Giovanni Pascoli
I GRANDI TEMI
Traumatizzato dai lutti familiari, inerme davanti al mistero della realtà e della morte, Pascoli tenta di trovare sicurezza, conforto e protezione dalle minacce del mondo esterno negli affetti familiari, negli ambienti e nelle atmosfere più intime e care. Le immagini più ricorrenti della sua poesia evidenziano non a caso una costante opposizione dentro-fuori: al primo elemento sono associate le sensazioni di calore, dolcezza, purezza e amore, al secondo quelle di freddo, dolore, paura e morte.
Il desiderio di un mondo semplice e senza violenza, legato ai valori contadini, lo porta a osservare con terrore la civiltà industriale e la società di massa urbanizzata: secondo Pascoli il progresso di stampo positivistico, invece che garantire sicurezza all’uomo, lo ha esposto a nuovi pericoli, rendendolo piccolo e smarrito. Guardando alle tensioni del tempo presente il poeta scrive «Non c’è più la tranquilla immobilità», e definisce la scienza «crudele e inopportuna», perché colpevole di aver attentato alle illusioni dei sogni, al piacevole inganno della fede (Pascoli non crede in Dio, ma non sa rinunciare alla sua immagine) e alla felice ingenuità degli uomini: «Oh! Tu sei fallita, o scienza: ed è bene: ma sii maledetta». L’unica possibilità per conservare la propria integrità e salvare l’innocenza consiste per lui nel regredire all’età dell’oro dell’infanzia, mitico tempo sereno, non ancora toccato dalle inquietudini della modernità e della vita adulta.
La situazione reale del poeta è infatti quella dell’incertezza, dello smarrimento, della paura; non a caso, come ha notato lo studioso Vito Bonito, nella poesia pascoliana troviamo tante voci inarticolate e tanti segni di una regressione all’infanzia degli esseri viventi: il vagito del neonato, il belato dell’agnello, il pigolio dell’uccellino.
Si tratta di suoni più che di parole, quasi di voci pre-verbali: tra una ninna nanna e una cantilena funebre, tra un canto che si apre alla vita (i «canti di culla» che troviamo nella poesia La mia sera) e uno che prepara la morte, una continua onomatopea (non a caso, la figura retorica più frequente nelle poesie pascoliane) accompagna il viaggio del poeta nei respiri, nei bisbigli, nei lamenti e nelle grida che si percepiscono nel cielo, nelle cose, nella natura prima che svaniscano nel nulla, perduti per sempre.
2 Simbolismo e mistero
Del resto il poeta non è tenuto a illustrare o commentare il contenuto dei suoi testi, per quanto arcano esso sia: egli – annota Pascoli in uno scritto del 1895 – «non s’impanca a dir tutto, a dichiarar tutto, a spiegar tutto, come un cicerone che parlasse in versi; ma lascia che il lettore pensi e trovi da sé». Sta al lettore afferrare i sensi riposti, comprendere le allusioni cifrate e cogliere l’impalpabile verità del mondo, che non proviene dalla concretezza degli elementi descritti, ma dalle possibilità dell’animo di riconoscere aspetti che «sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione».
Per questo nella poesia di Pascoli troviamo un affollato repertorio di ombre e di morti, di misteriosi e arcaici strumenti musicali (basti pensare ai «sistri», che compaiono nell’Assiuolo, ▶ T11, p. 472 in Myricae), di sottintesi analogici («La Chioccetta per l’aia azzurra / va col suo pigolìo di stelle» che leggiamo nel Gelsomino notturno, ▶ T20, p. 505), fino alle prolungate sequenze di ardite sinestesie («Venivano soffi di lampi», per esempio, nell’Assiuolo, ▶ T11, p. 472).
A prima vista, le cose sulle quali si posa lo sguardo del poeta sono minute, quotidiane, semplici, come gli elementi naturali nei quadri degli impressionisti; ma questa attenzione per il dettaglio, ereditata da una formazione positivista, non ha la scopo di illustrare oggettivamente la realtà, per quanto essa sia nominata con estrema precisione. Per fare degli esempi, tra gli uccelli che incontriamo nei suoi versi ci sono rondini, pettirossi, capinere, cuculi, fringuelli, assiuoli, puffini, cinciallegre..., e tra i fiori e le piante troviamo mandorli, biancospini, viburni, meli, pioppi, gelsomini, digitali, acanti, tamerici...
Pascoli tende però a riferirsi alle cose non per come sono, ma per come le sente e le vede mediante un’«ottica rovesciata» (Bàrberi Squarotti) e visionaria che scruta al di là del fenomeno, alterando prospettive, rapporti e proporzioni. Dunque, se a prima vista può sembrare che gli elementi della natura siano rappresentati con realismo, essi tuttavia non vanno considerati in sé, bensì all’interno dei nessi emozionali che li legano alla dimensione interiore dell’io poetico. Dunque il poeta non ha interesse a perlustrare e registrare la varietà superficiale della natura: suo compito è invece quello di percepire «non so quali raggi X che illuminano a lui solo le parvenze velate e le essenze celate», leggendo il mondo come la foresta di simboli già immaginata da Baudelaire.
3 Fratellanza e patriottismo: l’impegno civile
Ma c’è anche – ed è forse la principale – una ragione ideologico-culturale più profonda. Nel Fanciullino Pascoli scrive che «il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta»: ciò significa che a lui non si chiede solo di esprimere la propria sensibilità soggettiva, ma anche di interpretare il sentimento collettivo, dando voce alle aspirazioni e ai bisogni dell’intera comunità popolare e nazionale.
Si tratta, evidentemente, della riproposizione di un modello romantico, che egli aggiorna attraverso la propria originale rilettura artistica. Raccolte come Odi e inni, Le canzoni di Re Enzio e Poemi del Risorgimento esprimono questa sua ambizione di vate, cantore della Storia e delle glorie nazionali; ambizione che lo porta, per esempio, a celebrare con il tono populistico della Grande proletaria si è mossa (1911) l’impresa coloniale libica come una soluzione al dramma dell’emigrazione. Il poeta conferisce infatti al proprio nazionalismo una motivazione umanitaristica, affermando il diritto degli Stati meno ricchi (come l’Italia, che è definita non a caso «proletaria») a conquistare nuove terre in cui i contadini possano trasferirsi. In tal modo gli italiani, costretti a migliaia a emigrare in cerca di fortuna al di là dell’oceano e spesso sottoposti a umiliazioni e soprusi, possono riacquistare dignità e lavoro, rinnovando la gloriosa tradizione di un popolo civilizzatore.
Anche prima della campagna libica, però, non mancano occasioni nelle quali Pascoli riversa sulla pagina quello spirito di fratellanza già prefigurato nel socialismo invocato nel Fanciullino. La pace sociale viene auspicata entro un invito alla solidarietà e alla condivisione al di là e al di sopra delle classi: «Uomini, pace! Nella prona terra / troppo è il mistero; e solo chi procaccia / d’aver fratelli in suo timor, non erra», scrive nella chiusa della poesia I due fanciulli (Primi poemetti).
Nel recuperare la lezione leopardiana della Ginestra, il poeta confeziona così un generico messaggio di concordia tra gli uomini che non si inserisce però in una compiuta ideologia politica: egli infatti non supera mai l’orizzonte psicologico del nostalgico cantore dei buoni e semplici valori contadini, neutralizzando all’interno di un’ingenua dimensione idilliaca i veri e duri conflitti che agitano l’Italia del suo tempo.
In tal modo anche il nazionalismo che affiora in alcuni versi, lettere e discorsi non coincide con un’autentica e aggressiva volontà di potenza, ma con la viscerale difesa (anche con le armi della guerra, se necessario) di una nazione e di un popolo oppressi. Il modello privato del «nido», da proteggere gelosamente dalle ingerenze degli estranei, si proietta così su quello pubblico della patria, da esaltare con passione e sentimento nella strenua difesa delle radici, dell’identità e delle tradizioni.
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento