Myricae

Myricae

La prima raccolta poetica di Pascoli, Myricae, è unanimemente riconosciuta dalla critica come un crocevia di fondamentale importanza per la storia della lirica italiana: sia per gli aspetti linguistico-formali, fortemente innovativi, sia per i contenuti, insieme quotidiani e simbolistici. Si tratta di un’opera che risente della coeva temperie culturale europea forse molto più di quanto Pascoli stesso sospettasse e che fa di lui un autore imprescindibile per documentare il passaggio dalla letteratura dell’Ottocento a quella del Novecento. Non a caso, già nel 1910 il critico Emilio Cecchi definì quella di Pascoli «la poesia più ricca di futuro che la nostra letteratura contemporanea possegga».

Composizione, struttura e titolo

Myricae è una raccolta di poesie che viene pubblicata per la prima volta nel 1891, ma che da quella data avrà ancora una lunga vicenda sia compositiva sia editoriale, poiché vi saranno numerose edizioni, ciascuna con aggiunte di componimenti e revisioni da parte dell’autore:

1891: 1ª edizione 22 componimenti;

1892: 2ª edizione 72 componimenti;

1894: 3ª edizione 116 componimenti;

1897: 4ª edizione 152 componimenti (a partire da questa edizione Pascoli suddivide la raccolta in 15 sezioni, omogenee più dal punto di vista metrico che non da quello tematico);

1900: 5ª edizione con il totale definitivo di 156 componimenti;

1911: ultima edizione dell’opera, dopo altre quattro, frutto di piccole revisioni stilistiche e strutturali.

Come era accaduto per altre grandi raccolte, a cominciare dal Canzoniere di Petrarca, la vicenda compositiva di Myricae si estende per quasi tutto l’arco della vita dell’autore, a testimoniare l’importanza che quest’opera riveste nel suo percorso letterario.
Il titolo della raccolta deriva da un verso della quarta Bucolica di Virgilio, nella quale il poeta latino sceglieva di affrontare un tema più elevato e di innalzare il tono stilistico rispetto ai componimenti precedenti: Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae, vale a dire “Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici”. Gli arbusti e le tamerici, piante diffuse nelle zone mediterranee, costituiscono due emblemi della poesia pastorale e dello stile dimesso, che meglio si accorda con la realtà semplice della vita di campagna. Anche per Pascoli il termine myricae sta a indicare la predilezione per argomenti umili e quotidiani e, insieme, la sostanza stessa della sua poetica, lontana dalla magniloquenza; egli elimina pertanto la negazione dell’epigrafe virgiliana e ne rovescia il significato: la vita agreste, la pace della natura, il susseguirsi delle stagioni, la fioritura degli alberi da frutto, gli eventi meteorologici costituiscono infatti i motivi ricorrenti della raccolta, coerentemente con la ricerca di genuinità e purezza teorizzata nel Fanciullino.

I temi

«Sono frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane»: così l’autore sintetizza la materia delle proprie poesie nella prefazione all’edizione di Myricae del 1894 (poi stampata in tutte le successive). In realtà, i temi e i motivi della raccolta sono ben più numerosi e vasti, e anche i più semplici – come quelli citati dal poeta – si caricano sempre di ulteriori significati.
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La maggior parte dei testi di Myricae presenta quadretti di campagna, descrizioni di fiori, uccelli, fenomeni atmosferici, come il temporale, il lampo, il tuono. Il poeta dimostra di possedere una conoscenza diretta e ravvicinata del paesaggio, lontano dall’idealizzazione bucolica della tradizione letteraria. Della natura, però, Pascoli non restituisce soltanto, per così dire, “la superficie”. Essa viene vista infatti come fonte di consolazione, come luogo della memoria in cui poter rievocare il passato e l’innocenza perduta, ma anche di inquietudine e turbamento: ciò che il poeta intende evidenziare sono i valori simbolici e le risonanze interiori di una realtà apparentemente familiare, ma in verità assai misteriosa e perciò osservata con stupore infantile.
Non a caso è proprio l’infanzia un altro tema fondamentale di Myricae. Sono molte le figure di bambini presenti nei componimenti della raccolta. Essi sono per lo più piangenti, tristi, oppure poveri o malati: nel loro destino si riflettono le sofferenze private del poeta e le sue paure di fronte al male che pervade il mondo. L’universo sereno della remota “preistoria” dell’io, mitizzato nel «nido» come luogo sicuro degli affetti domestici, viene infatti ripercorso dalla memoria con struggente rimpianto, ma allo stesso tempo è caricato di sensazioni angosciose.
È come se tutta la realtà fosse circondata dal mistero. Mentre il Positivismo, fiducioso nella scienza e nelle sue possibilità, aveva concepito l’ignoto come un territorio da sottoporre a una ricerca condotta con metodo sperimentale, Pascoli, da autore decadente, ne fa il centro di una sofferta meditazione, che lo porta a valorizzare suoni, voci e immagini alla ricerca delle fitte corrispondenze che animano la realtà.
Tuttavia per Pascoli il male e il dolore dell’uomo rimangono insondabili: a generare la sofferenza non è la natura (che anzi è «madre dolcissima», come scrive nella prefazione alla raccolta), ma l’uomo sociale, responsabile dell’odio e della violenza, diverso da quello primitivo, considerato intimamente buono. Ciò spiega il senso di smarrimento e di solitudine che si respira nella raccolta e insieme l’aspirazione a una vita rinchiusa nell’ambito del «nido» familiare, gelosamente custodito e difeso dalle minacce esterne.
Collegato al tema del «nido» è quello dei morti. Anche in questo caso la biografia di Pascoli, scandita da lutti, ha influito sull’ispirazione di Myricae, dedicata fin dalla seconda edizione alla memoria di Ruggero Pascoli, il padre assassinato nel 1867. La morte non viene più intesa romanticamente come approdo ideale o come sublime annullamento: di fronte a essa e alle immagini che ne derivano – la tomba e il camposanto – non si prova che sgomento e paura. Allo stesso tempo, però, il poeta cerca continuamente di rinsaldare i vincoli spezzati, recuperando una sorta di comunicazione affettiva con i defunti della propria famiglia, in un rapporto che sappia trascendere i limiti spazio-temporali. Tra chi c’è ancora e chi è scomparso persiste un legame: i morti nella poesia di Pascoli sussistono in una condizione intermedia tra la vita e il nulla, e da lì possono tornare per incontrare i vivi (come accade in molti componimenti, spesso al momento del crepuscolo, prima che scenda la notte). Dunque, i congiunti scomparsi non esistono soltanto nel ricordo: al contrario, la loro presenza è reale, tangibile, quasi ossessiva nella coscienza dei sopravvissuti.
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Lo stile

La lingua e la sintassi

Un lettore di cultura e acume non comuni, lo scrittore Pier Paolo Pasolini, ha visto in Myricae di Pascoli il punto di partenza di una «rivoluzione stilistica» destinata a influenzare fortemente la produzione lirica italiana del Novecento.

Nella storia della lingua letteraria, l’esperienza pascoliana rappresenta infatti una profonda novità, in quanto alternativa al monolinguismo lirico di ascendenza petrarchesca, egemone nella tradizione poetica italiana. Possiamo affermare che, con Myricae, Pascoli porta a compimento nella scrittura lirica la rivoluzione inaugurata nel romanzo da Alessandro Manzoni: un progetto di «democrazia poetica» (Contini) che, abbattute le rigide selezioni classicistiche, estende il diritto di cittadinanza letteraria a tutti gli elementi della realtà; tanto l’illustre, lo specialistico e il peregrino quanto l’umile, il quotidiano e il consueto entrano a far parte della poesia.

Analizziamo le diverse componenti del lessico di Myricae a partire dalle osservazioni di Gianfranco Contini, che per primo l’ha studiato in maniera sistematica.

In primo luogo, sopravvivono nel lessico pascoliano vocaboli della tradizione letteraria (compresi termini di derivazione dantesca e, in generale, aulicismi), come conseguenza della formazione classicista dell’autore. Si tratta della componente meno rilevante: queste vestigia del codice poetico tradizionale consentono però di intravedere il punto di partenza della sperimentazione pascoliana e di valutare dunque appieno lo straordinario lavoro compiuto dal poeta nel percorrere la grande distanza che separa la lingua antica dalla nuova.

Sono poi presenti termini di un linguaggio “pre-grammaticale”, cioè estraneo alla lingua “istituzionale”, come per esempio le onomatopee per rendere determinati rumori (il din don delle campane o il fru fru di rumori nelle siepi) e i versi degli uccelli (il chiù dell’assiuolo o gli scilp, vitt, videvitt, dib dib bilp bilp di passeri e rondini). Si tratta di vocaboli al confine tra linguaggio umano e animale, semantico e non semantico.

Compaiono infine numerosi termini di un linguaggio “post-grammaticale”, cioè vocaboli tecnici e specialistici appartenenti alle cosiddette “lingue speciali”: dalla botanica alla zoologia, dalle tecniche agricole a quelle artigianali. Pascoli tende alla precisione e all’esattezza lessicale: è stato calcolato che in Myricae vengono nominate, con termini specifici, 56 specie di animali (soprattutto uccelli: assiuoli, cince, fringuelli, pettirossi...) e 66 tipi di piante (acanto, biancospino, fiordaliso, timo, veccia...).

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Non bisogna pensare però che la precisione delle scelte lessicali conduca al realismo. La puntualità dei vocaboli si pone in un continuo e sistematico rapporto con altre soluzioni espressive, che sfumano i contorni della rappresentazione. Di questo processo si possono individuare almeno tre modalità.

1 Nei singoli testi la precisione lessicale è sempre controbilanciata da «un fondo di indeterminatezza» (Contini): si pensi all’uso degli aggettivi in forma connotativa, che suggerisce senza descrivere, allude senza dire, indica senza distinguere: tremulo, fragile, gracile ecc.

2 Al dato oggettivo o naturalistico è quasi sempre legato un valore simbolico o allegorico, che fa perdere al primo consistenza concreta. Ciò vale spesso, per esempio, per le indicazioni cromatiche, che assumono ulteriori significati simbolici legati agli echi psicologici generati dai colori.

3 Il dissolvimento del realismo è raggiunto, infine, attraverso la messa in rilievo dei valori di senso veicolati da elementi non semantici (per esempio figure retoriche quali l’allitterazione, l’assonanza, l’iterazione).

Altrettanto nuovi e sperimentali sono gli aspetti sintattici. La sintassi risulta quasi sempre franta, spezzata, con frasi ridotte all’essenziale e con un significativo ricorso ai costrutti della lingua parlata e allo stile nominale. L’autore preferisce la coordinazione alla subordinazione, la brevità alla complessità del periodo e tende a rimpiazzare l’organizzazione regolare del discorso con un andamento ellittico, contratto, eliminando i soggetti espliciti, i verbi (soprattutto l’ausiliare “essere”) o le congiunzioni.

Quasi volesse così attingere alle forme primitive, elementari del dire poetico, Pascoli privilegia le modalità esclamativa e interrogativa del discorso, che danno voce allo stupore e alla domanda di fronte all’esistenza e ai suoi misteri. Nello stesso quadro rientra anche un uso originale della punteggiatura: per esempio la frequente adozione dei due punti con funzione di interruzione più che di spiegazione, e il massiccio ricorso a tutti i segni di interpunzione per frantumare il verso («son due… gli occhi, grave, apre: vede», Agonia di madre). Tutte queste peculiarità stilistiche indicano come Pascoli punti a un’inquieta movimentazione del discorso, tanto lontana dalla tradizione letteraria quanto vicina alla scrittura poetica della modernità.

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Le scelte retoriche e metriche

In Myricae Pascoli cura all’estremo le scelte espressive e a tal fine, coerentemente con la sua sensibilità simbolista, utilizza ampiamente tutte le figure retoriche tipiche della poe­sia decadente, soprattutto l’analogia e la sinestesia. La maggiore innovazione stilistica della raccolta è però l’uso frequente dell’onomatopea e il ricorso al fonosimbolismo: all’utilizzo cioè di parole già esistenti, che vengono scelte dal poeta in virtù del loro suono evocativo di una certa azione: per esempio sussurro, rimbombo, scricchiolio.

Sul piano metrico, non possiamo parlare di “rivoluzione” ma soltanto di “riforma”: Pascoli non abolisce la metrica tradizionale (non giunge cioè al verso libero), ma certamente la rivisita in maniera nuova. Partendo dalle strutture classiche (sonetto, terzina, quartina, madrigale, ballata), vi innesta accenti nuovi, adatti a esprimere timbri e toni nascosti, assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora, gli effetti musicali e ritmici delle frasi e delle pause (talora i versi sono spezzati dai puntini di sospensione). In tal modo la musica del verso appare più libera, ricca di echi e di rinvii che si prolungano nell’animo del lettore.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento