaverili) prelude, in chiasmo, all’opposizione bianco/rosso nel corpo del fanciullo malato (Tu eri tutto bianco [...] / solo avevi del rosso nei ginocchi, vv. 46-47), rappresentato in una maniera che sembra rimandare alla tradizionale iconografia del Cristo crocifisso. Alla fine si capisce così come l’improvviso precipitare dell’aquilone a cui alludono i vv. 35-36 annunci, per analogia, la morte del povero giovane.

 >> pagina 486

Il componimento presenta un continuo andirivieni tra presente e passato, un movimento incessante sottolineato dall’oscillazione dei tempi verbali. Se fino al v. 15 sembra prevalere il presente, al v. 16 (c’era) si assiste a un cambiamento improvviso, confermato dalle forme verbali successive (saltava, v. 20; mostrava, v. 22). Al v. 21 (Or siamo fermi) si torna di nuovo al presente per poi riandare, al v. 43 (dissi), ancora al passato e così via. In tal modo l’autore riesce a rendere molto efficacemente il sovrapporsi nella coscienza del soggetto dei diversi piani temporali e la loro compresenza.

In ciò si manifesta la modernità pascoliana, che sembra perfettamente accordata alle più recenti teorie filosofico-scientifiche, dalla psicanalisi del medico austriaco Sigmund Freud all’Intuizionismo del filosofo francese Henry Bergson. Notiamo en passant che quest’ultimo pubblicava proprio nel 1899 (lo stesso anno in cui Pascoli scrisse questa poesia) il Saggio sui dati immediati della coscienza, nel quale, distaccandosi dal Positivismo, rilevò come l’idea di tempo non ammetta solo una caratterizzazione fisico-matematica: la scienza spazializza il tempo riducendolo a successione di intervalli, ma non ne coglie l’essenza, che è la durata del flusso continuo degli stati di coscienza. Un concetto che Pascoli (al di là del fatto che conoscesse o meno gli scritti di Bergson) sembra intuire e mettere in atto nella costruzione di questo suo testo.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Riassumi il contenuto della poesia in circa 5 righe.


2 Perché le ginocchia del bambino malato erano rosse?


3 Perché il fanciullo che non c’è più viene considerato felice?

ANALIZZARE

4 Individua le similitudini. A quale repertorio attingono?


5 Descrivi l’andamento sintattico prevalente: ci sono enjambement e/o iperbati?


6 Quale strategia sintattica adotta il poeta ai vv. 25-26 per riprodurre i movimenti dell’aquilone?


7 Quale figura retorica osservi invece ai vv. 31-33? Quale effetto ottiene il suo utilizzo?


8 Al v. 27 un lungo dei fanciulli urlo è

  • a un chiasmo.
  • b un iperbato.
  • c un’allegoria.
  • d una metafora.


9 Descrivi le scelte lessicali operate dal poeta nell’ambito naturalistico.

 >> pagina 487

INTERPRETARE

10 Spiega il paragone condotto da Pascoli tra il fiore e la fanciullezza.


11 Perché il poeta al v. 52 dice so ben io?


12 Da quanto puoi capire dalla lettura di questo testo, ti sembra che Pascoli credesse in un’altra vita dopo la morte? perché?

sviluppare il lessico

13 Una delle caratteristiche tipiche della poesia pascoliana è la grande attenzione ai colori e alle loro sfumature. Forniamo di seguito un elenco di termini che indicano proprio diverse tonalità: associale al colore corretto.

cinabroardesiaceruleoultramarinocenerevermiglioacquamarinapiomboscarlattocitrinoglaucoporporafumocarminiocianobandieraturcheseperla


rosso


blu


verde


grigio


SCRIVERE PER...

esporre

14 La poesia assegna un ruolo importante alle sensazioni uditive. Dopo aver individuato nel testo i riferimenti a tale ambito semantico, spiega in circa 20 righe quale ruolo hanno i suoni e i rumori nel discorso lirico pascoliano.

confrontare

15 Abbiamo accennato nella nostra analisi a un accostamento di questa poesia pascoliana a un celebre canto leopardiano quale è A Silvia. Conduci un più organico confronto tra i due testi, evidenziando analogie e differenze, in circa 40 righe.

raccontare

16 Questa lirica di Pascoli è imperniata sul ricordo di un episodio dell’infanzia e sulle emozioni a esso collegate. Rievoca un fatto della tua fanciullezza che abbia modificato la tua percezione della vita e della realtà in un testo narrativo di circa 40 righe.

T17

Italy

Primi poemetti, Canto primo, I-V

Il poemetto racconta in due canti di complessivi 450 versi la storia della piccola Maria-Molly, che dagli Stati Uniti viene portata in Italia, nel paese d’origine del padre, nella speranza che il clima mite la possa guarire dalla tubercolosi. Qui la bambina conosce un mondo diverso da quello in cui ha vissuto fino a quel momento e fa fatica ad ambientarsi. Poi, però, a poco a poco il solco che la divide dai suoi parenti si assottiglia, fino a scomparire: la bambina guarisce e, prima di partire, promette di tornare, un giorno, da quella che ora riconosce come la sua famiglia.


METRO Terzine dantesche di endecasillabi a rima incatenata (ABA BCB CDC ecc.). Ogni strofa termina con un verso isolato che rima con il penultimo della terzina precedente.

Sacro all’Italia raminga*


I

A Caprona, una sera di febbraio,

gente veniva, ed era già per l’erta,

veniva su da Cincinnati, Ohio.


La strada, con quel tempo, era deserta.

5      Pioveva, prima adagio, ora a dirotto,

tamburellando su l’ombrella aperta.


La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto

erano, sotto la cerata ombrella

del padre: una ragazza, un giovinotto.


10    E c’era anche una bimba malatella,

in collo a Beppe, e di su la sua spalla

mesceva giù le bionde lunghe anella.


Figlia d’un altro figlio, era una talla

del ceppo vecchio nata là: Maria:

15    d’ott’anni: aveva il peso d’una galla.


Ai ritornanti per la lunga via,

già vicini all’antico  focolare,

la lor chiesa sonò l’Avemaria.


Erano stanchi! avean passato il mare!

20    Appena appena tra la pioggia e il vento

l’udiron essi or sì or no sonare.


Maria cullata dall’andar su lento

sembrava quasi abbandonarsi al sonno,

sotto l’ombrella. Fradicio e contento


25    veniva piano dietro tutti il nonno.

II

Salivano, ora tutti dietro il nonno,

la scala rotta. Il vecchio Lupo in basso

non abbaiò; scodinzolò tra il sonno.


E tentennò sotto il lor piede il sasso

30    davanti l’uscio. C’era sempre stato

presso la soglia, per aiuto al passo.


E l’uscio, come sempre, era accallato.

Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.

Ed era buia la cucina allato.


35    La mamma? Forse scesa per due ciocchi…

forse in capanna a mòlgere… No, era

al focolare sopra i due ginocchi.


Avea pulito greppia e rastrelliera;

ora, accendeva… Udì sonare fioco:

40    era in ginocchio, disse la preghiera.


Appariva nel buio a poco a poco.

«Mamma, perché non v’accendete il lume?

Mamma, perché non v’accendete il fuoco?»


«Gesù! che ho fatto tardi col rosume…»

45    E negli stecchi ella soffiò, mezzo arsi;

e le sue rughe apparvero al barlume.


E raccattava, senza ancor voltarsi,

tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,

brocche, fuscelli, canapugli, sparsi


50    sul focolare. E si levò la fiamma.

III

E i figli la rividero alla fiamma

del focolare, curva, sfatta, smunta.

«Ma siete trista! siete trista, o mamma!»


Ed accostando agli occhi, essa, la punta

55    del pannelletto, con un fil di voce:

«E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?»


«Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce».

I muri grezzi apparvero col banco

vecchio e la vecchia tavola di noce.


60    Di nuovo, un moro, con non altro bianco

che gli occhi e i denti, era incollato al muro,

la lenza a spalla ed una mano al fianco:


roba di là. Tutto era vecchio, scuro.

S’udiva il soffio delle vacche, e il sito

65    della capanna empiva l’abituro.


Beppe sedé col capo indolenzito

tra le due mani. La bambina bionda

ora ammiccava qua e là col dito.


Parlava, e la sua nonna, tremebonda,

70    stava a sentire e poi dicea: «Non pare

un luì quando canta tra la fronda?»


Parlava la sua lingua d’oltremare:

«… a chicken-house» «un piccolo luì…»

«… for mice and rats» «che goda a cinguettare,


75    zi zi» «Bad country, Ioe, your Italy!»

IV

ITALY, penso, se la prese a male.

Maria, la notte (era la Candelora),

sentì dei tonfi come per le scale…


tre quattro carri rotolarono… Ora

80    vedea, la bimba, ciò che n’era scorso!

the snow! la neve, a cui splendea l’aurora.


Un gran lenzuolo ricopriva il torso

dell’Omo-morto. Nel silenzio intorno

parea che singhiozzasse il Rio dell’Orso.


85    Parea che un carro, allo sbianchir del giorno,

ridiscendesse l’erta con un lazzo

cigolìo. Non un carro, era uno storno,


uno stornello in cima del Palazzo

abbandonato, che credea che fosse

90    marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo!


Maria guardava. Due rosette rosse

aveva, aveva lagrime lontane

negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.


La nonna intanto ripetea: «Stamane

95    fa freddo!» Un bianco borracciol consunto

mettea sul desco ed affettava il pane.


Pane di casa e latte appena munto.

Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva!

nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:


100 «Poor Molly! qui non trovi il pai con fleva!»

V

Oh! no: non c’era lì né pieflavour

né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:

«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»


Oh! no: starebbe in Italy sin tanto

105 ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly!

E Ioe godrebbe questo po’ di scianto!


Mugliava il vento che scendea dai colli

bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta

fissò la fiamma con gli occhioni molli.


110 Venne, sapendo della lor venuta,

gente, e qualcosa rispondeva a tutti

Ioe, grave: «Oh yes, è fiero… vi saluta…


molti bisini, oh yes… No, tiene un frutti-

stendo… Oh yes, vende checche, candi, scrima…

115 Conta moneta: può campar coi frutti…


Il baschetto non rende come prima…

Yes, un salone, che ci ha tanti bordi…

Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima…»


Il tramontano discendea con sordi

120 brontoli. Ognuno si godeva i cari

ricordi, cari ma perché ricordi:


quando sbarcati dagli ignoti mari

scorrean le terre ignote con un grido

straniero in bocca, a guadagnar danari


125 per farsi un campo, per rifarsi un nido…

 >> pagina 492

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Il tema dell’emigrazione è qui tradotto in un vero e proprio racconto, una narrazione di cronaca familiare ispirata a un episodio reale di cui il poeta fu testimone nel 1895 a Caprona, il borgo in cui viveva: il ritorno dagli Stati Uniti di una bambina (Maria o Molly, che nella realtà si chiamava Isabella), nipote di Bartolomeo Caproni detto Zi’ Meo (il fattore di casa Pascoli), figlia di emigranti e venuta in Italia per curare la tubercolosi.

Il carattere narrativo del poemetto consente di dividere il brano in cinque sequenze ben distinte: l’arrivo dei tre emigranti (Margherita e Giuseppe di Taddeo, detti Ghita e Beppe, e Maria-Molly) accompagnati dal nonno (I); l’ingresso nella vecchia casa e l’incontro con la nonna che accende il fuoco (II); il colloquio con la nonna e la descrizione della casa, con la sua miseria e il suo squallore (III); la nevicata notturna e la scoperta, al mattino, del paesaggio innevato (IV); l’incontro di Giuseppe con alcuni compaesani che raccolgono informazioni sulla vita degli amici rimasti in America (V).
Il tema fondamentale è il rapporto tra due civiltà lontane: quella dell’immobile provincia agricola toscana e quella della moderna America, che ha sconvolto vita, costumi e lingua degli emigranti. Molly fa fatica a entrare in contatto con un ambiente molto diverso dal suo: non parla italiano, le condizioni di vita del borgo le sembrano – e in effetti sono – misere, il rapporto con la nonna è inizialmente impossibile per la differenza di età, ma soprattutto di lingua, abitudini, cultura e mentalità. Fra i due mondi, insomma, la comunicazione è assai difficile, come si capisce dall’equivoco sorto intorno ai commenti negativi di Molly (che definisce la casa una chicken-house, un pollaio, for mice and rats, adatta solo ai topi), che la nonna scambia per teneri cinguettii.
Eppure proprio da questa diversità nasce, a poco a poco, una specie di miracolo: nella seconda parte della poesia (qui non antologizzata), mentre la sua salute migliora giorno dopo giorno, la bambina scopre il telaio della nonna e comincia a trascorrere ore intere con lei, aiutandola nel lavoro. Insomma, saprà riconoscere, come in virtù di un inconscio sentimento di parentela, i luoghi, i volti e gli affetti che gli emigranti conservano nella memoria. In primavera Molly finalmente guarisce, ma la nonna si ammala: a lei, ormai morente, la bambina regala la sua bambola, pegno di amore e di riconoscenza per aver appreso dalla sua voce e dal suo esempio la bellezza degli antichi valori della società contadina.
 >> pagina 493

L’emigrazione è per Pascoli una realtà dolorosa, un evento lacerante che scardina il «nido» familiare e determina un profondo trauma interiore in quanto separa dalla comunità contadina d’origine, dalla famiglia e da una cultura secolare. Tuttavia il ritorno al «nido» (alla famiglia, ma anche alla patria) può donare agli emigranti, che hanno sofferto le pene della lontananza e dell’esilio, la salute e la serenità perdute: la malattia e la guarigione di Molly vogliono rappresentare proprio questo.

In tal senso la trama del poemetto non nasconde, attraverso una vicenda esemplare che permette di assimilarlo a un apologo edificante, la velleità dell’autore di cimentarsi con una poesia sociale dalle chiare valenze ideologiche. Quello di Molly-Maria è infatti una sorta di percorso di formazione: la bambina nata in America, dopo l’iniziale disgusto per la povertà della sua famiglia, vi riscopre i suoi stessi valori e la sua stessa identità. Non a caso, ai fanciulli che – nella chiusa del poemetto – le chiederanno se un giorno tornerà in Italia, lei risponderà «Sì», con la prima parola italiana che pronuncia dopo essersi espressa fino ad allora in inglese. Il tema del «nido» si è così dilatato, dall’originario significato autobiografico ed esistenziale, a quello sociale e politico.

Questo percorso di riappropriazione di sé avviene grazie all’incontro tra le generazioni che erano state divise dall’emigrazione: è la scoperta della saggezza della nonna a permettere alla bambina di ritrovare le proprie radici. Più avanti, nel secondo canto del poe­metto, la vecchia morirà, ma anche questo evento luttuoso riveste un preciso significato simbolico: sarà Molly, ora, a far rivivere e a trasmettere gli affetti e i valori che la nonna le ha lasciato come ultimo atto di amore e di fedeltà alla terra.

Le scelte stilistiche

La materia del componimento, come si è visto, è realistica, ma lo stile non lo è affatto. Troviamo infatti un’amplificazione epica delle scene narrative (che hanno il ritmo di un’arcaica saga contadina), l’indeterminatezza spazio-temporale della vicenda (nonostante l’autenticità dei toponimi) e una certa frammentazione dei dialoghi (che sembrano rimanere sospesi fra ampie zone di silenzio).

Assai originale è soprattutto l’incastro plurilinguistico, ottenuto grazie all’inserzione di vocaboli ed espressioni di diversa matrice: accanto al lessico dialettale (talla, v. 13; mòlgere, v. 36; banco, v. 58; nieva, v. 98) e a tasselli della lingua colta della tradizione (erta, v. 2; anella, v. 12; galla, v. 15; sbianchir, v. 85; lazzo, v. 86) e del vocabolario tecnico contadino (brocche, fuscelli, canapugli, v. 49), Pascoli immette nel linguaggio poetico l’idioma italo-americano, senza però alcun intento caricaturale (gli emigranti che ne fanno uso rappresentano per il poeta tutt’altro che ridicole macchiette): non si tratta dell’inglese standard, ma di una variante americana del registro familiare, su cui si innestano gli echi della parlata italiana (pai con fleva, v. 100; bisini, v. 113).

 >> pagina 494

Ma il plurilinguismo pascoliano non rimanda solo a una scelta di riproduzione del rea­le di stampo veristico. L’inglese da una parte e l’italiano e il dialetto garfagnino dall’altra simboleggiano infatti due mondi antitetici, con i rispettivi valori, in quanto la lingua è un fattore fondamentale dell’identità di una comunità: la nuova cultura dei figli (cioè delle vittime) dell’emigrazione, che hanno reciso il legame con la propria storia, di contro alla cultura originaria, espressione di una visione del mondo ancora pura e non corrotta dall’industrializzazione e dal capitalismo.

In mezzo a queste due opposte polarità sta il linguaggio ibrido degli emigranti di prima generazione (Ghita e Beppe), che nell’ostinata resistenza a non perdere del tutto il patrimonio della propria lingua rivelano di non aver abbandonato il desiderio di tornare in patria, tra gli affetti più cari, per rifarsi un nido (v. 125).

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi il contenuto dei versi antologizzati.

Analizzare

Individua e trascrivi nella tabella vocaboli ed espressioni in inglese, italo-americano e dialetto.


Inglese

Italo-americano

Dialetto





































Interpretare

3 Quali elementi positivi emergono nel racconto dei compaesani di Ioe-Beppe reduci dall’America?

sviluppare il lessico

4 Scrivi almeno cinque prestiti linguistici dall’inglese di uso comune, poi confrontali con quelli dei tuoi compagni e, insieme, divideteli per ambito d’uso (cibo, tecnologia, trasporti…).

scrivere per...

esporre

5 Descrivi in prosa, in un testo espositivo di circa 20 righe, la realtà sociale, economica e culturale che emerge dalla lettura del brano, come se dovessi comporre un racconto verista.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento