La lezione antiretorica di Verga
Viene spontaneo accostare a Verga tutte le rappresentazioni del mondo contadino caratterizzato dalla miseria, chiuso in un fatalistico immobilismo ma a un certo punto corroso dall’improvviso irrompere della Storia a cui è sempre stato estraneo. La durezza della lotta per la vita, la spietatezza della legge economica, il bisogno di sopravvivenza o di affermazione che infierisce sul nucleo degli affetti familiari, la povertà e la sofferenza che inaridiscono i sentimenti e induriscono gli animi: ogni volta che la letteratura italiana del Novecento ha messo in scena questi aspetti e lo ha fatto senza indulgere alla retorica, al compiacimento paternalistico o peggio al populismo (sempre in agguato, quest’ultimo, quando gli scrittori si cimentano con la descrizione degli umili), la critica ha parlato di una “funzione Verga”, di una presenza cioè affiorante o addirittura condizionante specie nei periodi di crisi collettiva, di disagio sociale ed economico. In effetti, non è un caso che le discendenze letterarie verghiane maturino in epoche di tensione, a riprova della capacità dei romanzi e delle novelle dell’autore siciliano di superare, con una proposta contenutistica e formale di grande modernità, i confini cronologici o localistici a cui pure per molto tempo la sua produzione è stata confinata.